18 settembre 2007

Prolusione di Mons.Bagnasco: interviste a Galli Della Loggia e De Rita


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IL FATTO

Dal presidente della Cei Angelo Bagnasco un forte appello perché si nutra un ethos collettivo, «capace di resistere e sopravanzare rispetto alle dissipazioni del costume» per una «società aperta e capace di futuro» A partire dalla componente sana della società, «ancora maggioritaria». Ne parlano due autorevoli studiosi

«Amare l’Italia? Grande e nobile compito»

Di Giorgio Ferrari;Di Paolo Viana

Nella prolusione del presidente della Cei al Consiglio permanente spicca, tra l’altro, un ampio capitolo dedicato alla situazione sociale del Paese. In essa monsignor Bagnasco rileva, da una parte, segnali preoccupanti legati a «un atteggiamento di resa che contrassegna tanta prassi», dove prevalgono «divismo, divertimento spinto a oltranza, disimpegno nichilista»; dall’altra, invece, rimarca i valori ancora condivisi «dalla maggioranza sana». Di qui l’interrogativo sulla «modalità, compatibile con la democrazia, grazie alla quale nutrire un ethos collettivo partecipato e a un tempo capace di resistere e sopravanzare rispetto alle dissipazioni del costume». E quello sul ruolo dello Stato, mero regolatore delle spinte comportamentali che emergono dal corpo sociale, o promotore di un’idea di bene comune. Con l’esortazione finale: «L’Italia merita un amore più grande».

lo storico Galli della Loggia

«Ripartiamo dai grandi valori universali per combattere i tanti piccoli egoismi»

«Gli italiani sono molto sensibili alla piccola patria, quella locale, e hanno sicuramente un rapporto naturale e aperto con gli alti principi. Manca la cosa di mezzo, lo Stato, ma nell’ethos elementare dell’italiano c’è un forte fondo cristiano»

La prolusione di monsignor Bagnasco tocca, fra i tanti, i temi dell'ethos e del bene comune, del legame che deve esserci fra il cittadino e lo Stato e del ruolo che quest'ultimo assume nei confronti della moltitudine dei cittadini.

Ma, ci si domanda, allora lo Stato è soltanto un notaio, un registratore di comportamenti e di spinte sociali o potrebbe e dovrebbe anche promuovere il bene comune? Lo chiediamo (con un pizzico di provocazione) allo storico Ernesto Galli della Loggia, studioso dell'"identità italiana".

Evidentemente no, basterebbe dare una scorsa alla Costituzione italiana: i primi 50 articoli sono tutti un invito al bene comune: lo Stato si carica di compiti, di ethos collettivi, come l 'uguaglianza, il diritto alla salute, al lavoro, compresa anche la sicurezza, la pace sociale, l'amministrazione della giustizia. La polemica nasce quando da questi beni si passa alle scelte etiche, morali e personali.

Il fantasma dello Stato etico...

Già, ma cos'è lo "Stato etico"? Nell'accezione gentiliana era il culto dello Stato in quanto ethos lo Stato stesso. Ma se uno dice - per fare un esempio - che ci deve essere una legge che vieta l'aborto, questo non è lo Stato etico: lo Stato in astratto non esiste, lo Stato sono i cittadini. Credo piuttosto sia vero il fatto che è diventato friabile il vincolo sociale.

Cioè?

La forza delle cose che ci tengono insieme.
La componente sana della società, a quanto sembra, è ancora maggioritaria.
Ci sono però alcuni fenomeni che macchiano questa Italia.

Quali?

C'è una componente che sana non è, nel senso che pratica forme di individualismo egoistico, asociale, illegale a vari livelli, che non va a lavorare, che froda e raggira la funzione pubblica. Questi comportamenti sono molto forti in Italia. E questa non a caso è una delle espressioni dell'indebolimento del vincolo sociale.

È un fenomeno nuovo?

È un fenomeno storico, ma ora accanto a questa friabilità che c'è sempre stata si è aggiunta la friabilità del vincolo politico, la crisi verticale delle istituzioni, della società.

Che una volta non c'era...

Un tempo la scarsa coesione sociale era controbilanciata da una dimensione forte della politica. Forte e coesa: fra i vari partiti c'era una sostanziale omogeneità e compartecipazione. Oggi non c'è più, c'è disintegrazione del vincolo politico, e dunque un vuoto.

Si parla giustamente di "bene comune", ma secondo lei in Italia è mai stato compreso, percorso, alimentato quello che la filosofia anglosassone chiama "Common Good"?

Nel nostro Paese non c'è mai stato.

Perché?

Perché laddove è fortissimo il vincolo familiare , familistico e di clan è difficile che si diffonda un'idea di bene comune. Così come dove è fortissimo il campanilismo, il bene comune diventa labile. Forse anche la cultura cattolica dovrebbe su questo punto riaprire un esame del suo ruolo storico. La sua diffidenza verso la Stato nazionale qualche peso lo ha avuto. Certamente il bene comune non può essere la cultura della Lombardia o della cooperativa di Soresina, è qualcosa di più e di meglio.

Questa mancanza di sensibilità all'ethos collettivo è una questione di latitudine, di etnia, di qualcos'altro?

È una questione di Storia.

Nella prolusione si parla con sincera convinzione di senso di appartenenza, di società, di casa aperta, forse alludendo a quella che i tedeschi chiamano "Heimat", cioè la casa comune, quella che il cuore riconosce.

Io penso che questa casa esista. Gli italiani sono molto sensibili alla piccola patria, quella locale, ed hanno sicuramente un rapporto naturale e aperto con i grandi valori universali. Gli manca la cosa di mezzo, lo Stato, ma di fronte alla sofferenza, al male, negli italiani scatta un naturale senso di compartecipazione, di apertura. Pensi all'atteggiamento nei confronti degli immigrati, che non è mai pregiudizialmente ostile: lo può diventare in seguito, ma il primo impulso è quello dell'accoglimento. Nell'ethos elementare dell'italiano c'è questo fondo cristiano.

Che cosa manca allora a una visione armonica del bene comune?

L'Italia ha una forte cultura dell'universalismo etico e contemporaneamente del localismo personale. Peccato gli manchi la parte di mezzo, il raccordo rappresentato dal bene comune nazionale.

Una visione un po' pessimistica...

Io cerco di essere ottimista. Della prolusione di monsignor Bagnasco mi ha colpito questa una frase: «L'Italia merita un amore più grande». È una frase inconsueta, coraggiosa. Amare l'Italia non è facile, perché spesso è poco amabile. Ma è una frase importante, nuova. Rileggendola, mi vien da essere ottimista e rinunciare per una volta al mio naturale pessimismo.


il sociologo De Rita

«Servono azioni concrete e organizzate Bene concentrarsi su educazione e Sud»

«Giusto ammonimento a non ascoltare le voci dell’arroganza, dell’apparire e dell’avere; dopo serve un messaggio di presenza nel sociale Se si chiama a una personalizzazione della proposta, essa va sviluppata nel sociale»

La personalizzazione del messaggio cristiano è un ottimo antidoto alle derive della nostra società "a coriandoli", come la definisce Giuseppe De Rita, ma bisogna lavorare molto, declinare i valori in un’etica chiara e offrire coordinate precise all’impegno sociale: è questo il commento a caldo del sociologo, segretario generale del Censis, di fronte alla prolusione di monsignor Bagnasco al Consiglio permanente della Cei.

A quali condizioni la "società a coriandoli" potrebbe nutrirsi del nuovo ethos di cui parla il presidente dei vescovi?

Quello che è importante è il discorso sulle realtà singole e intermedie. In tal senso, mi è piaciuto molto il richiamo a Loreto, dove si dice che il Papa ha puntato a personalizzare la proposta: quel «ciascuno di voi è importante, se resta unito a Cristo può compiere grandi cose» dà un senso forte a milioni di persone. Giusto l’ammonimento a non ascoltare le voci dell’arroganza, della prepotenza, del successo, dell’apparire e dell’avere; dopo serve un messaggio di presenza nel sociale. Se si chiama a una personalizzazione della proposta e dell’impegno, esso deve svilupparsi nel sociale, integrando la dimensione dell’essere, che attiene alla coscienza e al rapporto con Dio.

Eppure Loreto dimostra che la forza della proposta cristiana si regge proprio sull’essere.

La Chiesa mobilita milioni di ragazzi, è vero, e giustamente bisogna personalizzare questa dimensione della proposta. È necessario poi precisare alcune coordinate nello spazio pubblico, linee di azione nel sociale.

Non le pare che i cattolici già lo sappiano, almeno a giudicare dall’imponenza delle opere che traducono questo "essere" in gesti di solidarietà?

Monsignor Bagnasco nel suo discorso cita il viaggio del Papa in Austria. Ebbene, quel viaggio ha avuto il suo punto più alto proprio nel dialogo con il volontariato, con quest’impegno dei singoli, giovani e vecchi, che fanno qualcosa di concreto a partire dalla coltivazione del proprio essere. È un punto cruciale per i cristiani: proprio perché noi abbiamo un Dio personale e avvertiamo la spinta a valorizzare la persona, nel momento in cui parte quest’appello bisogna individuare quelle "grandi cose" che si possono fare insieme.

Monsignor Bagnasco individua priorità concretissime: l’educazione, ad esempio, è un’emergenza per la società a coriandoli?

A livello intermedio si può socializzare la personalizzazione e la Cei promette una riflessione articolata sull’educazione: bene, perché l’educazione è davvero la grande emergenza. In quel campo non c’è solo il problema della trasmissione dei valori, ma anche di una creazione in comune di valori. La via giusta è prendere questo tema intermedio, che non riguarda la singola persona ma neppure il bene comune, e lavorarci sopra. Analogamente, i vescovi tornano a interessarsi del Mezzogiorno; hanno perfettamente compreso di non poter stare tra persona e Stato, tra persona e bene comune, ma di dover parlare di realtà intermedie. E queste due promesse – Mezzogiorno e educazione – danno il senso che in questo momento i vescovi "ci stanno" nella società italiana.
Chi sembra "starci" poco è lo Stato, che si limita a regolare le "spinte comportamentali" e non riesce a offrire un’idea di bene comune.

Nel mondo laico c’è ancora l’ambizione di costruire uno Stato che "costituisce" il cittadino, uno Stato che fa opera di civiltà.

Che poi magari pensa di realizzarla con l’eutanasia o la legge 40... C’è ancora un residuo di "bene comune" da Stato hegeliano, rispetto al quale noi cattolici rischiamo di apparir e deboli se parliamo di bene comune e non sappiamo declinare il nostro concetto di bene comune, ad esempio in accettazione dell’altro, responsabilità... Se non sapremo declinare questo concetto, saremo in difficoltà con personaggi che ti cucinano la laicità come l’unica etica vera. E, se non lo faremo, il comportamento dei singoli cittadini non rifletterà i nostri valori, ma andrà nella direzione di questi laici, perché quella è la direzione della libertà e dell’autonomia, oltre che della sopraffazione.

Monsignor Bagnasco conclude la sua prolusione con un appello a dare all’Italia «un amore più grande». Come si ama una società a coriandoli?

Bisogna dire qual è oggi l’ipotesi organizzativa su cui una società può camminare. I coriandoli vanno organizzati, messi insieme agli altri, gestiti organizzativamente. È un aspetto sul quale mi permetto di sollecitare l’attenzione dei vescovi: oggi si salva chi ha una buona organizzazione e esprime un’appartenenza a una buona organizzazione. I cristiani sono ancora una forza vera in Italia perché sentono di appartenere a un’organizzazione.

© Copyright Avvenire, 18 settembre 2007

2 commenti:

Gonzalo ha detto...

Incredibilmente densa e illuminata la Prolusione di Mons. bagnasco, ottima la "copertura" di Avvenire. Complimenti per la completezza delle tue informazioni, davvero un bel lavoro.

Anonimo ha detto...

Benvenuto nel blog :-)