31 marzo 2008

Ma la religione non è un fatto privato. Giuliano Ferrara replica ai "Cattolici invisibilisti" (Panorama)


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Su segnalazione della nostra Luisa leggiamo questa "strigliatona" di Giuliano Ferrara:

Ma la religione non è un fatto privato

Giuliano Ferrara

Per un po’ uno li sta a sentire, poi si ride. Ma insomma, ci vuole una bella opacità della mente e del senso storico per rifilare al pubblico, in questo anno di grazia 2008, l’idea che la religione sia un fatto privato e che la conversione di un musulmano il Papa non la deve celebrare nella notte di Pasqua, in San Pietro e a telecamere aperte.

Lasciamo da parte la questione canonica e teologica, il significato stesso di libertà religiosa di una conversione, il proselitismo e tutto il resto. Parliamo di storia e di politica.

Volete rendervi conto, cattolici invisibilisti che pretendete di calpestare le strade del mondo laico lasciando a casa la vostra cultura, di quanto il mondo sia cambiato dai tempi del Vaticano II? Rendersi conto di quel che muta non è oscurantismo reazionario, non è l’Inquisizione spagnola che ritorna, non è esclusivismo fondamentalista, fine dell’ecumenismo, distruzione della laicità: è realismo.

Il realismo di Nicolas Sarkozy, che parla dell’orizzonte religioso come della nuova frontiera su cui si dispone la storia europea. Di Tony Blair, che insegnerà «religione e globalizzazione» a Harvard. Di una pletora di intellettuali capaci di interrogarsi in tutto il mondo sul ritorno del sacro, sulla nuova sensibilità religiosa di massa.

Tra questi metterei perfino quel bravo scrittore e cronista dell’Unità il quale si è accorto, imbattutosi nella recente Via Crucis immersa nella pioggia battente, e così folta di partecipazione internazionale di fedeli, che tanti anni fa la Via Crucis era un piccola e laterale cerimonia per un pugno di fedelissimi del Papa Paolo VI, senza rilevanza nemmeno per il traffico intorno al Colosseo.

Roma a parte, come si fa a nascondere la verità della politica americana, intesa non come somma di banali notizie politiche ma come sviluppo strutturale di nuovi fenomeni sociali e civili ad alto impatto emozionale, culturale, civile? Fenomeni che coinvolgono i candidati alla presidenza ormai da decenni, i giudici della Corte suprema, le università e le case editrici, le cinture suburbane dove si fabbricano i voti dei «churchgoers», elettori evangelici praticanti che possono determinare vita o morte di un qualunque pretendente alla presidenza dell’impero?
Per anni giornali come Il Foglio o l’Economist hanno cercato di spiegare come stanno le cose in materia di relazioni tra religione e spazio pubblico. Invano, a quanto pare.

Hillary Clinton parla di Dio «con maggiore frequenza di quanto mediamente faccia un vescovo europeo» ha scritto da Washington Adrian Wooldridge.

E il suo guaio è che sulla strada ha trovato uno che non solo parla di Dio, come il predicatore laico Barack Obama, ma addirittura agisce scenicamente in tenuta profetica permanente, e costruisce sogni nazionali di unità, di riscatto, di salvezza con le stesse formule di oratoria religiosa con cui da sempre, nella storia americana, sono state giustificate e fondate le grandi battaglie contro la schiavitù, la segregazione dei neri, i diritti civili e l’unità patriottica del melting pot, del popolo dei diversi che si raduna intorno alla città costruita evangelicamente su una collina, la città della libertà di credere.

E con tutto questo gran circo religioso, mentre gli islamici è nell’esercizio legale della loro fede (la sharia) che attingono la forza della loro rivolta contro l’Occidente, mentre gli ebrei difendono la loro città sulla collina, il loro stato-guarnigione sorto dopo la Shoah, dall’atomica dei mullah iraniani, voi vorreste che la conversione a Cristo di un musulmano scivolasse nell’ombra della storia, al riparo dalle critiche e dalle «reazioni»? Ma siete matti? Ma in che mondo storico vivete?

© Copyright Panorama n. 14/2008

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CONVERSIONE DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: ARTICOLI, INTERVISTE E COMMENTI

A colloquio con il vescovo Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense

Ci vuole autorevolezza per essere riconosciuti come autorità

di Monica Mondo

Pontificia Università Lateranense. Un Papa l'ha fondata, Clemente XII, un Papa, Pio XI, le ha regalato la sede attuale, a lato della Basilica dei Papi. Un Papa, Giovanni XXIII, le ha dato il nome. E un Papa, Giovanni Paolo II, le ha donato un privilegio: "Voi dunque costituite, a titolo speciale, l'Università del Papa". Segno di predilezione, e di grande responsabilità, che ha accolto con passione il rettore monsignor Rino Fisichella, vescovo, teologo, intellettuale.
Parliamo con lui di educazione, rileggendo la Lettera del Papa ai fedeli di Roma "sul compito urgente della formazione delle nuove generazioni", ricordando i suoi maestri, e una pagina di biografia che le quarte di copertina dei numerosi suoi libri non raccontano. "I valori fondamentali li ho imparati in famiglia. Il papà, la zia, la mamma, da cui ho attinto la capacità di mettermi in preghiera, in silenzio. Se si sfoglia il dizionario di teologia fondamentale, la voce sul silenzio è scritta da me. Ho recuperato il suo valore teologico, ma il primo insegnamento viene da mia madre, che ogni giorno si ritirava in un cantuccio, col suo libro di preghiere".
La scuola è un professore di filosofia, padre Antonio Gentili, che gliel'ha fatta amare. E soprattutto il maestro scelto, von Balthasar, "la mia grande guida, anche se non è mai stato mio insegnante. La mia tesi di laurea e poi quella di dottorato, sono state su di lui. Ho letto tutto, tutto quello che lui ha scritto, ho le sue lettere...".

Affrontiamo innanzitutto il tema della tradizione in cui deve fondarsi ogni educazione e in cui si radica la missione di questa università: "Realizzare una sintesi intelligente di studio e vita, tra ricerca della verità ed esperienza esistenziale". Ci parli dell'importanza della tradizione. Da lì parte la riflessione del Papa.

Senza tradizione non c'è storia, perché il progresso cui l'uomo di oggi tende è realizzabile se si valorizza il frutto delle ricerche, della vita delle generazioni precedenti. C'è uno sviluppo, nella storia del pensiero, c'è una lenta progressione dinamica: volutamente uso un termine prestato dalla fisica perché significa che c'è un moto iniziale, che deve andare avanti, proseguire.

La tradizione è la condizione perché nello sviluppo dinamico non ci sia alterazione di concetti. Una civiltà coerente, una cultura degna di questo nome cresce nella misura in cui il passato è condizione delle possibilità del presente.

È tuttavia una parola che sa di antico, occorre renderla nuova, viva, rammenta il Papa. Come rafforzarla nei più giovani, attraverso l'esercizio di una critica non soltanto distruttiva?

La tradizione è la capacità di generare e di mantenere attiva la trasmissione da una generazione all'altra. È qualcosa di vivo, se non è viva non è tradizione. Ci troviamo in un periodo in cui sentiremo presto la nostalgia della tradizione, cioè quei valori fondamentali che costituiscono l'esistenza di una persona e danno senso alle domande sull'esistenza. È vero, c'è stato un momento in cui il concetto di tradizione è diventato spunto per una rottura con il passato. È un errore ripetuto in diverse epoche, che per mostrare l'originalità del presente si debbano rompere radici e legami. La natura non procede per salti, ma con regolarità. Se alteriamo lo sviluppo della natura non riusciamo più a governarla. Di un bambino non si può fare un uomo, di un adolescente neppure.

Nonostante la negazione del principio di autorità, frutto di un'idea di libertà stravolta, e pericolosa per la persona e per la società, "i giovani non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita". Anche chi non crede, cerca di credere. E tutti cercano un'autorità.

A me piace sempre andare all'origine del significato delle parole. Autorità viene dal latino augere, cioè crescere. Quindi è ciò che consente alla singola persona di crescere, non di essere sottomessa. Altrimenti è autoritarismo. Ci vuole invece autorevolezza, per poter essere riconosciuti come autorità. Non solo i giovani non vogliono essere lasciati soli, ma la società nel suo insieme sente fortemente il problema della solitudine. Pensiamo proprio al tema dell'educazione: la solitudine è la prima nota che si manifesta, nella famiglia, nella scuola, nella comunità cristiana. Sono sacche di solitudine che si sommano e creano il disagio, la sfiducia che qualcosa possa cambiare. Per superare questo orizzonte c'è bisogno di una circolarità formativa: ricreare le condizioni per cui scuola, famiglia, società siano in grado di comunicare e di testimoniare una corresponsabilità.

Responsabilità quindi non come colpa, che mortifica e frena, ma come volontà di rispondere a una chiamata.

Io sono realista, e amante della positività. Dobbiamo chiederci: che risposte possiamo dare agli uomini del nostro tempo? Siamo alla chiusura della terza epoca della storia dell'umanità, dopo quella antica, medievale, moderna. E adesso? È inevitabile che nei momenti di passaggio epocale ci sia crisi. Ma il Signore ha messo noi, e non altri, a vivere questo momento. Non possiamo rifugiarci nel passato né fuggire dalle responsabilità che ci sono date, oggi, per il futuro.

Benedetto XVI individua nel relativismo la crisi del nostro tempo. È una tentazione per tutti, anche per la Chiesa.

Ma dev'essere anche una provocazione a recuperare profondamente la nostra identità, a vivere più intensamente il senso di appartenenza. Queste due realtà devono camminare insieme. Se si vive solo l'identità c'è il rischio di rinchiudersi. Se si vive solo l'appartenenza c'è il rischio di non riconoscersi per quel che realmente si è: ci sono delle appartenenze puramente sociologiche, non sostenute dall'identità. Mentre l'esigenza di non sentirsi soli, quindi di appartenere, ci deve richiamare a un'identità di vita, di fede per i credenti. Questa non annulla l'identità personale, anzi, il Cristianesimo esalta l'identità dell'uomo. Per questo noi non abbiamo problema ad immetterci nelle diverse culture, con rispetto, trasformandole, orientandole, ma sempre assumendole tutte. Io sono profondamente italiano, per nascita, l'essere cristiano mi appartiene per scelta. L'una e l'altra cosa non sono in contraddizione.

E il rispetto, il valore del dialogo, non sono in contraddizione col riconoscimento della verità.

Chiunque di noi presto o tardi ha bisogno di certezze. Non possiamo fondare la nostra vita sulle ipotesi. "Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano", scrive Giovanni Paolo II, nella Fides et ratio. Presto o tardi dobbiamo fare i conti con la verità.

Torniamo al concetto di autorità, che non esclude il riconoscere gli errori, riprenderli, non "condividerli, come fossero le frontiere del progresso dell'umanità". La disciplina è necessaria.

Non la chiamerei disciplina, perché rischiamo di utilizzare un apparato linguistico non più comunicabile, che non lascia recepire il contenuto. Parliamo di stile di vita. Dare un metodo alla propria vita è espressione di libertà. La libertà è la condizione per dover scegliere. Scegliere significa prendere una cosa e lasciarne un'altra. La mia espressione di libertà si manifesta quindi nel saper rinunciare. Solo così costruisco la mia identità, mi rendo consapevole di esercitare la libertà. Si tratta quindi di una rinuncia non fine a se stessa, ma per crescere, per non restare in un'infanzia perenne, senza possibilità di decisione per la vita. Così come non sarò mai libero se non vedrò la libertà finalizzata alla verità su me stesso.

Queste parole, che educano, sono una proposta se fondate su una speranza affidabile, dice Benedetto XVI, e lo sperimentiamo nella vita. Come comunicare questa speranza attraverso degli incontri che segnino la traccia della nostra vita, come avvenne per Giovanni e Andrea sulle rive del Giordano?

Questo è il culmine del cristianesimo. Penso sempre che noi cattolici non abbiamo grandi network mediatici, grandi testate giornalistiche per comunicare. La nostra forza è nell'incontro interpersonale. Nell'ambito della trasmissione della fede sono due persone che si incontrano, e l'una risulta credibile nel momento dell'annuncio. Nessun sistema mediatico può convertirmi: da Gesù Cristo ai giorni nostri, la fede si è trasmessa attraverso un incontro di libertà, se manca questo, manca la spina dorsale del cristianesimo.

Alla radice della crisi dell'educazione c'è una crisi di fiducia nella vita, spiega il Pontefice. Ma la speranza potrebbe essere utopia, o consolazione, nei tanti momenti di bisogno.

No, è la certezza che la promessa di Dio viene mantenuta. Dobbiamo saper parlare della fede rivestendola con gli abiti della speranza. Le persone non credenti che ho incontrato erano piene di speranza, volevano da me un segnale di speranza. Non è un caso che san Paolo nella Lettera ai Romani parli del Dio della speranza. È Dio, che spera per noi. Dopo che ha dato tutto, che ha dato suo Figlio, inchiodato sulla Croce, questo Dio spera che il dono di sé non sia vano. Spera che gli uomini accettino la sua parola, che questa creazione, pur sotto la caducità del peccato, possa essere riportata al suo splendore. Cosa c'è di più bello? Se Dio spera, questa è la nostra missione, dare segni di speranza. Fin dall'inizio la Chiesa ha annunciato Cristo risorto, ma l'ha reso visibile attraverso l'Eucaristia. C'è il momento dell'annuncio, ma corroborato, fortificato dal segno concreto posto in atto. Si annuncia il senso del dolore, l'amore, ma ci vuole anche una Madre Teresa che per le vie di Calcutta prende quelli che si trovano per strada e dona loro il biglietto, come diceva, da presentare a san Pietro per entrare in Paradiso. Se c'è solo il segno, certamente quel segno rimane ambiguo. Può essere un segno di solidarietà, non di carità. Ma se c'è solo l'annuncio senza il segno, non andiamo incontro alla concretezza della vita.

(©L'Osservatore Romano - 31 marzo 1 aprile 2008)

"Sono io a stampare le Papa news". Panorama intervista Giovanni Maria Vian


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CONVERSIONE DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: ARTICOLI, INTERVISTE E COMMENTI

Sono io a stampare le Papa news

STEFANO LORENZETTO

Intervista Suo nonno e suo padre, prima di lui, hanno scritto per l’«Osservatore romano». Ma da quando Giovanni Maria Vian ne è direttore, molto è cambiato: nuova veste, nuovi collaboratori anche non cattolici perché il giornale deve essere luogo di confronto. Perfino un’apologia di Bruce Springsteen...

Al nuovo direttore dell’Osservatore romano stanno imbiancando l’ufficio. Incontro Giovanni Maria Vian in una stanzetta provvisoria. Ha appoggiato il crocifisso sul termosifone, scelta involontaria di alto valore simbolico: nessun ateo potrà più dire che Gesù è morto di freddo. Prima di traslocare in Vaticano, 188 metri in linea d’aria dallo studio del Papa, era docente di filologia patristica alla Sapienza di Roma. Di ogni riferimento storico mi produce copia all’istante. Deformazione professionale: «scripta manent».
Solo che ha l’abitudine di riciclare nel vassoio della stampante i documenti che s’ammonticchiano sulla scrivania, per cui sul retro di un foglio mi ritrovo una nota della Prefettura della Casa pontificia, «Impegni del Santo Padre», con stemma papale e timbro della segreteria di Stato. «Non lo faccio per l’ambiente, il cloro, quelle cose lì. È che sono stato abituato alla parsimonia e alla mia età non si cambia più».

Il 10 marzo ha compiuto 56 anni.

«Il giornale del Papa ne farà 147 il 1° luglio. M’interrogo sull’uso del tempo, sui talenti non trafficati. Guardo alle vite di alcuni personaggi del passato, al moltissimo che hanno saputo fare in pochissimo tempo, e misuro tutta la mia pochezza. L’umanista Lorenzo Valla morì a 50...».

Pausa interminabile.

«Mia madre mi chiamava scherzosamente monsignor Tardini, come il segretario di Stato del beato Roncalli. Indugio volentieri».

Sbircia lo Swatch, allacciato sul polsino della camicia secondo la moda Agnelli. Il cinturino è decorato da codici a barre, quelli che lo scrittore francese Marc Dem identificava col 666 dell’Anticristo.
Vian è in ufficio dalle 7. Entro le 14 deve chiudere l’edizione che alle 15 sarà bell’e stampata con la data di domani. I responsabili delle redazioni arrivano in processione a farsi approvare titoli e bozzoni. Marco Bellizi, capo del servizio religioso, è vestito di nero come un dignitario pontificio ma ha zazzera e anello metallico zingareschi.
Giuseppe Fiorentino, capo degli esteri, l’anello al dito ce l’ha di plastica e sul mento sfoggia una mosca alla Giolitti. «I giornalisti sono 27, cui si aggiungono 25 addetti alle edizioni estere, che io chiamo periodiche, perché per la Santa sede nessuno è straniero. Molte redattrici poliglotte sono maritate e con figli. Al mio arrivo Mary Elizabeth Lariviere s’è sentita in dovere di giustificarsi: “Sono sposata anch’io. Mio marito si chiama Dio”. È una bravissima suora statunitense».
Entra Raffaele Alessandrini, decano della cultura, con un titolo dirompente: «Anche per Giuda ci sarebbe stato perdono se avesse fatto penitenza».
Segue esegesi in romanesco: «Nun è mia, è di Sant’Ambrogio, eh». Il professor Vian, che ha all’attivo una bibliografia di 92 titoli dedicati ai Padri della Chiesa, annuisce indulgente. Imprimatur. Sopraggiunge Marcello Filotei, un altro della cultura. Porge un articolo. Il direttore scorre le prime righe: «Com’è?». Filotei: «Molto assertivo». Vian: «Cestino. Pardon: archivio sine die».
Per dare un’idea della prensilità intellettuale dell’uomo, basterà dire questo: il 27 novembre, un mese dopo che era stato nominato direttore, lo informai d’aver trovato L’Osservatore sul bancone della trattoria Alla Pergola a Fagnano di Trevenzuolo, profondo Veneto, offerto in lettura ai clienti; il 27 febbraio ha citato la curiosità in un editoriale di prima pagina intitolato «Per diffondere il quotidiano del Papa».

La diffusione, problema antico.

Sono 20 mila copie, che diventano 100 mila la domenica, quando usciamo in abbinamento con L’Eco di Bergamo. Una novità recentissima.

Le sue copie non si contano: si pesano.

D’accordo. Però pesano anche sulle finanze della Santa sede, purtroppo: perdiamo 4,5 milioni di euro l’anno.

Cesidio Lolli, responsabile della cronaca vaticana, incontrava quasi quotidianamente Pio XII e Giovanni XXIII. Lei vede spesso Benedetto XVI?

L’ultima volta l’altro ieri. Ma era un’udienza concessa al Pontificio comitato di scienze storiche, di cui faccio parte. Firmavo L’Osservatore da nove giorni quando mi telefonò il segretario monsignor Georg Gänswein: «È libero giovedì 8 novembre? Il Santo Padre gradirebbe averla ospite a pranzo».

Mi lasci indovinare: s’è liberato.

Sono salito nel Palazzo apostolico con Carlo Di Cicco, il vicedirettore che ho portato dall’agenzia Asca.

Indro Montanelli diceva: «È rassicurante vedere le colonne di piombo dell’“Osservatore”, grevi e solide come quelle della basilica vaticana».

Ci scrivevano mio nonno e mio padre. Io cominciai a collaborarvi nel 1977. Il primo atto da direttore è stato ispirarmi alla grafica degli anni Venti. Carattere Baskerville, via i fronzoli.

Dov’è nato?

A Roma. Mi battezzò in San Pietro il futuro Paolo VI, direttore spirituale di mio papà Nello, che era stato mandato da padre Agostino Gemelli a specializzarsi in biblioteconomia alla Biblioteca vaticana. Mio nonno Agostino era amico di San Pio X. Il suo fu l’ultimo matrimonio celebrato dal patriarca Giuseppe Sarto prima di partire per il conclave del 1903 dal quale sarebbe uscito pontefice. Mia madre Cesarina Ghioldi era una comasca di Guanzate, figlia di formaggiai, orgogliosa d’essere stata battezzata col rito ambrosiano: a testa in giù.

Ma Vian non è un cognome romano.

Famiglia veneziana, imparentata con l’ultimo ramo dei dogi Contarini, il casato che diede alla Chiesa il cardinale Gasparo, il Lutero italiano. Il capostipite, Andrea Vian, era un tagliaboschi friulano arruolato da Napoleone come granatiere. Nella battaglia della Beresina si salvò sventrando il cavallo e rannicchiandosi dentro la pancia.

È sposato?

Vedovo. Mia moglie Margarita Rodríguez è morta nel 2000. C’eravamo sposati nel 1984. S’è ammalata di sclerosi multipla. Non abbiamo avuto figli e in questi casi ci si domanda sempre... (Abbassa lo sguardo). Avrebbero visto l’agonia della madre.

Da chi è stato scelto?

Il direttore dell’Osservatore è nominato dal Papa. Credo che a suggerire il mio nome sia stato il segretario di Stato. Conosco il cardinale Tarcisio Bertone dal 1984. Eravamo entrambi collaboratori all’enciclopedia Treccani.

Lo scambio di consegne col precedente direttore Mario Agnes com’è stato?

Siamo passati dal lei al tu. Ha voluto presentarmi uno per uno i dipendenti e alle 12 abbiamo recitato tutti insieme l’Angelus, come si fa ogni giorno all’Osservatore. Al congedo mi ha detto: «Io 23 anni, tu almeno 25». Eravamo commossi.

Quando Benedetto XV nel 1920 chiamò alla guida dell’«Osservatore» il conte Giuseppe Dalla Torre, che sarebbe rimasto direttore per 40 anni, gli diede questo viatico: «Ricordatevi bene che la colpa è sempre vostra, soprattutto quando è Nostra».

Siamo l’organo ufficioso della Santa sede, non ufficiale. A parte la rubrica Nostre informazioni, che riporta nomine e udienze del Santo Padre.

Lei che mandato ha avuto?

Informare sull’Italia in un’ottica internazionale, dare più spazio alle Chiese orientali anche non cattoliche, allargare il parterre delle firme femminili.

E ha subito reclutato la storica Anna Foa, figlia del comunista Vittorio e pronipote del rabbino capo di Torino.

Credo sia la prima volta di una commentatrice ebrea sull’Osservatore.

Avete tessuto le lodi di Bruce Springsteen. Chissà la gioia del direttore della Cappella Sistina...

(Ride). Non conosco il punto di vista di monsignor Giuseppe Liberto. (Chiede lumi al redattore Filotei. Il responso è ferale: «Non vicinissimo»). Di musica abbiamo parlato tanto, dando spazio a tradizionalisti e innovatori.

La recensione sul cantante rock era firmata Stas Gawronski. Parente?

Il nipote di Jas, sì. Quindi parente del beato Pier Giorgio Frassati.

Il suo battezzatore Giovanni Battista Montini scriveva: «Sull’“Osservatore” non si parla di teatro, di sport, di finanza, di mode, di processi, di fumetti, di enigmistica».

«Ex professo», aggiungeva. Cioè non se ne parla d’abitudine. Infatti ho appena passato un pezzo di finanza del banchiere Ettore Gotti Tedeschi.

Il mio amico Cesare Marchi, che esordì proprio sull’«Osservatore», si vide troncare la collaborazione per aver proposto a Dalla Torre un elzeviro su Lesbia. Magari lei l’avrebbe pubblicato.

Non so: dovrei leggerlo. Come allievo di Manlio Simonetti, discepolo di Ettore Paratore, figurarsi se disprezzo Catullo. Posso avere pregiudizi per un poeta latino le cui opere furono salvate dai monaci medioevali? Tutta la tradizione classica è sopravvissuta grazie al Cristianesimo, come ho raccontato nel mio libro Bibliotheca divina.

Da agosto farà scrivere l’intellettuale di origine algerina Khaled Fouad Allam, che «La Repubblica» aveva ingaggiato per sostituire un Allam ben più famoso, Magdi, passato al «Corriere della sera».

Tutto è possibile, insciallah. Se Dio vuole, anche questa collaborazione ci sarà. Il Papa desidera che L’Osservatore sia luogo di confronto. È la grande lezione di Ratisbona.

Il vescovo Cesare Mazzolari, missionario comboniano nel Sudan del fondamentalista Hassan el-Turabi, mi ha detto: «Saranno i musulmani a convertire noi, non il contrario. A me buttano giù le scuole e voi gli spalancate le porte delle chiese. Se uno è ladro, non gli dai una stanza dentro il tuo appartamento, perché presto o tardi non troverai più i mobili».

Che la situazione non sia facile è sotto gli occhi di tutti. Quali altre strade abbiamo se non procedere insieme, preservando la nostra identità? È una sfida esigente, che la storia non incoraggia. Ma nella visione giudaico-cristiana la storia non è destinata a ripetersi ciclicamente: ha una direzione. Certo, già il Leopardi dubitava delle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità e da questo punto di vista il Novecento è stato tragicamente istruttivo. Però la speranza nel futuro accomuna ebrei, cristiani e musulmani. È un mistero quello che accadrà alla fine.

Come giudica la stampa italiana?

In chiaroscuro. Molto vivace, però un po’ troppo autoreferenziale, ripiegata sull’Italia. Se non fosse per Avvenire, Foglio e Riformista, gli esteri lascerebbero a desiderare. Idem la cultura. Si salvano l’inserto Agorà del quotidiano cattolico diretto da Dino Boffo e il supplemento domenicale del Sole 24 ore.

Quali giornali italiani entrano nella mazzetta di Benedetto XVI?

A parte L’Osservatore e Avvenire, so che il Santo Padre guarda tutti i giorni la prima pagina del Corriere.

Come lo sa?

Lorenzetto, lei è incorreggibile. Le faccio una confidenza che terrà per sé, intesi? Da un’allusione di monsignor Gänswein ho capito che Sua Santità trova divertenti le vignette di Emilio Giannelli.

Prima di arrivare qui, lei collaborava a molti giornali, compresi «Il Foglio» ed «Europa», il quotidiano della Margherita. Trasversalità sorprendente.

Ho sempre scritto su invito. E l’ho fatto ben volentieri, anche a costo di meritarmi gli appellativi di teocon e di teodem, a seconda degli occhiali ideologici inforcati da chi mi leggeva.

Il direttore del «Foglio» ha introdotto nella campagna elettorale il tema dei 130 mila aborti di stato praticati ogni anno in Italia. Giusto o sbagliato?

È un’iniziativa importante, perché un tema tragico come questo non può essere dimenticato. Ma una cosa è la petizione morale per la moratoria e un’altra cosa è la proposta politica.

Traduco: ha sbagliato a presentare la lista.

Qui parlo a titolo personale, come privato cittadino, non come direttore dell’Osservatore. A me pare che rischi di approfondire le divisioni su un tema che invece richiede il massimo consenso. Detto questo, Giuliano Ferrara resta un buon amico, una persona intelligente e coraggiosa che ha contribuito a innalzare il livello culturale e ideale del giornalismo italiano.

Quindi hanno ragione Silvio Berlusconi e Walter Veltroni a sostenere all’unisono che i temi etici non devono entrare nella competizione politica?

Sono temi che non vanno strumentalizzati. La difesa della vita umana dovrebbe stare a cuore a tutti i partiti. Concordo col presidente Giorgio Napolitano quando afferma che su questi argomenti non ci si deve dividere.
Se non ne parli, non ti dividi di sicuro.
Poi però le decisioni legislative vanno prese. La 194 è una legge di tutela della maternità. Deve prevenire gli aborti, non favorirli.

Ferrara vi fa il verso pubblicando ogni lunedì «L’Osservatorio romano». La lusinga o la indispettisce?

Ci fa un sacco di pubblicità gratuita. Pensi che al nostro ufficio diffusione arrivano lettori a chiederci le copie arretrate di articoli usciti nella finta edizione allegata al Foglio del lunedì.

Voi avete nella testata un motto evangelico. Ferrara ha preferito Giovenale: «Maxima debetur puero reverentia», al fanciullo si deve il massimo rispetto.

Anche noi abbiamo un motto laico: «Unicuique suum», a ciascuno il suo. Fu messo accanto al triregno e alle chiavi di Pietro nel 1862, quando al Papa cominciarono a strappare con la violenza lo Stato pontificio. Nella testata si legge: «Giornale quotidiano politico religioso». Prima politico, poi religioso. Montini insegnava che la politica è la forma più alta di carità.

Mentre aspettavo d’incontrarla, sono sceso nelle Grotte vaticane. Tomba di Paolo VI: nessuno in preghiera. Tomba di Giovanni Paolo I: lo stesso. Tomba di Giovanni Paolo II: ressa di fedeli. L’oblio colpisce anche i successori di Pietro?

L’oblio colpisce tutti. Il pontificato di Karol Wojtyla è stato il secondo più lungo nella storia, dopo quello di Pio IX: 27 anni e mezzo. Molti fedeli sono nati con lui, per loro è l’unico Papa.

Non ho trovato nessuno in preghiera neppure sulla tomba di San Pietro.

Forse la gente vede troppa tv.

La sua fede in Dio ha mai vacillato?

No. Ma non è merito mio.

Ha scritto un editoriale «Ai nuovi lettori» che si concludeva così: «Il male non avrà l’ultima parola». Ne è sicuro?

Sì, altrimenti non dirigerei un giornale che ha come secondo motto «Non praevalebunt». Le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa, ne sia sicuro anche lei. L’ha promesso Gesù.

© Copyright Panorama n. 13/2008

Benedetto XVI ai Salesiani: fedeli al carisma di San Giovanni Bosco per rispondere con "passione apostolica" all'emergenza educativa dei nostri tempi


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Benedetto XVI ai Salesiani: fedeli al carisma di San Giovanni Bosco per rispondere con "passione apostolica" all'emergenza educativa dei nostri tempi

Audacia” nell’annunciare il Vangelo, “pazienza” nel proporne ai giovani la radicalità e “cuore aperto” per cogliere le loro nuove esigenze. Benedetto XVI ha individuato in queste peculiarità il profilo dei Salesiani del 21.mo secolo, chiamati a fonteggiare una “grave emergenza educativa” e, nel contempo, a lasciarsi contagiare con slancio rinnovato dalla “passione apostolica” che fu di San Giovanni Bosco. Sono i pensieri che il Papa ha affidato ai membri del Capitolo generale dei Salesiani, ricevuti stamattina in udienza nella Sala Clementina del Palazzo apostolico in Vaticano. Il servizio di Alessandro De Carolis:

I giovani guardano al mondo che cambia - correndo - volto sociale, economico, politico e rivolgono agli adulti domande “sui problemi di fondo” - etici, culturali, ambientali - mostrando di avere un bagaglio di valori che parlano di “intensi desideri di vita piena, di amore autentico, di libertà costruttiva”. Intercettare queste aspirazioni e tradurle in risposte radicate sul messaggio di Gesù è vocazione specifica della Società Don Bosco, incoraggiata da Benedetto XVI a “continuare sulla strada di questa missione, in piena fedeltà” al carisma salesiano. Carisma che - come sottolineato dai lavori del 26.mo Capitolo generale della Congregazione, giunto quasi al termine - chiede a Dio le “anime” e nient’altro:

“Don Bosco volle che la continuità del suo carisma nella Chiesa fosse assicurata dalla scelta della vita consacrata. Anche oggi il movimento salesiano può crescere in fedeltà carismatica solo se al suo interno continua a permanere un nucleo forte e vitale di persone consacrate. Perciò, al fine di irrobustire l’identità di tutta la Congregazione, il vostro primo impegno consiste nel rafforzare la vocazione di ogni Salesiano a vivere in pienezza la fedeltà alla sua chiamata alla vita consacrata”.

Prima di affrontare il tema dell’educazione, Benedetto XVI ha insistito a lungo, nel suo discorso, sul fatto che siano anzitutto i religiosi Salesiani ad essere coerenti con la loro chiamata. E’ necessario che tutti ricevano una “solida formazione”, perché la Chiesa - ha ripetuto - deve poter contare su persone “di preparazione culturale aggiornata, di genuina sensibilità umana e di forte senso pastorale”. E tuttavia, queste caratteristiche oggi sono in conflitto con il processo di secolarizzazione, che - ha affermato il Papa - avanza nella cultura contemporanea” e “non risparmia purtroppo nemmeno le comunità di vita consacrata”. Dunque, ha rilanciato Benedetto XVI, l’Eucaristia quotidiana e comunitaria, la lectio divina, la “vita semplice, povera ed austera” aiutino a rafforzare l’identità dei Salesiani:

“Da qui nascerà l’autentica spiritualità della dedizione apostolica e della comunione ecclesiale. La fedeltà al Vangelo vissuto sine glossa e alla vostra Regola di vita, in particolare un tenore di vita austero e la povertà evangelica praticata in modo coerente, l’amore fedele alla Chiesa e il generoso dono di voi stessi ai giovani, specialmente ai più bisognosi e svantaggiati, saranno garanzia della fioritura della vostra Congregazione”.

Questo “modello apostolico”, proprio dei Salesiani, può allora rispondere a quella “grande emergenza educativa” che Benedetto XVI aveva già sollevato con la sua Lettera alla Diocesi di Roma dedicata a questo tema. “Educare non è mai stato facile - ha ripetuto con le note parole di quella lettera - e oggi sembra diventare sempre più difficile: perciò non pochi genitori e insegnanti sono tentati di rinunciare al proprio compito, e non riescono più nemmeno a comprendere quale sia, veramente, la missione loro affidata”. Il motivo? Un acuto deficit di speranza:

“Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita”, che, in fondo, non è altro che sfiducia in quel Dio che ci ha chiamati alla vita. Nell’educazione dei giovani è estremamente importante che la famiglia sia un soggetto attivo. Essa è spesse volte in difficoltà nell’affrontare le sfide dell’educazione; tante volte è incapace di offrire il suo specifico apporto, oppure è assente. La predilezione e l’impegno a favore dei giovani, che sono caratteristica del carisma di Don Bosco, devono tradursi in un pari impegno per il coinvolgimento e la formazione delle famiglie”.

© Copyright Radio Vaticana

Il Papa ai Salesiani: "Il processo di secolarizzazione non risparmia purtroppo nemmeno le comunità di vita consacrata"

Clicca qui per leggere il testo del discorso che il Santo Padre ha rivolto ai partecipanti al Capitolo Generale della Società Salesiana di San Giovanni Bosco (Salesiani).

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(Filippo Lippi, "Annunciazione")

La Chiesa celebra la Solennità dell'Annunciazione

Oggi la Chiesa celebra la Solennità dell’Annunciazione, spostata dalla data del 25 marzo per la coincidenza con l’Ottava di Pasqua. Benedetto XVI lo ha definito uno stupendo e ineffabile mistero che ha dato il via alla nuova era dell’umanità. Ma ascoltiamo le parole del Papa nel servizio di Sergio Centofanti.

“L’Annunciazione … è un avvenimento umile, nascosto – nessuno lo vide, nessuno lo conobbe, se non Maria –, ma al tempo stesso decisivo per la storia dell’umanità. Quando la Vergine disse il suo ‘sì’ all’annuncio dell’Angelo, Gesù fu concepito e con Lui incominciò la nuova era della storia”.

Così il Papa ha descritto l’Annunciazione nell’Angelus del 25 marzo 2007.

Per Benedetto XVI questo evento ci mostra come l’umiltà sia “il modo di agire di Dio”. Ed è l’umiltà di Maria “ciò che Dio apprezza più di ogni altra cosa in lei”. Dall’incontro di queste due umiltà, “l’umiltà del Creatore e l’umiltà della creatura … è nato Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo”.

L’Arcangelo Gabriele – ha poi sottolineato il Papa durante la visita alla parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice il 18 dicembre 2005 – saluta Maria con una parola particolare: “gioisci, rallegrati”:

“Possiamo quindi dire che la prima parola del Nuovo Testamento è un invito alla gioia: ‘gioisci, rallegrati!’. Il Nuovo Testamento è veramente ‘Vangelo’, la ‘Buona Notizia’ che ci porta gioia. Dio non è lontano da noi, sconosciuto, enigmatico, forse pericoloso. Dio è vicino a noi, così vicino che si fa bambino, e noi possiamo dare del ‘tu’ a questo Dio”.

L’Arcangelo Gabriele invita Maria a “non temere”:

“In realtà, vi era motivo di temere, perché portare adesso il peso del mondo su di sé, essere la madre del Re universale, essere la madre del Figlio di Dio, quale peso costituiva! Un peso al di sopra delle forze di un essere umano! Ma l’Angelo dice: ‘Non temere! Sì, tu porti Dio, ma Dio porta te. Non temere!’ … Maria dice questa parola anche a noi”.

Il Papa infine medita sul sì di Maria alla volontà di Dio:

“Maria ci invita a dire anche noi questo ‘sì’ che appare a volte così difficile. Siamo tentati di preferire la nostra volontà, ma Ella ci dice: ‘Abbi coraggio, dì anche tu: Sia fatta la tua volontà’, perché questa volontà è buona. Inizialmente può apparire come un peso quasi insopportabile, un giogo che non è possibile portare; ma in realtà non è un peso la volontà di Dio, la volontà di Dio ci dona ali per volare in alto, e cosi possiamo osare con Maria anche noi di aprire a Dio la porta della nostra vita, le porte di questo mondo, dicendo ‘sì’ alla Sua volontà, nella consapevolezza che questa volontà è il vero bene e ci guida alla vera felicità”.

© Copyright Radio Vaticana

Se uno si convertisse all'Islam sarebbe una sfida? Lettera a Beppe Severgnini (Corriere)


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CONVERSIONE DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: ARTICOLI, INTERVISTE E COMMENTI

Su segnalazione di Eufemia leggiamo:

Se uno si convertisse all'Islam sarebbe una sfida?

Egregio Severgnini, la sto studiando. Non ero un lettore del "Corriere" e pertanto l'ho conosciuta solo di recente attraverso i suoi libri. Superbi. Da essi tuttavia traspare che lei è credente e per di più cattolico. Un credente-cattolico-brillante per me è una novità in assoluto e per questo la osservo. Osservo ad esempio che risponde ad un lettore giustificando il comportamento di Allam e della chiesa, in relazione al recente suo battesimo, in ragione della lotta all'islam radicale. Davvero pensa che per la lotta all'islam radicale da parte di un musulmano sia una buona idea farsi battezzare dal Papa,

Sandro Tigli,

Penso, caro Tigli, che nella notte di Pasqua l'obiettivo di Magdi - e quello di Benedetto XVI - non fosse "lottare contro l'islam radicale". Si trattava della conversione di un personaggio che ha deciso - non da oggi - di vivere la sua fede in pubblico. Una provocazione? Solo se qualcuno vuole considerarla tale. Ma allora dovremmo chiederci: perché? Se un cristiano si convertisse pubblicamente all'Islam non credo che la prenderemmo come una sfida, un oltraggio o altro.

Italians di Beppe Severgnini

Bella risposta! Diamo atto a Severgnini di avere preso una posizione chiara, non censoria!
Al signor lettore vorrei ricordare che di Cattolici brillanti ce ne sono moltissimi
.
R.

Regina Coeli: audio integrale di Radio Vaticana

Clicca qui per riascoltare le parole del Papa alla recita del Regina Coeli.

Le tappe cagliaritane di papa Ratzinger (7 settembre 2008)


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VISITA PASTORALE DEL PAPA A CAGLIARI (7 SETTEMBRE 2008): LO SPECIALE DEL BLOG

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Le tappe cagliaritane di papa Ratzinger

Definito il programma della visita di Benedetto XVI, due gli incontri coi fedeli

Mario Girau

CAGLIARI. Definito il programma della visita di Benedetto XVI, il 7 settembre, in Sardegna, per chiudere le celebrazioni per il centenario della proclamazione della Madonna di Bonaria Patrona massima della Sardegna. La casa pontificia nei giorni scorsi ha comunicato ai vescovi isolani le tappe cagliaritane della visita papale, che saranno ulteriormente perfezionate, negli orari e negli incontri, nelle prossime settimane, quando arriveranno in città alcuni dignitari del cerimoniale vaticano. I funzionari della Santa Sede apporteranno le limature organizzative necessarie per coniugare il desiderio dei vescovi isolani di mettere in contatto il Papa con significative realtà della chiesa sarda con l’esigenza di non stancare eccessivamente l’ottantunenne pontefice. Un mese fa è stato costituito un comitato per il coordinamento delle iniziative programmate dalla varie diocesi sarde.
L’aeromobile con stemma pontificio dovrebbe atterrare a Elmas intorno alle 9. Benedetto XVI, accolto dall’episcopato isolano e dalle autorità regionali, raggiungerà Cagliari. Sia Paolo VI, il 24 aprile 1970, sia Giovanni Paolo II, il 19 ottobre 1985, furono salutati ufficialmente dal sindaco, entrambe le volte Paolo De Magistris, davanti al palazzo civico. Non è improbabile che lo stesso accada anche il 7 settembre.
Brevi discorsi, prima di salire sul colle di Bonaria per il solenne pontificale, davanti a “piazza dei Centomila”, concelebrato con i vescovi sardi, che dovrà necessariamente concludersi qualche minuto prima delle 12, ora canonica della recita dell’”Angelus”. Subito dopo il rientro in sagrestia, il corteo papale si trasferirà nel seminario regionale sardo, in via Parragues, nel quartiere di Bingia Matta-San Michele, parrocchia di Sant’Eusebio, dove Benedetto XVI consumerà un pasto leggero con l’episcopato sardo. “In ottantuno anni, il seminario è stato fondato nel 1927, è la prima volta - dice il rettore don Gianfranco Pilotto - che un Papa visita il seminario regionale.
Il Sommo Pontefice non viene per inaugurare questa nuova struttura ultimata nel 2006, ma la sua presenza è, in pratica, la più solenne delle inaugurazioni che si potesse immaginare. Per questo la notizia ha riempito di gioia me, gli educatori, i seminaristi, le suore. Una visita che entrerà nella storia del nostro seminario maggiore”.
Sarà, invece, la seconda volta che un papa metterà piede nel seminario diocesano, dove Benedetto XVI si trasferirà, per un breve riposo postprandiale, nell’appartamento arcivescovile recentemente realizzato da monsignor Giuseppe Mani con la ristrutturazione degli uffici di Curia. Paolo VI nella cappella del seminario di via monsignor Cogoni incontrò i sacerdoti sardi, ultima tappa del suo soggiorno cagliaritano. Primo impegno pomeridiano di Joseph Ratzinger sarà l’incontro, in cattedrale, col clero secolare e regolare. Intorno alle 17, nel largo Carlo Felice, come Giovanni Paolo II, il Papa si unirà ai giovani di tutta l’isola per dialogare con loro su Cristo vera speranza del mondo, anche di quello giovanile.
Prosegue, intanto, il pellegrinaggio della Madonna di Bonaria. Dopo le diocesi di Ozieri, Alghero-Bosa, Nuoro e Sassari, da sabato scorso il simulacro della Vergine si trova in quella di Iglesias: ieri il trasferimento a Carbonia dove resterà fino a domani. Si chiude questo pomeriggio l’anteprima della mostra, curata da Roberto Porrà, Maria Bonaria Lai, Giuseppina Usai, allestimento di Antonio Venturoni, della Sovrintendenza archivistica per la Sardegna, sui più importanti documenti della biblioteca dei mercedari, che saranno presentati nella loro interezza (680 pezzi tra volumi e registri) nella settimana della visita papale.

© Copyright La Nuova Sardegna, 31 marzo 2008

Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani di Sandro Magister


Vedi anche:

IL PAPA E L'ISLAM: LO SPECIALE DEL BLOG

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CONVERSIONE DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: ARTICOLI, INTERVISTE E COMMENTI

Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani

Lo fa capire "L'Osservatore Romano", che dialoga con il sovrano saudita proprio mentre infuriano le critiche al papa per aver battezzato un celebre convertito dall'islam. La replica di Pietro De Marco ad Aref Ali Nayed

di Sandro Magister

ROMA, 31 marzo 2008 – Alle accuse che hanno colpito Benedetto XVI per aver battezzato nella veglia di Pasqua il convertito dall'islam Magdi Cristiano Allam – di cui www.chiesa ha riferito in un servizio di tre giorni fa – la Santa Sede ha risposto in due modi, diretto e indiretto.

In modo diretto la Santa Sede ha espresso il suo punto di vista su "L'Osservatore Romano" del 25-26 marzo con una nota del suo direttore Giovanni Maria Vian. E poi con una dichiarazione alla Radio Vaticana, il 27 marzo, del suo direttore padre Federico Lombardi.

Ma ancor più interessanti sono i modi indiretti con cui la Santa Sede, all'incirca negli stessi giorni, ha ribattuto alle critiche.

La palestra di queste risposte indirette è stata di nuovo "L'Osservatore Romano".

Giovedì 27 marzo il giornale del papa ha dedicato un ampio servizio alla figura di Ramon Lull – noto in Italia come Raimondo Lullo – vissuto tra i secoli XIII e XIV, francescano, grande conoscitore della lingua e della letteratura araba, ardente promotore di una predicazione missionaria mirata a convertire e battezzare le popolazioni musulmane nei paesi mediterranei dominati dall'islam.

Il titolo dell'articolo – firmato da una specialista del tema, Sara Muzzi – era di per sé eloquente: "Raimondo Lullo e il dialogo tra le religioni. Se ti mostro la verità finirai con l'abbracciarla".

In effetti, come risulta anche dai suoi libri, Lullo si battè per promuovere una predicazione missionaria pacifica, tutta fondata sulla conoscenza delle due fedi, sulla forza del convincimento e sull'argomentazione razionale della verità.

Due giorni dopo, sabato 29 marzo, "L'Osservatore Romano" ha dedicato due servizi a due momenti di dialogo tra la Chiesa cattolica e l'islam, mostrando come tale dialogo registri promettenti sviluppi proprio nei giorni delle polemiche contro il battesimo di Allam amministrato dal papa.

Il primo segno promettente evidenziato riguarda l'Indonesia, il più popoloso paese musulmano del mondo. L'8 e il 9 marzo si è tenuto a Yogyakarta un incontro tra rappresentanti cristiani e musulmani, con la presenza di buddisti e induisti, su come le religioni possono collaborare nel rispondere alle sfide portate dalla globalizzazione. Inoltre, nei giorni di Pasqua, nella capitale Jakarta trentacinque autorevoli ulema di altrettante scuole islamiche hanno lanciato un appello perché l'istruzione data ai giovani musulmani sia svolta in forma corretta e rispettosa, libera da qualsiasi giustificazione della violenza. Titolo del servizio: "In Indonesia prove di dialogo tra cristiani e musulmani"

Ma con ancor più evidenza "L'Osservatore Romano" ha dato notizia, nella stessa pagina, di alcuni fatti recenti dell'Arabia Saudita, sotto il titolo: "Il re saudita per un incontro 'con i fratelli di fede'. Abdullah, davanti alla crisi dei valori etici, apre al diaìogo con cristiani ed ebrei".

In apertura del servizio il giornale vaticano ha riportato queste parole di Abdullah:

"C'è un pensiero che mi ossessiona da due anni. Il mondo soffre e questa crisi ha causato uno squilibrio della religione, dell'etica e dell'umanità intera. [...] Abbiamo perso la fede nella religione e il rispetto per l'umanità. La disintegrazione della famiglia e l'ateismo diffuso nel mondo sono fenomeni spaventosi con cui tutte le religioni devono fare i conti e che devono sconfiggere. [...] Per questo ho pensato di invitare le autorità religiose a esprimere un parere su ciò che accade nel mondo e, se Dio vuole, cominceremo a organizzare incontri con i fratelli appartenenti alle religioni monoteistiche, tra rappresentanti dei credenti del Corano, del Vangelo e della Bibbia".

Il giornale vaticano ha aggiunto che la proposta di re Abdullah ha avuto il consenso dei principali dotti musulmani del regno.
Ma i rilievi più interessanti che "L'Osservatore Romano" ha aggiunto sono questi altri due.

Il primo riguarda la data della dichiarazione fatta da Abdullah: il 24 marzo, cioè per i cristiani il lunedì di Pasqua.

Come dire: proprio mentre esplodevano le accuse contro Benedetto XVI per il battesimo di Allam, il re saudita non solo ha ignorato tali accuse, ma si è pronunciato con accenti diametralmente opposti.

Il secondo rilievo fatto dal giornale del papa è testualmente il seguente:

"Dialogo interculturale e interreligioso; collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei per la promozione della pace. Sono gli stessi temi che, il 6 novembre 2007, sono stati al centro del colloquio in Vaticano tra Benedetto XVI e Abdullah, ricevuto in udienza con il seguito. Nel corso dello storico incontro – è stata la prima visita di un sovrano saudita al papa – si è fatto anche riferimento alla positiva presenza nel paese della comunità cristiana (che rappresenta circa il 3 per cento di una popolazione quasi totalmente di religione musulmana). Giorni fa il governo di Riyadh ha deciso di avviare corsi di aggiornamento per quarantamila imam, nel tentativo di favorire un'interpretazione più moderata dell'islam e scoraggiare gli estremisti".

Chi ha orecchi per intendere intenda. A giudizio della Chiesa di Roma il dialogo con l'islam non si riduce soltanto al seguito della lettera dei 138 – un cui esponente di punta, Aref Ali Nayed, ha rivolto accuse durissime al papa per aver battezzato Allam – ma si sviluppa su più terreni, alcuni dei quali ritenuti più promettenti.

Quanto a Benedetto XVI, è sempre più evidente che sia la sua lezione di Ratisbona, sia la sua decisione di battezzare un convertito dall'islam nella notte di Pasqua in San Pietro, non sono gesti di rottura ma, al contrario, sono proprio ciò che rende intelligibile e inequivoca – ai musulmani come ai cristiani – la sua volontà di dialogo, espressa ad esempio nella preghiera silenziosa nella Moschea Blu di Istanbul e nella calorosa udienza al re d'Arabia Saudita.

Tornando alle critiche al papa per il battesimo di Allam – sia da parte di cattolici, sia da parte del dotto musulmano Aref Ali Nayed – ecco qui di seguito una replica ragionata agli uni e all'altro, scritta per www.chiesa da Pietro De Marco, professore di sociologia della religione all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale:

Doppia risposta. Ai cattolici e ad Aref Ali Nayed

clicca qui

© Copyright www.chiesa consultabile qui

Trovati in Germania sei sermoni di sant'Agostino in un manoscritto del XII secolo a Erfurt. Si parla di carità, elemosine e resurrezione dei morti


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Sant'Agostino nella catechesi di Papa Benedetto XVI

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La scoperta In un manoscritto del XII secolo a Erfurt. Si parla di carità, elemosine e resurrezione dei morti

«Non ubriacatevi»: trovati sei sermoni di sant'Agostino

A Erfurt, in Germania, in un manoscritto del XII secolo custodito alla Biblioteca Amploniana, sono stati ritrovati sei sermoni inediti di Sant'Agostino. Quattro sono sconosciuti, mentre due erano noti soltanto parzialmente. Di cosa parlano?

Tre nuovi trattano di carità ed elemosine, uno è dedicato alle sante Felicita e Perpetua, uno a san Cipriano: in questo Agostino si lamenta per il comportamento dei fedeli che solevano ubriacarsi durante le celebrazioni per la sua memoria. L'ultimo si occupa della resurrezione dei morti.

Sei testi scoperti la scorsa estate da tre studiosi dell'Accademia Austriaca delle Scienze: Isabella Schiller, Dorothea Weber e Clemens Wiedmann. Sono stati riconosciuti tra i 70 del manoscritto «Dep. Erf. CA 12˚11», proveniente dal lasciato del teologo e umanista Amplonius Rating che nel 1412 donò i suoi 600 codici al Collegium Amplonianum, da lui stesso fondato a Erfurt.
Va detto che ogni pagina di Agostino è di notevole interesse, giacché questo santo e filosofo è un vero e proprio laboratorio di pensiero che in ogni epoca ha influenzato, suggerito, stimolato l'Occidente. Da lui trae forza l'idea della Riforma (Lutero fu monaco agostiniano) o la corrente giansenista, è la fonte più fascinosa di Petrarca e le sue opere sono percorse da concezioni del tempo e della storia care al XX secolo.

Nel suo solco, inoltre, vanno lette molte pagine di Benedetto XVI, a cominciare dalle encicliche Deus Caritas est e Spe salvi, senza dimenticare che il teologo Ratzinger gli aveva dedicato, tra gli altri, il saggio Popolo e casa di Dio in s. Agostino (tradotto da Jaca Book già nel 1978).
È un autore vastissimo: le sue opere complete in italiano e latino, pubblicate da Città Nuova, sono contenute in una sessantina di volumi per un totale di circa 40 mila pagine (senza gli apparati ora disponibili anche in rete: www.augustinus.it); inoltre sono in corso i tomi delle opere attribuite (un volume uscito), gli indici (due volumi disponibili) e tra poco cominceranno quelli per l'immensa iconografia. Né va dimenticato che 26 sermoni nuovi, curati da François Dolbeau, videro la luce a Parigi nel 1996 e che questi di Erfurt verranno presentati in una conferenza stampa il prossimo 15 aprile.
Ci sono poi scoperte legate a riletture della sua opera indispensabili al dibattito attuale. In lui si cercano tracce di una storia quasi tutta da scrivere, che sta alla base dell'Occidente: lo scontro tra paganesimo e cristianesimo. Per questo saggi quali S. Agostino e la fine della cultura antica, di Henri- Irénée Marrou (tradotto da Jaca Book), aiutano molte nostre domande; al pari delle Confessioni interpretate come il romanzo di un'anima formidabile (James J. O'Donnel, Sant'Agostino. Storia di un uomo, Mondadori) potrebbero soccorrere la nostra narrativa. Che sta morendo di inedia.

© Copyright Corriere della sera, 30 marzo 2008


L’inedito che non ti aspetti: sei sermoni di Sant’Agostino

GIACOMO GALEAZZI

CITTÀ DEL VATICANO

Sono stati ritrovati in Germania sei sermoni inediti di Sant’Agostino, il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere (tanto da sbalordire il suo biografo Possidio: «Sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita»). A scovare e identificare le «omelie perdute» del santo di Ippona, in un manoscritto del XII secolo custodito nella biblioteca «Amploniana» dell’Università di Erfurt, sono stati tre studiosi dell’Accademica austriaca delle scienze, Isabella Schiller, Dorothea Weber e Clemens Wiedmann. «È una scoperta d’importanza storica. Credevamo di aver chiuso la sua opera omnia, adesso in Vaticano aspettiamo con ansia i nuovi testi», esulta l’agostiniano monsignor Vittorino Grossi, per dodici anni segretario e oggi membro del Pontificio comitato di Scienze storiche, docente di patrologia all’Istituto Patristico «Augustinianum» e all’Università Lateranense.
Gli «scritti segreti» dell’autore delle Confessioni saranno presentati al mondo il 15 aprile: quattro sono del tutto sconosciuti, mentre gli altri erano noti solo parzialmente. Due dei sermoni riaffiorati da 17 secoli di oblio parlano di carità ed elemosine. Altri due sono legati a feste dei martiri, uno è dedicato alle sante Felicita e Perpetua, uno alla risurrezione dei morti, uno a San Cipriano: qui il teologo prediletto di Benedetto XVI lamenta il comportamento dei fedeli che si ubriacavano durante la celebrazione della memoria del martire.
Il documento che contiene gli inediti fa parte della biblioteca del filosofo tedesco Amplonius Rating, vissuto nel XV secolo, che nel 1412 regalò i suoi 600 manoscritti al Collegium Amplonianum, la più vasta collezione privata di teologia. L’identificazione di sei testi, tra i 70 del manoscritto, come originali di Agostino è stata possibile in base alla rilettura dell’elenco dei titoli di tutti i sermoni stilato pochi anni dopo la morte del santo.

Il Papa gli ha recentemente dedicato cinque catechesi dell’udienza generale del mercoledì ricordando come per Agostino fosse impegnativo predicare, quando avrebbe preferito una vita ascetica e di studio: «Imparò a fatica a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri».

Benedetto XVI ha anche spiegato come le sue encicliche Deus Caritas est e Spe salvi siano largamente ispirate al «pensiero intramontabile» di Agostino d’Ippona, aggiungendo di essere un suo appassionato lettore.

L’Università di Erfurt ha comunicato la scoperta annunciando la pubblicazione sulla rivista austriaca Wiener Sudien. Un’anticipazione accolta dall’immediato interesse della Santa Sede.

«Il Pontefice», precisa mons. Grossi, «ripete spesso che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona, oggi Annaba, sulla costa algerina.

E che da questa città dell’Africa romana, di cui Agostino fu vescovo dal 395 fino alla morte nel 430, si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale».

© Copyright La Stampa, 30 marzo 2008

La pietra di Magdi (Cardini per "Europa")


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CONVERSIONE DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: ARTICOLI, INTERVISTE E COMMENTI

La pietra di Magdi

FRANCO CARDINI

Il giornalista e saggista Magdi Allam ha quindi scelto: una scelta importante, che corona un iter iniziato forse molti anni fa. Forse anni fa quando egli frequentava giovanissimo le scuole cattoliche nel suo paese natale. Una scelta che forse aprirà una fase davvero nuova nella sua esistenza: c’è adiritura chi prevede per lui un eventuale posto nel governo italiano. Anzitutto, e proprio perché talvolta ci siamo trovati su posizioni molto lontane e non senza qualche episodio polemico, vorrei fargli le mie felicitazioni e i miei auguri. Felicitazioni, perché l’annunzio ch’è un nato un nuovo fratello in Cristo non può che far felice un cattolico. Auguri, perché mi rendo conto che la sua è stata una scelta difficile e coraggiosa.
Intendo sottolineare questo elemento di coraggio, perché è cosa nota che non da ieri Allam è oggetto di minacce: che debbono essere apparse gravi e serie a chi gli ha addirittura fornito una scorta. Almeno in linea teorica e concettuale, la sua scelta lo pone al rischio della vita: nessuno può sottovalutare un pericolo del genere.
Debbo anche aggiungere, per esser chiaro fino in fondo, che non ho apprezzato per nulla le insinuazioni di quanti hanno attribuito a questo gesto un valore opportunistico. Una conversione è un passo grave, serio, solenne: chi lo compie ha sempre e comunque diritto al rispetto di tutti.
Ci si può solo augurare che esso sia stato compiuto in piena consapevolezza e con al massima buonafede.
Ciò non significa che a mia volta io non nutra qualche dubbio o non abbia provato un senso d’insoddisfazione: non tanto sulle circostanze della sua conversione, quanto sulle scelte che l’hanno accompagnata e immediatamente seguita. Avrei preferito che il neocattolico Magdi Allam iniziasse la sua vita spirituale con un gesto più consono alla nostra fede comune: vale a dire con un po’ più d’umiltà. Il battesimo è una cosa seria e, soprattutto, un sacramento: scegliere proprio il giorno di Pasqua, e farsi battezzare dal capo della Chiesa cattolica in persona, significa senza dubbio godere di forti appoggi e di grande potere mediatico, ed è certo il modo più trionfale e solenne d’entrare nella Casa di Cristo. Ma non è esattamente il più appropriato.
La conversione richiede sobrietà e raccoglimento: e più si è importanti, più si è in vista, più tali qualità sono richieste e necessarie. Non mi è piaciuta quella scelta: se l’ha sollecitata, non l’approvo; se gli è stata proposta, avrei preferito sapere che l’aveva rifiutata.
Ancor più inopportuna, anzi decisamente grave e irrispettosa per lo stesso pontefice, mi è apparsa la lettera-denunzia che il neocattolico ha redatto, all’indomani del suo ingresso nella Chiesa e pertanto come primo suo atto pubblico. Credo che Magdi Allam sappia che, mentre ebraismo e islam sono religioni “di legge”, lo spirito profondo del cristianesimo è carità e perdono. Non ho visto l’ombra né nell’una, né dell’altra nel quadro pieno di malevolenza e di livore che Magdi Allam ha tracciato della sua ex-religione.
Certo, l’islam ha molti volti: e il fatto che in esso non vi sia un centro disciplinare, una Chiesa, non ne facilita l’univoca comprensione. Tuttavia, il quadro che Allam ce ne offre non trova riscontro nell’immagine che della sua grande tradizione e della sua alta spiritualità ci hanno autorevolmente fornito non dico i musulmani stessi, ma anche e soprattutto i nostri migliori e più attendibili studiosi. L’Islam di Allam non somiglia in nulla a quello di Massignon, né di Bausani, né di Noja, né di Moreno, né di Peirone, per limitarsi agli italiani. Consiglierei fraternamente ad Allam di leggere Il libro delle preghiere a cura di Enzo Bianchi (Einaudi), per rintracciare i segni e la sostanza della profonda consonanza tra ebraismo, cristianesimo e islam, al di là delle differenze teologiche e del peso della storia. Gli consiglierei la meditazione sull’esempio di Muhammad Abd al-Jalil, brillante giovane intellettuale marocchino che, convertitosi al cristianesimo e scelto di vestire l’abito francescano, ottenne da papa Pio XI il permesso di portare quello di Jean- Muhammad come nome religioso, convinto che il cristianesimo fosse il compimento e il perfezionamento, non la negazione dello stesso islam.
Disapprovo il documento di Allam perché esso pesa come una pietra sui rapporti tra islam e cristianesimo proprio in un momento in cui, con la lettera dei 138 dotti musulmani al papa, essi potevano esser giunti a una svolta qualificante. E alla luce delle conoscenze effettivo che egli dimostra nella sua lettera sull’islam io mi chiedo se sia mai stato davvero un buon musulmano: se cioè abbia mai avuto della sua antica fede, che pur ha mantenuto a lungo, un’appropriata e approfondita conoscenza.
Non deve sembrar offensivo quanto affermo: conosco cristiani che si dicono tali, che magari frequantano chiesa e sacramenti, e che non hanno nemmeno un’idea di che cosa sia la sostanza del cristianesimo; conosco gente che ha abbandonato esplicitamente la fede senza averla in realtà mai conosciuta e che ne parla con convinzione come d’una cosa lontanissima dalla realtà.
Rinnovo di cuore tutti i miei auguri a Magdi Allam. Non so se sia stato un buon musulmano e non sta a me giudicarlo: gli auguro di diventare un buon cristiano. La strada da percorrere per questo è lunga: e, a parte la Grazia, gli ci vorranno per percorrerla molta pazienza, molto studio, molta comprensione, molta onestà, molto rigore. Se ci riuscirà, un giorno forse riuscirà anche a comprendere sul serio – da cristiano – quanto splendente e profonda sia quella parola dell’islam ch’egli ha pur superato col battesimo. È già successo ad altri cristiani di comprenderlo: a Charles de Foucauld, per esempio.

© Copyright Europa, 30 marzo 2008 consultabile online anche qui.

Mah, non apprezzo molto questo atteggiamento di superiorita'.
Cardini quoque...
Chi da' il diritto ai Cattolici di fare i "maestrini" dei convertiti?
Come ci insegnano Benedetto XVI e Sant'Agostino la conversione non si esaurisce in un dato momento storico, ma prosegue per tutta la vista di chi ha ricevuto questo grande dono
.
Non e' possibile dare il benvenuto ad Allam senza fare distinguo e mettere i puntini sulle "i"?.
R.