30 novembre 2007

Amore, Avvento e Speranza in un testo dell'allora cardinale Ratzinger (da "Cercate le cose di lassù")


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Grazie al sapiente lavoro del nostro Marco, possiamo leggere questo bellissimo testo dell'allora cardinale Ratzinger, arcivescovo di Monaco e Frisinga, tratto dal testo "Cercate le cose di lassù".
Veramente grazie a Marco per questa perla cosi' attuale perche' oggi e' uscita l'enciclica sulla speranza e domenica entreremo nel periodo dell'Avvento (in realta' gli Ambrosiani hanno gia' fatto "il passaggio" due settimane fa).

Raffaella


Amore, Avvento e Speranza...

In uno dei suoi racconti di Natale, lo scrittore inglese Charles Dickens narra la storia di un uomo che aveva perduto la memoria del cuore. Gli era cioè stata tolta l'intera successione di sentimenti e di pensieri prodotta in lui dall'esperienza della sofferenza umana. Lo spegnersi del ricordo dell'amore gli era stato offerto come liberazione dal peso del passato, ma ben presto si era visto che quell'uomo era cambiato totalmente: l'incontro con la sofferenza non suscitava più in lui nessun ricordo della bontà. Venendo meno la memoria, era scomparsa in quest'uomo anche la fonte della bontà. Era diventato freddo ed emanava un senso di gelo attorno a sé.
Lo stesso pensiero espresso da Dickens è presente anche nella rievocazione fatta da Goethe della prima celebrazione della festa di San Rocco a Bingen, finalmente ripristinata dopo la lunga interruzione delle guerre napoleoniche. Il poeta osserva la folla che sfila compatta attraverso la chiesa, davanti all'immagine del santo, e ne studia i volti: quelli dei bambini e degli adulti sono raggianti e riflettono la gioia del giorno di festa. "Ma per i giovani era diverso" racconta Goethe; "procedevano insensibili, indifferenti, annoiati". La motivazione che ne dà è significativa: in tempi cattivi, questi giovani non avevano niente di buono da ricordare, e quindi niente neppure da sperare. Ciò significa che solo chi può ricordare, può anche sperare. Chi non ha mai sperimentato il bene e la bontà non può ricordarli.

Un pastore d'anime, che frequentava persone sull'orlo della disperazione, raccontava la stessa cosa a proposito della propria attività: se si riesce a suscitare in una persona disperata il ricordo di un'esperienza del bene, questa può nuovamente credere nel bene, può tornare a sperare, e si schiude per lei una via d'uscita dalla disperazione. Ricordo e speranza sono legati indissolubilmente. Chi annulla il passato non crea speranza, anzi ne distrugge le basi spirituali.

Talvolta il racconto di Charles Dickens mi appare come un'immagine delle esperienze presenti. L'uomo a cui lo spirito ingannevole di una falsa liberazione ha sottratto la memoria del cuore … non vive forse in una generazione alla quale una certa pedagogia della liberazione ha annullato il passato e reso quindi impossibile la speranza? Quando leggiamo con quanto pessimismo una parte della nostra gioventù guarda al futuro… ci domandiamo da che cosa può dipendere. Immersa nel superfluo delle cose materiali, non le manca forse il ricordo della bontà umana, che induce a sperare? Con il disprezzo dei sentimenti, con lo scherno della gioia, non abbiamo calpestato anche la radice della speranza?

Con queste considerazioni ci soffermiamo sull'importanza dell'Avvento cristiano. Avvento infatti significa proprio intreccio di ricordo e speranza, tanto necessario all'essere umano. Esso vuole risvegliare in noi il vero e più intimo ricordo del cuore, il ricordo del Dio che si è fatto bambino. Questo ricordo è salvezza, questo ricordo è speranza. Lo scopo dell'anno liturgico è proprio quello di farci ripercorrere le grandi storie dei ricordi, per risvegliare la memoria del cuore e imparare a scoprire la stella della speranza. Tutte le feste dell'anno liturgico sono eventi della speranza. I grandi ricordi dell'umanità, che l'anno della fede custodisce e rivela, devono nella struttura dei tempi sacri, divenire ricordi personali della propria storia di vita attraverso la liturgia e le tradizioni. I ricordi personali si nutrono dei grandi ricordi dell'umanità; i grandi ricordi si conservano solo attraverso la loro trasposizione in memorie personali.

Che gli uomini conservino la fede dipende anche dal fatto che essa le è diventata cara nel corso della vita, che per mezzo di essa l'umanità di Dio è apparsa attraverso l'umanità degli uomini. Ognuno di noi potrebbe raccontare la propria storia sulla falsariga di ciò che significano per la sua vita i ricordi del Natale, della Pasqua o di altre feste. Il compito prezioso dell'Avvento è quello di donarsi reciprocamente ricordi di bene, aprendo così le porte alla speranza.

(tratto da "Cercate le cose di lassù", Paoline 1986)

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ENCICLICA/ PADRE BIANCHI: NON C'E' CONTRAPPOSIZIONE CON SCIENZA
Il priore di Bose: la novità del testo è l'esistenza dell'inferno

Roma, 30 nov. (Apcom) - Padre Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, non vede "contrapposizione" tra l'enciclica del Papa sulla speranza, da una parte, e la scienza, la filosofia e le idee politiche di sinistra, dall'altra e rileva che la principale novità del testo papale è la "insistenza" sul giudizio finale e l'inferno.
"Il fatto che la scienza e il progresso debbano avere dei limiti è ormai accettato da tutti, non riesco a vedere una contrapposizione", commenta padre Bianchi. Quanto al marxismo, "le critiche del Papa sono le stesse che i movimenti e le ideologie hanno fatto da sé", spiega il religioso. Quando affronta le 'speranze' che hanno contrassegnato la vita dell'Occidente a partire dalla modernità - illuminismo e marxismo tra l'altro - il Papa, secondo Bianchi, "fa vedere come in quelle ideologie ci fosse una ricerca speranza, ma ci fosse anche una distinzione rispetto alla speranza cristiana". Del resto, ricorda il priore della comunità di Bose, "altre volte il Papa ha ringraziato l'illuminismo per aver portato la ragione alla sua forza. Nell'enciclica fa solo vedere come ragione e libertà, se idolatrate, diventano fonte di alienazione".

Enzo Bianchi sostiene, poi, che la più rilevante novità dell'enciclica è il passaggio dedicato al giudizio universale, di paradiso e del rischio dell'inferno. "Da tempo nel cattolicesimo non si parlava più del giudizio, era un tema sottaciuto. Il Papa, invece, insiste sul giudizio finale in modo molto audace e determinato. Credo che ciò potrà dare molti frutti tra i cristiani e rafforzerà il loro senso di responsabilità".

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ENCICLICA/ RUSSIA CRISTIANA: SPERANZA VINCE DISPERAZIONE GIOVANI
P.Scalfi:"Ideologie avevano pretesa di portare Paradiso in terra"

Roma, 30 nov. (Apcom) - "È importante parlare di speranza soprattutto in questo momento, in cui si osserva tanta disperazione soprattutto tra i giovani (secondo le statistiche, la causa principale di morte per i giovani tra 15-25 anni è il suicidio)". Così padre Romano Scalfi, fondatore del Centro studi "Russia Cristiana", commenta la presentazione della nuova enciclica di Benedetto XVI intitolata 'Spe salvi'.
In essa ampio spazio è dedicato al marxismo e alla rivoluzione comunista, che - scrive il Papa - "si è verificata nel modo più radicale in Russia". Padre Scalfi, che anche durante il regime sovietico ha sempre cercato di far conoscere in Occidente la ricchezza della tradizione della Chiesa orientale (definita in quel periodo "Chiesa del silenzio"), afferma: "Nonostante qualcuno abbia visto delle analogie tra il messaggio marxista e quello cristiano, tra di loro non c'è alcun punto di contatto. La "speranza" marxista è utopismo: intende escludere Dio, nell'illusione di creare la felicità con le proprie mani; quest'ideologia ha affascinato molti, ma in conclusione anziché portare l'uomo alla perfezione l'ha disumanizzato". "Le ideologie - prosegue padre Scalfi - avevano la pretesa di portare il Paradiso in terra, di costruire un luminoso futuro contro Dio. Oggi vediamo invece che si è realizzato il contrario di quanto promettevano". Per il fondatore di 'Russia cristiana' quest'enciclica "riveste una particolare importanza, ora che sono cadute le ideologie". Inoltre, le tematiche affrontate dal Papa sono care alla cultura russa: "Secondo il grande intellettuale Sergej Averincev, "Il cristiano non può essere né pessimista né ottimista, ma realista". La tradizione orientale (quando è vissuta) ci aiuta a superare la tentazione dell'utopismo; diversamente dalla mentalità razionalista, la tradizione orientale non s'è mai affidata alla ragione da sola, ma sostiene che per conoscere occorra coinvolgere tutta la vita (parla infatti di "conoscenza integrale")".


Chi conosce il francese puo' leggere un interessante intervento della federazione protestante francesce segnalatoci dalla nostra Luisa.
Trovate il testo del commento sul sito de "La Croix" a
questo indirizzo.

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ENCICLICA PAPA: I PROTESTANTI APPREZZANO. I LAICI NO

(ASCA) - Roma, 30 nov - La nuova enciclica ''Spe Salvi'' di papa Benedetto XVI, la seconda del suo pontificato, con i suoi riferimenti alle radici della speranza ''ispirata'' dal dato di fede ma anche con le sue critiche ad un certo tipo di modernita' e ad uno scientismo che certo ''non salva'' l'uomo ha, come ovvio, provocato una ridda di interpretazioni, commenti e reazioni.
Reazioni che hanno fatto registrare maggior benevolenza tra i cristiani ''separati'' che negli ambienti cosiddetti ''laici''.
Ed e' cosi' che, ad esempio, il documento e' stato definito ''interessante anche per la riflessione ecumenica'' dal teologo protestante Daniele Garrone il quale, tuttavia, ha aggiunto che ''la rappresentazione delle cultura europea non puo' prescindere dal pluralismo delle voci''. ''Ad una prima scorsa - ha quindi argomentato Garrone - l'enciclica appare come un testo di sicuro interesse anche per la riflessione ecumenica, non solo per il richiamo alla interpretazione luterana e protestante di Ebrei 11,1, ma soprattutto per lo spazio che i riferimenti esegetici hanno nello sviluppo della trattazione teologica della speranza e del ritorno di Cristo''. ''Sara' interessante valutare - ha poi aggiunto - come un tema caro alla polemica di Benedetto XVI, quello del mondo 'senza Dio' perche' ha rivendicato nella modernita' la sua liberta' e la sua autonomia, viene qui sviluppato a partire da un testo della lettera agli Efesini e pronunciandosi su Bacone, Kant e Marx''.
Pieno apprezzamento, naturalmente, anche da una realta' laicale come quella dell'Associazione dei lavoratori cristiani. ''Una speranza non solo individuale ma collettiva''. Cosi' il Presidente delle Acli, Andrea Olivero, ha commentato l'enciclica sottolineando che ''si rimane catturati dalla centralita' di un tema, quello della speranza, straordinariamente importante per l'uomo di oggi. Il Papa - ha poi aggiunto - ha voluto parlare al cuore di ogni uomo e penso non ci sia nessuno, credente o non credente, che possa sentirsi non interpellato da questa Lettera e da questo messaggio''.
Di segno opposto il commento dei Radicali. ''Nessuna sorpresa nel leggere la 'nuova', e cioe' vecchia, enciclica di Papa Benedetto XVI, enciclica che i partiti della partitocrazia si affretteranno a celebrare e a prendere come punto di riferimento e fonte di profondissima 'ispirazione'. Vi si legge la consueta e invero assai consunta collezione di postulati contro la scienza, contro la ragione, contro la liberta' di scelta individuale'' ha detto Michele De Lucia, componente della direzione di Radicali Italiani e della Rosa nel Pugno. ''La verita', per Ratzinger - ha aggiunto -, e' una e con la 'v' maiuscola. Il monopolista della stessa, per Ratzinger e', naturalmente, Ratzinger, e la partitocrazia - compresi leader democratici, giovani ultracinquantenni, corre ad inginocchiarsi e a tradurre in legge i divieti di Santa Romana Chiesa. I nuovi roghi - continua - non si fanno piu' con paglia e fiammiferi; si fanno dettando allo Stato leggi che impongono divieti: divieto di scegliere, divieto di ricercare, divieto di curarsi, tutte cose che, mentre Benedetto XVI ci rassicura sul fatto che l'inferno esiste, assicurano intanto da subito l'inferno per chi e' vivo su questa terra''.
Una lettura culturale e' venuta, infine, dallo storico e direttore de L'Osservatore romano, Giovanni Maria Vian secondo il quale l'enciclica rappresenta una risposta allo allo stesso tempo ''ragionevolmente convincente'' e ''fiduciosa nell'aprirsi a una radicale novita''' allo smarrimento e al dolore del nostro tempo. Il documento papale, per Vian, e' ''limpido e impegnativo'' nel riflettere sull'affermazione neotestamentaria 'Siamo salvati nella speranza'. ''La spiegazione di Papa Ratzinger dei fondamenti dell'essere cristiano - si legge - muove dalla Scrittura, letta alla luce della tradizione cristiana, e dunque illuminata anche dall'esperienza di alcune figure esemplari''.


I Radicali pensano di confrontarsi con il Papa con questi argomenti? Auguri :-)
Al Tg5 Mons. Fisichella ha spiegato i punti essenziali dell'enciclica con la chiarezza e la sensibilita' che gli sono proprie. Un commento lusinghiero e' stato espresso, sempre ai microfoni del Tg5, anche da Paolo Mieli, direttore del Corriere della sera che ha definito l'enciclica "splendida". Essa meriterebbe, secondo Mieli, riflessioni di mesi se non di anni.
Speriamo che questo giudizio si traduca in una serie di approfondimenti sul Corriere che abbiamo visto un po' assente negli ultimi tempi.
Al Tg1 Mons. Forte ha commentato in modo chiaro e preciso l'enciclica puntanto l'attenzione sulla volonta' del Papa di confrontarsi con tutti, in particolare con la modernita'.
Piuttosto scontato, sempre al Tg1, il commento di Alberto Melloni che ha (uff) precisato che il Papa si sta allontanando dal Magistero di Giovanni Paolo II perche' si parla di speranza cristiana e non di speranza di pace. Bah! Ha concluso dicendo che il fatto che oggi si possa parlare di speranza e' gia' una speranza...
Al Tg2 commento molto interessante di Massimo Cacciari che ha spiegato la differenza fra la speranza dei filosofi (terribile perche' solo chi non sa spera, chi sa non spera...) e quella del Cristianesimo (che si basa sulla fede).
Cacciari ha definito molto interessante l'enciclica.
Straordinario, a mio avviso, sempre al Tg2, il commento di Vittorio Messori che ha messo l'accento sul fatto che finalmente si torna a parlare di certi argomenti dopo anni in cui la Chiesa era indaffarata piu' che altro ad impegnarsi nel sociale.
Il Papa non teme di parlare di Paradiso, Purgatorio ed Inferno!
Per quanto riguarda i vaticanisti ho trovato ottimi Marina Ricci e Lucio Brunelli (Tg5 e Tg2). Purtroppo non ho visto il commento del Tg1, presumo affidato a Valli
.
Raffaella

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l’intervista

Tauran: s’avvia un dialogo su nuove basi

DA ROMA GIANNI CARDINALE

«Ero molto con­tento della let­tera inviata a ot­tobre a firma di 138 perso­nalità musulmane ai leader delle Chiese e comunità cri­stiana e sono sicuro che que­sta risposta del Santo Padre verrà accolta con gratitudi­ne ».

Il cardinale Jean-Louis Tauran, dal primo settembre alla guida del Pontificio Con­siglio per il dialogo interreli­gioso, è visibilmente soddi­sfatto della piega che sta prendendo il dialogo tra la Chiesa cattolica e il mondo islamico.

«Come ho già det­to – spiega ad Avvenire – la lettera dei 138 è un docu­mento significativo, intanto perché è firmato insieme da personalità sunnite e sciite, il che non accade spesso, e poi perché usa un linguaggio e delle espressioni mutuate non solo dal Corano ma an­che dai Vangeli: un fatto nuo­vo ».

Eminenza, perché una ri­sposta «personale» della Chiesa cattolica alla lettera dei 138 islamici e non inve­ce una risposta collettiva di tutti i leader cristiani a cui è stata indirizzata?

Forse era difficile compilare una risposta collettiva da parte di tutte le Chiese e le comunità cristiane: avrebbe richiesto molto tempo e in­vece era bene rispondere ra­pidamente. Poi mi sembra che alcuni dei destinatari ab­biano già risposto.
Da ultimo poi, ma non per ultimo, nel­l’elenco dei destinatari della lettera il nome del Papa era messo in bell’evidenza al pri­mo posto, dopodiché c’era uno spazio e poi l’elenco del­le altre personalità cristiane. Ritengo che questo criterio grafico, certamente non ca­suale, meritava in qualche modo una risposta ad hoc.

Risposta che è stata firmata – a nome del Papa – dal se­gretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. Le è dispiaciuto un po’ che non sia stato il Pontificio Consiglio da lei presieduto a farlo?

Certamente no. Il nostro di­castero non è certo invidio­so che la risposta sia stata fir­mata dal più stretto collabo­ratore del Papa. Anzi, credo che anche gli interlocutori i­slamici saranno contenti di questa testimonianza della grande considerazione con cui è stata presa la loro lette­ra.
Il nostro dicastero co­munque è citato nella rispo­sta, laddove viene annuncia­ta la disponibilità ad un in­contro di lavoro con i firma­tari della lettera dei 138.

La lettera dei 138 e la rispo­sta vaticana segnano una svolta nei rapporti tra Chie­sa cattolica e mondo isla­mico?

Certamente questo dialogo ora viene rilanciato su nuo­ve basi. Ma da parte nostra non si tratta di una rivolu­zione copernicana. Bene­detto XVI aveva manifestato da subito la sua stima e il ri­spetto per i musulmani. L’a­veva fatto il 20 agosto 2005, durante la Giornata mon­diale della gioventù celebra­ta a Colonia quando, incon­trando i rappresentanti di al­cune comunità islamiche, a­veva detto: «Il dialogo inter­religioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta sta­gionale.
Esso è infatti una ne­cessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futu­ro ».

Però poi c’è stato il conte­stato discorso di Ratisbona...

È stata una interpretazione non corretta di quel discorso a generare incomprensioni. Ma la successiva visita pon­tificia in Turchia, l’allaccio dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti e, da ul­timo, la storica visita del re di Arabia Saudita al Papa han­no dimostrato che quel mo­mento critico è definitiva­mente superato.

Quali possono essere i con­tenuti di un dialogo fecon­do con l’islam?

Al di là del dialogo più pro­priamente teologico, che an­cora non è stato iniziato e che indubbiamente presenta non poche difficoltà, credo che possa essere molto fe­condo il dialogo della cultu­ra e della carità e anche il dia­logo della spiritualità. Insie­me con l’islam possiamo cer­tamente contribuire alla sal­vaguardia di alcuni valori, come la sacralità della vita u­mana, la dignità della fami­glia e la promozione della pa­ce. Come ho già detto in pas­sato è molto importante im­parare a conoscersi. Ognuno di noi ha sempre qualcosa da imparare dall’altro. Ad e­sempio, noi possiamo ap­prezzare nei musulmani la dimensione della trascen­denza di Dio, il valore della preghiera e del digiuno, il co­raggio di testimoniare la propria fede nella vita pub­blica. Da noi invece i mu­sulmani possono imparare il valore di una sana laicità.

Permangono le differenze però sul diritto alla libertà religiosa...

È vero. Su questo punto per­mangono notevoli differen­ze. La risposta alla lettera dei 138 fa cenno a questo pro­blema.

Ci sono speranze di un dia­logo fruttuoso su questo ar­gomento?

Il processo avviato da questo scambio di lettere, e la fidu­cia reciproca che sembra es­sersi stabilita, certamente potrà contribuire almeno a far discutere dell’argomen­to. Ma sarà – credo – un pro­cesso lungo. La Chiesa cat­tolica, con il documento del Concilio Vaticano II Dignita­tis Humanae, ha riscoperto il principio che nessun uo­mo può essere costretto o impedito a praticare una re­ligione. L’auspicio è che an­che l’islam riscopra fattiva­mente questo principio.

Nel frattempo è possibile in­trodurre con l’islam il prin­cipio della reciprocità?

Certamente, noi riteniamo che ciò che è buono per i cre­denti di una religione deve esserlo anche per i seguaci di un’altra. Così, se i musulma­ni hanno avuto giustamente una grande e bella moschea a Roma, è altrettanto neces­sario che i cristiani abbiano la possibilità di avere una chiesa a Riad. Ma questo principio della reciprocità può essere efficacemente di­feso grazie al dialogo diplo­matico della Santa Sede con i governi dei Paesi a maggio­ranza islamica.

È possibile dialogare anche con chi nel mondo islamico fomenta il terrorismo?

In linea di principio, la San­ta Sede parla con tutti, per­ché non ha e non vuole ave­re nemici. Con l’islam che predica e pratica il terrori­smo – che non è islam au­tentico ma una perversione dell’islam – evidentemente non è possibile alcun dialo­go. È difficile parlare con chi uccide prima di aprire la boc­ca. Certo, se si potesse con le parole far rinsavire i terrori­sti, sarebbe molto bello. Ma dubito che sia possibile.

È stato Benedetto XVI a pro­nunciare la condanna più decisa del terrorismo di ma­trice religiosa.

Lo ha fatto da­vanti al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 9 gennaio 2006 con parole che vale la pena ri­cordare: «Nessuna circo­stanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una re­ligione, abbassando così la pura verità di Dio alla misu­ra della propria cecità e per­versione morale».

© Copyright Avvenire, 30 novembre 2007

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L'attesa che abita già il cuore dell'uomo

Come si può vivere? Come è possibile "affrontare il nostro presente", spesso segnato dallo smarrimento e dal dolore? Come sopportare ogni giorno la fatica del vivere? A queste domande - che si agitano nel cuore di ogni donna e di ogni uomo del nostro tempo - vuole rispondere la seconda enciclica di Benedetto XVI.
Proprio come la Deus caritas est, anche questo documento papale, limpido e impegnativo, riflette su un'affermazione neotestamentaria, questa volta di san Paolo.
La risposta del vescovo di Roma è tanto ragionevolmente convincente quanto fiduciosa nell'aprirsi a una radicale novità. E l'essere cristiano - che secondo il Papa non è un'ideologia o una morale, ma l'incontro con qualcuno che davvero cambia la vita - sperimenta ogni giorno quella novità che Paolo annunciava quasi venti secoli fa: "Siamo salvati nella speranza". Nell'attesa cioè di un futuro che abita già il cuore dell'uomo.
Benedetto XVI si preoccupa di ripensare e spiegare i fondamenti della scelta cristiana, e la radice è la Scrittura; in questo caso soprattutto le lettere paoline, dettate in un mondo capace di esprimere la sua angoscia nelle parole di un epitaffio che sembra scritto dalla disperazione di oggi: in nihil ab nihilo quam cito recidimus ("nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo").
Su alcuni termini del Nuovo Testamento, radicato nella fede di Israele, il Papa fonda il suo confronto con la tradizione cristiana, anche quella espressa dalle immagini, per esempio scolpite sui sarcofagi a significare l'attesa del risveglio definitivo.
Benedetto XVI richiede a chi legge attenzione e impegno, come per tutto ciò che vale la pena. E riflettere su quanto attende il cuore degli esseri umani - magari oscuramente - vale davvero la pena.
La spiegazione di Papa Ratzinger dei fondamenti dell'essere cristiano muove dalla Scrittura, letta alla luce della tradizione cristiana, e dunque illuminata anche dall'esperienza di alcune figure esemplari: quelle dei santi.
Così il pensiero sulla speranza di Benedetto XVI - tanto imbevuto di testi cristiani, soprattutto patristici e medievali, quanto attento alla modernità - trova conferma nella storia cristiana dell'Ottocento e del Novecento. Come la vicenda di una piccola schiava africana, santa Bakhita, che riconobbe finalmente in Dio un "padrone" non più terribile, ma davvero "totalmente diverso" e che le cambiò la vita. O ancora la testimonianza sconvolgente, conservata in una vera e propria "lettera dall'inferno", del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin: pure nell'abisso del carcere e dell'odio scatenato nelle stesse vittime, anche questo "prigioniero per il nome di Cristo" sperimentò la salvezza nella speranza. E come lui un altro martire del nostro tempo poi creato cardinale, Nguyen Van Thuan.
Sorretto dalla tradizione cristiana - viva nei testi e viva in miriadi di donne e di uomini che hanno saputo testimoniare il nome del Signore fino all'estremo, ma anche nella pena e nella gioia di ogni giorno, nelle "piccole fatiche del quotidiano" - Benedetto XVI non teme il confronto con il pensiero moderno, anzi lo cerca, per un rapporto pacato e fiducioso. Così la spiegazione della speranza meditata e vissuta si accompagna nell'enciclica alla dialettica con quanti hanno originato il sentire del nostro tempo, spesso così lontano dalla speranza cristiana: dalle premesse di Bacone alla reazione di Kant alla Rivoluzione francese, la critica del Papa - che menziona quelle di altri pensatori del Novecento come Horkheimer e Adorno - arriva fino a Engels, Marx, Lenin, i cui insegnamenti sulla dittatura del proletariato hanno lasciato "dietro di sé una distruzione desolante", avendo "dimenticato l'uomo" e "dimenticato la sua libertà".
La critica di Benedetto XVI si rivolge però anche al cristianesimo moderno, quando esso si è "in gran parte concentrato soltanto sull'individuo e sulla sua salvezza", senza neppure riconoscere "la grandezza del suo compito"; benché resti "grande" ciò che esso ha fatto per l'educazione dell'uomo e la cura dei deboli e dei sofferenti.
Di fronte a quella che il Papa chiama "l'ambiguità del progresso" è allora necessario che la ragione - "grande dono di Dio all'uomo", al punto che "la vittoria della ragione sull'irrazionale è anche uno scopo della fede cristiana" - si apra alla fede, secondo una preoccupazione caratteristica del pensiero di Joseph Ratzinger e ora della sua predicazione come vescovo di Roma. Davanti poi al rischio individualista Benedetto XVI ripete con i Padri della Chiesa, il prediletto sant'Agostino e Henri de Lubac che la salvezza "è sempre stata considerata come una realtà comunitaria".
Salvati nella speranza, ogni giorno della vita su questo mondo i cristiani hanno atteso e aspettano le realtà ultime, dette un tempo novissimi - morte, giudizio, inferno, paradiso - e sul loro significato, radicalmente sempre attuale, il Papa riflette laicamente, citando Dostoëvskij e Platone. Ma le immagini della speranza più care alla tradizione cristiana sono quelle evangeliche, soprattutto secondo il racconto di san Luca. Dall'attesa umile e silenziosa di Israele con il vecchio Simeone e la profetessa Anna a quella di Maria, in viaggio per recarsi da Elisabetta e che si affretta sui monti della Giudea: "immagine della futura Chiesa che, nel suo seno, porta la speranza del mondo attraverso i monti della storia".
A lei Benedetto XVI affida se stesso e tutta la Chiesa, certo ricordando quanto disse nell'ultima omelia prima di essere eletto in conclave. Che tutto passa, il denaro, gli edifici, persino i libri, e che soltanto resta l'uomo creato per l'eternità: "Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane - l'amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l'anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane". Come rimarranno i frutti dell'enciclica in chi vorrà leggerla e meditare sulla speranza.

g.m.v.

(©L'Osservatore Romano - 1 dicembre 2007)

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"Nella speranza siamo stati salvati". La seconda enciclica di papa Benedetto

La scienza, la ragione, il progresso esaudiscono molte attese ma non danno la "vita eterna". Papa Joseph Ratzinger rimette i cristiani e il mondo davanti al giudizio di Dio. E porta ad esempio due santi, tra i più umili e sconosciuti

di Sandro Magister

ROMA, 30 novembre 2007 – L'enciclica "Spe salvi" sulla speranza, che Benedetto XVI ha firmato e pubblicato oggi, festa di sant'Andrea apostolo e antivigilia dell'Avvento, muove da questa motivazione, descritta così nel paragrafo 22:

"È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza.
"In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire.
"Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire delle proprie radici".

In questa doppia "autocritica" della cultura moderna e del cristianesimo, prosegue il papa, "ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione".


* * *

Bastano queste poche righe per capire quanto l'enciclica rechi l'impronta fortissima di Joseph Ratzinger filosofo, teologo e papa.
Sbaglierebbe però chi aspettasse di leggervi solo una dotta lezione. Lo stile è vibrante, l'argomentazione ricca di immagini, il racconto animato di personaggi.
Scorre davanti agli occhi del lettore l'intera storia del mondo, dal principio fino al suo compimento. Le pagine finali su Cristo giudice, sull'inferno, sul purgatorio, sul paradiso, sono folgoranti per i temi in se stessi – quasi spariti dalla predicazione nelle chiese – e ancor più per come sono sviluppati.

La lettura intera del testo è d'obbligo, come sempre per gli scritti di Benedetto XVI, che non hanno mai la pagina clou, la frase manifesto facilmente isolabile.

Ma per mostrare come la lettura di "Spe salvi" può riservare parecchie sorprese, ecco riportati qui di seguito due brani, tratti dal paragrafo 3 e dal paragrafo 37.
Portano ad esempio della speranza cristiana due santi, e non dei più famosi.
La prima è un'africana del Darfur, il secondo è un martire del Vietnam.

Santa Giuseppina Bakhita

Giungere a conoscere Dio, il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio.
Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia.
Qui, dopo "padroni" così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un "padrone" totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava "paron" il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo.
Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un "paron" al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona.

Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei, anzi, che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal "Paron" supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava "alla destra di Dio Padre". Ora lei aveva "speranza", non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e, qualunque cosa accada, io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona.

Mediante la conoscenza di questa speranza lei era "redenta", non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo, senza speranza perché senza Dio.
Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo "Paron". Il 9 gennaio 1890 fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione. La liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva "redenta", non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.

San Paolo Le-Bao-Thin

Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine.

Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.

Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede:

"Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (cfr Salmo 136 [135]).
"Questo carcere è davvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza.
"Ma Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me [...]. Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Salmo 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov'è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell'ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore.
"Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti [...]. Fratelli carissimi, nell'udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. [...] Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l'àncora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore...".
Questa è una lettera dall'"inferno". Si palesa tutto l'orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltà degli aguzzini.
È una lettera dall'inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: "Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti [...]. Se dico: “Almeno l'oscurità mi copra” [...] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce" (Salmo 139 [138] 8-12; cfr anche Salmo 23 [22],4).
Cristo è disceso nell'"inferno" e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili.

È sorta, tuttavia, la stella della speranza, l'àncora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.

© Copyright www.chiesa

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SPE SALVI: MONS. FORTE, L’AMORE “SI LEGA INDISSOLUBILMENTE ALLA SPERANZA”

“Solo se c’è in te una grande speranza potrai dare senso alla vita e amare al di là di ogni misura di stanchezza”.
È questo il filo conduttore tra le due Encicliche di Benedetto XVI secondo mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo di fama internazionale.
“Il cuore dell’uomo – spiega mons. Forte in un’intervista al SIR on line oggi su www.agensir.it – ha bisogno di amare e di essere amato per vivere e per affrontare la morte: è un bisogno non solo personale, ma anche collettivo. Dagli scenari del tempo, come da quelli del cuore, si leva una grande attesa di amore: ad essa ha inteso corrispondere l’Enciclica «Deus caritas est». Si tratta di un’attesa: e tutte le esperienze che le corrispondono restano comunque segnate dalla fragilità della vita, dalla caducità delle opere e dei giorni degli abitatori del tempo. Ecco perché il bisogno di amore si lega indissolubilmente alla speranza: l’attesa di un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi”. Mons. Forte evidenzia come nell’Enciclica Spe salvi il Papa offra “un’analisi storica di grande spessore, espressa in un linguaggio semplice, anche se con passaggi necessariamente complessi, e con tanti riferimenti a esempi vissuti: è la storia del concetto di speranza”.
“In particolare – precisa mons. Forte – il Papa mette in luce come la buona novella della speranza, come dono che viene da Dio e inizia in noi la vita eterna, sia stata trasformata nell’epoca moderna in una sorta di sconfinata fiducia nelle possibilità dell’uomo: la «redenzione» come dono di Dio è stata convertita in «emancipazione», opera dell’uomo che agisce da solo. Questo programma, però, si è rivelato fallace: i grandi racconti emancipatori, e cioè le ideologie moderne, hanno prodotto un cumulo enorme di violenza e di dolore”.
Mons. Forte ricorda, inoltre, come “i temi su cui si sofferma l’Enciclica” trovino “applicazione negli ambiti” del Convegno ecclesiale di Verona. “In ognuno degli ambiti sottolineati da Verona è la preghiera che nutre la speranza nell’incontro con la sua sorgente, il Dio vicino, l’Amato; è la sofferenza, offerta per amore, che sostiene ed esprime la fedeltà e testimonia nel tempo la speranza più grande; ed è il giudizio maturato sotto lo sguardo del Dio che viene che libera da inganni e manipolazioni”. Se Verona “insiste sugli ambiti – conclude mons. Forte – il Papa ha messo l’accento sulle attitudini necessarie per vivere in essi la speranza della fede”.

© Copyright Sir

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IL COMMENTO

Attacco la scienza autosufficiente ma la fede non può essere individualista

di MARCO POLITI

Scienza e progresso senza Dio non portano alla costruzione della società perfetta, anzi possono produrre orrori come si è visto con gli esiti della Rivoluzione russa. La seconda enciclica di papa Ratzinger contiene una critica serrata dell'autosufficienza della scienza e del puro dominio della ragione, come si delinea all'inizio dell'età moderna nel filosofo Francesco Bacone, e al tempo stesso una critica radicale della pretesa marxista di realizzare il "regno di Dio" in terra nell'ambito di una visione puramente materialista, che in ultima analisi non tiene conto della libertà dell'uomo.

In realtà l'enciclica riflette ancora una volta l'ansia di Benedetto XVI per un'Occidente diventato religiosamente tiepido e il suo desiderio profondo che i cristiani siano coscienti della loro fede e la sappiano mettere in pratica. L'idea di un cristianesimo individualista e che si rifugia in una dimensione di salvezza unicamente privata viene da lui respinta. A Marx , benché criticato per il suo "errore fondamentale", vengono riservate parole di inusitato apprezzamento per la sua vigoria di pensiero e acutezza di analisi. "Anche io mi sono stupito per il quasi-elogio a Marx", ha confessato il cardinale Gorge Cottier durante la conferenza stampa.

Il fatto è che papa Ratzinger chiede ai cristiani di essere veramente animati nella loro esistenza dalla fede. L'incontro con Cristo, spiega, costituisce la possibilità di una vera speranza, che assicura la vita eterna ma è anche pungolo a cambiare le cose in terra. L'amore redime, implica la giustizia verso gli altri, la com-passione con le sofferenze degli altri, la responsabilità concreta nei confronti dell'umanità. Insomma, "un continuo impegno per il miglioramento del mondo", sottolinea Benedetto XVI.

L'enciclica contiene anche una reinterpretazione suggestiva del Giudizio Finale, dell'Inferno e soprattutto del Purgatorio. "La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto". L'incontro con Cristo nel momento supremo "brucia" la sporcizia di un'anima e "la durata di questo bruciare non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo".

Un testo complesso, da studiare attentamente, che offre il fianco a riflessioni critiche. Affermare che nessuna giustizia autentica è realizzabile senza un'apertura alla trascendenza può essere giocato in chiave integralista nell'arena politica. E colpisce, nel mondo attuale globalizzato, l'assenza totale di un'attenzione alle concezioni di salvezza presenti in altre religioni.

© Copyright Repubblica.it

Beh, Politi, non si capisce come mai il Papa debba occuparsi anche delle altre religioni. Non sarebbe corretto...mi pare!
Inoltre la parola "ansia" non si concilia con il tema della speranza e il fatto che le parole del Papa possano essere interpretate malamente consegna ai giornalisti (ed in particolare ai vaticanisti) un compito immenso ed affascinante: riportare esattamente il pensiero di Benedetto XVI. Ratisbona docet...
Non critichiamo il Papa per quello che non ha scritto nell'enciclica ma meditiamo su cio' che ci ha detto.
Resta comunque vitale per TUTTI leggere il testo integrale e non le riduzioni.

Raffaella

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Il commento di padre Lombardi all'Enciclica del Papa

Sulla nuova Enciclica di Benedetto XVI ecco il commento del nostro direttore, padre Federico Lombardi:

Di fronte alla fatica e all’oscurità del presente, per camminare fiduciosi verso una meta abbiamo bisogno di una speranza affidabile e “sostanziosa”, cioè non fatta solo di parole vuote o atteggiamenti puramente soggettivi: una speranza che cambi davvero la nostra vita. Questa è la speranza donata a chi crede nel Dio che è amore. La speranza che mira ad immergerci alla fine nel suo amore infinito, abbracciarlo ed esserne abbracciati, non come singoli, ma insieme, in un incontro che ristabilisca giustizia, vita e salvezza, oltre tutte le ingiustizie e le assurdità della storia di questo mondo.
Dedicando la sua seconda Enciclica alla speranza, Benedetto XVI ha colto con acutezza uno dei problemi più urgenti e drammatici del nostro tempo, ma non si attarda in una facile descrizione della disperazione diffusa nel mondo, piuttosto affronta con umiltà e coraggio una lunga serie di domande difficili – a cui non sfugge, e che anzi va a cercare – per mettere direttamente a confronto gli interrogativi e i dubbi dell’uomo contemporaneo con le risposte della fede. La speranza cristiana non è un atteggiamento vuoto, puramente soggettivo? Che senso ha parlare di “vita eterna”? Non sono parole che evocano solo una noia infinita e che chiudono il cristiano in un deprecabile individualismo? Che lo alienano dall’impegno nel mondo e dalla responsabilità di lottare per trasformarlo fin d’ora con la forza della ragione e della scienza in un regno di maggiore giustizia e libertà?

Il Papa rovescia questi interrogativi indicando la vera natura della speranza cristiana e presentandola incarnata nella vita concreta di figure luminose di martiri e testimoni delle diverse epoche dalla Chiesa fino ad oggi. Non solo, ma il Papa è convinto che il rifiuto della fede e della speranza cristiana – in fondo il rifiuto di Dio – porti alla fine l’uomo a perdere se stesso. Per dirla con le parole impressionanti di Kant, “il regno dell’uomo solo” si risolve nella “fine perversa di tutte le cose”. Ma lo spirito del ragionamento di Benedetto XVI non porta affatto ad una critica meramente negativa, anzi, si pone ancora una volta in una prospettiva di dialogo, di aiuto reciproco fra ragione e fede. In un passaggio centrale, egli afferma che “è necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo con il cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell’autocritica della società moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici”.

Abbiamo tanto apprezzato i “mea culpa” risonati spesso nei discorsi dei Papi precedenti; qui abbiamo probabilmente un “mea culpa” caratteristico di questo pontificato, in cui la dimensione pastorale e quella culturale si uniscono così profondamente. Ma perché i cristiani imparino nuovamente che cosa hanno da offrire al mondo devono – come Benedetto XVI ha già detto nella prima enciclica – ripartire da Dio; non un Dio qualsiasi, ma il Dio che ci è venuto incontro e in Cristo si è rivelato come Amore. La fiducia in questo Amore – continua il Papa – alimenta una preghiera di desiderio che allarga il cuore; sostiene una speranza impegnata e operosa, che sa e vuole cambiare il mondo proprio perché mira aldilà di esso; trova la forza di portare le sofferenze e scoprirne il senso, anche quando sono ingiuste.

Infine, permette di affrontare la grande sfida ultima della fede e della speranza, cioè il problema terribile del male nel mondo, vera radice dell’ateismo moderno. E qui, senza compromessi e timidezze, il discorso del Papa giunge fino alle “cose ultime”, alle questioni del “dopo” questa vita, al purgatorio, all’inferno, al Giudizio; un Giudizio con la G maiuscola, visto ancora una volta non solo per l’individuo, ma per tutti. Un Giudizio che richiama con forza alla responsabilità, ma che ristabilisce in modo pieno e definitivo la giustizia e la immerge nella prospettiva dell’Amore. Un Giudizio a cui guardare dunque non con terrore, ma con speranza.

Certo, nonostante la finezza spirituale e la ricchezza culturale per intercettare gli interrogativi e le attese profonde dell’uomo d’oggi, non si può negare che si tratti di un discorso sconcertante per una mentalità abitualmente chiusa nell’orizzonte terreno, qual è quella di gran parte dei nostri contemporanei. Ma proprio questo è quanto di più importante i cristiani hanno da offrire loro, e diciamo pure anche di più bello. Siamo perciò grati a Benedetto XVI di averci riportato ancora una volta, con forza e dolcezza, con rigore e intensità spirituale, alle questioni decisive della proposta cristiana per l’uomo e per il mondo: quelle che spesso rischiamo di dimenticare, mentre sono quelle da cui dipende il nostro stesso modo di vivere e di camminare nel mondo.

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