9 luglio 2007

Messa tridentina: lo stile di Benedetto XVI


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Che Papa Ratzinger intendesse dirci qualcosa di cattolico anche nella forma è apparso chiaro sin dai primi giorni del suo pontificato. Il 19 aprile del 2005, durante la sua prima benedizione urbi et orbi, i polsi neri del modesto pullover di lana sorpassavano i limiti della talare pontificia che, per un probabile errore sartoriale, appariva troppo corta per il nuovo Papa. Ma è stato, per così dire, un contrattempo durato solo pochi giorni.
Durante il primo inverno da Papa, Benedetto XVI ha rispolverato l’uso del galero (il cappello rosso con guarnizioni dorate della tradizione ecclesiastica romana), del camauro e della mozzetta, il copricapo e la mantellina di velluto rosso foderati di ermellino, della greca (il lungo cappotto di cachemire bianco) cara a Pio XII.
Tutto questo, quasi a riproporre visivamente, sulla sua persona, i segni di una «traditio» pontificale che il terremoto carismatico di Giovanni Paolo II aveva reso inutilizzabile. E il gossip papalino è volato: la mozzetta sarebbe stata un dono di tre monsignori amici del segretario di Ratzinger, alla stola ci avrebbe pensato un cerimoniere desideroso di far carriera, la cotta in pizzo proviene dai merlettai di Cantù...
Le telecamere
Sono annotazioni che, in una curia qualunque non esulerebbero dalle categorie della normalità. Quando invece avvengono nella casa di un Papa, esse sono scrutate dal’occhio della televisione, cioè da quell’inconsapevole «storico autorizzato» del cattolicesimo moderno, possessore dello sguardo principale con il quale i fedeli di tutto il mondo seguono e interagiscono nella vita e nel pensiero della loro Chiesa.
Non è stato per caso se l’8 dicembre del 1965, con la cerimonia di chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, è sotto l’occhio delle televisioni di tutto il mondo che Paolo VI sceglie di completare l’abbandono della liturgia pontificale romana a vantaggio di quella puramente episcopale. Papa Montini, negli anni precedenti, aveva man mano abolito la Corte Pontificia, riportato il corteo papale a dimensioni puramente liturgiche, semplificato le vesti onorifiche degli ecclesiastici, imposto paramenti liturgici in uso prima del Concilio di Trento. Il giorno dell’Immacolata del 1965, Paolo VI si presenta al mondo solo come «vescovo di Roma», i suoi successori, saranno tutti dei convinti sostenitori di questa serena e austera immagine pastorale del pontificato romano.
Il 22 dicembre 2006, nella sala paolina del Palazzo vaticano, alle ore 10 e 30 si assiste ad una scena alla quale i frequentatori di eventi vaticani non sono più abituati dai tempi di Pio XII. Papa Ratzinger siede sul trono dorato davanti al quale i dignitari di Papa Pacelli si inchinavano per il bacio della fibbia d'argento. Indossa l’abito piano con cotta di pizzo, mozzetta foderata di ermellino, croce tempestata di gemme (prelevata dal museo della sacrestia di San Pietro) e stola pontificia rossa con chiavi e stemma dorati. Di «conciliare», ha solo le scarpe: i mocassini rossi, che tutti vogliono firmati da uno stilista di fama ma in realtà opera di un artigiano vicentino, con i quali Paolo VI ha sostituito le calzature di raso dorato previste dalle norme liturgiche pontificali.
Svolta pluralista
Nessuno dei presenti nella sala paolina è comunque sorpreso: la trasformazione di Papa Benedetto XVI è avvenuta progressivamente e va di pari passo con quella operata, dentro la basilica vaticana, per le liturgie papali. Sin dagli inizi del suo pontificato, è stato palese che Benedetto XVI non avrebbe avallato il confuso balbettio sacro di alcune cerimonie teletrasmesse e non le avrebbe nemmeno presenziate. La cerimonia per l’inizio del suo pontificato è stata affidata agli occhi dell'orbe mediatico in latino, con la possente polifonia composta per l'occasione dal maestro Liberto, l'attuale direttore della Cappella Sistina. Antifone ed inni cantati in un gregoriano al massimo sfarzo, ed un possente Bach come finale.
Nella Chiesa Cattolica, chi dice rito dice disciplina, per questo leggendo il contenuto normativo della lettera apostolica Pontificorum romanun, i canonisti possono permettersi un sorriso. Si tratta del primo documento papale, chiaramente ispirato al pluralismo del Concilio Vaticano II, che impone ai seguaci di Marcel Lefebvre l’obbligo di dire «grazie». Non è molto, ma non avveniva da quarant’anni.
Il 21 dicembre 2005, Benedetto XVI stupisce tutti presentandosi in Piazza San Pietro indossando il camauro, un copricapo in velluto rosso bordato di ermellino bianco della tradizione rinascimentale. Riesumato da Giovanni XXIII, non era mai stato utilizzato dai successori.

© Copyright La Stampa, 9 luglio 2007

Questo articolo ricalca molto una parte del documentario "Benedetto XVI, il Papa dell'amicizia con Dio" dal titolo "stile bxvi".
Vedi:

Benedetto XVI, Il Papa dell'amicizia con Dio

Un sacerdote ribelle

PAOLA SCOLA

La messa in latino? Non la celebrerò mai». Vittorio Delpiano, che si definisce un «prete operaio», non ha dubbi. La sua è una netta posizione sulla scelta di Papa Ratzinger di ripristinare la messa in latino. Lo ha scritto in una lettera al settimanale della diocesi albese, a cui appartiene il centro dove, ogni domenica, celebra la funzione: San Benedetto Belbo (Cuneo), un borgo di duecento anime sulle colline dell’Alta Langa. E’ stupito di tanto clamore intorno a quanto ha dichiarato.

Don Vittorio, lei ha preso una posizione molto chiara.

«Non chiamatemi don Vittorio. Forse è meglio monaco, è più adatto. Ho fatto questa scelta: condurre una vita ritirata e lavorare».

Non celebrerà mai la messa in latino?

«L’ho detto. Lo ritengo un problema sfizioso, un dibattito fuori luogo».

Perché?

«È estraneo alla realtà. Anzitutto da noi il problema non si pone».

Lo dice perché l’ha colto dai suoi fedeli?

«Io dico messa per la gente soltanto la domenica. Vivo e lavoro fuori delle parrocchie. Sono un prete operaio, ma non ho mai rilevato fra la gente un’esigenza di questo tipo. Non credo che nessuno mi chiederà mai di partecipare a una celebrazione in latino».

Ma le sue ragioni sembrano più profonde.

«Il latino è una lingua morta. E’ come ritornare a una messa antica. Allora perchè non fare riferimento ancora più indietro nel tempo, a quando si riunivano i primi Cristiani, per ricordare la Cena del Signore?».

Qual è il problema?

«E’ la partecipazione, la comunicazione. Le stesse formule della messa in italiano sono spesso difficili da seguire per il popolo di Dio, perchè scritte con un linguaggio retorico. Non è lingua parlata. A volte mi trovo già a tradurre in modo più comprensibile questo italiano. Quale maggiore comprensione ci si può attendere ricorrendo al latino? Se la celebrazione è lodare Dio, allora bisognerebbe trovare un modo per avvicinare, non allontanare le persone. Non è questione di scegliere un messale oppure un altro».

La disposizione pone una serie di «paletti» per tornare al latino.

«Sì, molte condizioni. Una battuta: un po’ come fanno le leggi italiane quando si devono concedere i finanziamenti».

I fedeli si sentono coinvolti in questo dibattito?

«Nelle nostre zone non credo proprio. Sono più interessati i mezzi di informazione. Ribadisco che il problema, se è tale, è un po’ fuori della realtà».

E allora qual è un problema reale per la Chiesa, anche in provincia?

«I problemi che abbiamo oggi sono davvero altri. Più gravi e urgenti. Penso, primo tra tutti, a quello dell’accoglienza. Le persone, per esempio, non si sentono accolte: la comunità cristiana deve lavorare su quest’aspetto, che è sicuramente più importante».

© Copyright La Stampa, 9 luglio 2007

Questa volta tocca a me dire un sonoro: no comment!
Noto semplicemente che il motu proprio ha effettivamente sdoganato degli atteggiamenti scomposti e non da parte dei cosiddetti tradizionalisti.
Raffaella

9 commenti:

euge ha detto...

Assomigliano molto alle risposte di Don Francesco!!!!!!!!!!!!!!

Eugenia

mariateresa ha detto...

B, cara Euge, il nostro Francesco mi sembra un po' più raffinato, ecco. Comunque questo prete "operaio" non è la prima volta che viene intervistato, e mi sembra , sempre dalla Stampa. Li cercano con il radar quando ci sono casi in discussione. Forse timbra anche il cartellino. Scherzo.
Dicono che faccia anche del bene a molte persone e ,se è così e non ho motivo per non crederlo, lo rispetto senz'altro. Ma di prete, ecco, per come lo rendono i giornali (sic!), non sembra avere moltissimo. Insomma ,i preti operai sono una categoria un attimo sorpassatella.
Come il risveglio delle masse e la riscossa proletaria.
Esistono le brave persone, questo sì. Solo che un prete fa anche qualcos'altro. Perchè di brave persone generose ce ne sono in tutti gli ambienti e le professioni.
Almeno , a me sembra così.

Anonimo ha detto...

Cara Raffaella, nel periodo post ’68, ho avuto modo di conoscere dei preti cosiddetti “operai” che svolgevano il loro “lavoro” a Marghera, terraferma di Venezia. Sinceramente, non sono mai riuscito a capire che tipo di persone potessero essere e quale fosse il loro vero ruolo da sacerdoti. Abitando porta a porta con la canonica, ogni volta che li incrociavo ero disturbato interiormente sia dal loro strano abbigliamento (camicia a quadrettoni, bluejeans, scarponacci e nessun segno distintivo), che dal loro linguaggio più adatto a dei sindacalisti che a dei “Ministri di Dio”!!! . Ora, leggendo le brevi dichiarazioni di don Vittorio, rimango nuovamente basito e mi chiedo: ma cosa ci fanno queste persone dentro il clero?!? Non starebbero meglio a fare il loro “lavoro” da laici, visto che non vogliono né il “don”, la “talare” o qualsivoglia altro distintivo del loro status di persone votate a Dio, né tantomeno le regole che tale scelta comporta?!? Non sono forse i soggetti come questi che inconsciamente ed involontariamente (sono sicuro di questo, non oso pensare diversamente) hanno prodotto più danni che buoni frutti alla Chiesa di Dio?!? E che dire dei loro superiori che tanto hanno permesso?!? Credo comunque che tutti i preti appartenenti a quel genere, senza distinzione di ordine e grado, siano in stato di viva agitazione e apprensione perché sentono dentro che questo “Motu proprio” è solo un primo flebile segnale del Santo Padre Benedetto XVI, dell’inizio di un processo irreversibile che oltre a segnare la fine dell’era delle stravaganze, metterà tutti gli appartenenti al clero di fronte ad una drastica ma giusta scelta: o dentro, però da “preti autentici” e alle “Condizioni della Chiesa”, o fuori!!!

euge ha detto...

Purtroppo, caro Giampaolo, sinmili abbigliamenti sono visibili anche ora....... certo non come hai detto tu.... niente scarponacci o camicia a quadrettoni ma, maglioni , jeans e giubbotti sensa alcun segno di riconoscimento basterebbe anche un piccolo crocifisso su un colletto. Qualcuno dirà già mlo immagino l'abito non fa il monaco oppure non si giudica dalle apparenze; questo è vero ma per i preti il discorso è molto diverso il loro abbigliamento è simbolo di una scelta ben precisa che va rispettata sennò si può scegliere lo stato laicale. Siamo al solito la modernità l'aprirsi alla società che si trasforma non vuol dire snaturare le cose tantomeno rinnegare a nche solo in apparenza una scelta di vita; è come se le suore andassero in giro con la minigonna o in tuta da ginnastica.
Eugenia

Anonimo ha detto...

Sull'abbigliamento dei preti c'è un articolo che riferisce cose interessanti: http://www.unavox.it/Giornale/122g.htm.
Sul blog si è trattato dell'argomento negli ultimi 4 post di quest articolo: "Ingerenza della Chiesa? Parliamo dell'ingerenza de..." 3 luglio 2007. Ciao ciao!!!!!!!!!!!!!!!!!

Anonimo ha detto...

P.S. la parte seria dell'articolo comincia dal 22 paragrafo... se non vi è simpatico il tono cominciate pure da lì...

Anonimo ha detto...

Cara Eugenia, condivido pienamente le tue considerazioni! Ora non ci resta che pregare, affinché lo Spirito Santo assista il nostro Santo Padre in questa Sua immane opera di riunificazione della Chiesa e lo protegga dai vili assalti e dalle pericolose insidie che ogni giorno minacciano la Sua straordinaria "missione"!!!

francesco ha detto...

raga' e che ci volete fa'? nella chiesa ci sono anche questi preti cattivoni... perfino il cardinale ratzinger unava giacca e cravatta e come abbiamo visto era critico verso le scelte del papa e della santa sede... eh che volete non esiste più la chiesa di una volta, nemmeno i cardinali e i papi di una volta...
e son contento che raffaella abbia imparato da me... io non riesco però a fare il mago maghello!
francesco

Anonimo ha detto...

Sappia Eugenia che le suore che vanno in giro in tuta da ginnastica ci sono... e forse anche in minigonna.
Non sono cattive, ma certo sono ignoranti del significato dell'abito.
Quel che è stupefacente è che non riescono ad afferrarne neanche l'utilità!!!