24 ottobre 2007

Lettera dei 138 leader islamici al Papa: Giulio Meotti replica a Magdi Allam


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«Caro Allam, ecco perché prendiamo sul serio la lettera dei 138»

Giulio Meotti

Caro Magdi Allam, non ci è affatto “sfuggito” il furore negazionista che negli ultimi trent’anni l’islamismo in armi ha scagliato contro l’occidente e che va dai salafiti orientali al Waziristan degli “arabi afghani”, dall’Iran di Ahmadinejad ai segreti del regno saudita. La lettera dei 138 saggi musulmani è in alcuni punti debole e ambigua. Ma queste falle non possono diventare muri invalicabili. Le Twin Towers, il luglio londinese e i bambini israeliani, Atocha e Theo van Gogh, lo stragismo iracheno e le madonne algerine, Beslan e gli alberghi di Sharm el Sheik e Bali ci hanno dimostrato che è possibile vincere questa “guerra dei cent’anni” soltanto da una posizione d’attacco. E tu sai quanto il Foglio abbia predicato sul fondamentalismo islamico. Siamo stati, a nostro rischio, fra i pochissimi ad aver tradotto l’articolo di Robert Redeker e a formare una catena di solidarietà per i ribelli del mondo islamico, i non credenti, i liberi pensatori, gli atei, gli scismatici come un tempo furono sostenuti i dissidenti dell’Europa dell’est. Abbiamo pubblicato le fotografie dei resti umani israeliani offerti da Hamas nella piazza palestinese, le teste caravaggesche di Nick Berg e Daniel Pearl, i nomi di donne e uomini sciiti assassinati davanti alle cliniche e alle scuole. Ma non si può stare all’attacco in modo ripetitivo, indifferente. Abbiamo registrato il fatto nuovo di questa lettera, che ha il merito di non attenuare ogni elemento identitario e conflittuale in vista di un dialogo risolutore, blando e irenistico. Nuova lo è per il numero di firmatari che garantisce un “consenso” così prezioso nell’islam, per la forma così “cristiana” di citare il Vangelo, o con il cardinale Angelo Scola, per il suo “realismo”. Il grande saggio Al Ansari ha spiegato che un’intera generazione di musulmani, fattori di morte che alimentano il rullo compressore dei martiri, sono stati educati “a morire in nome di Allah, non ad amare la vita in Suo nome”. Per medicare questa ferita ci vorrà ben altro che una lettera. Ma almeno apre un nuovo capitolo. Come quella fatwa emessa dal British Muslim Forum a nome di 500 personalità islamiche dopo le bombe di Londra. Diceva che chi mette le bombe è un criminale e non un martire e il terrorismo è “nemico dell’umanità”. Anche allora scrivemmo che era l’inizio di una rivolta interna all’islam contro il jihadismo, dopo tanti segnali di ambiguità, quella che tu giustamente segnali. Poi, assieme al Wall Street Journal, abbiamo raccontato una seconda fatwa. Mentre al Qaida bombardava i pellegrini sciiti fuori dalle moschee, il primo aiutante dell’ayatollah Ali al Sistani e lo sceicco sunnita Ahmed al Kubaisi, uno dei firmatari della lettera, sottoscrivevano al Cairo una “contro fatwa” per la lotta al terrore: “Secondo la nostra fede, uccidere esseri umani in nome di Dio è una dissacrazione delle leggi del Paradiso”. Non era poco, mentre la carovana di shahid entrava da nord per tirare giù quattro villaggi yazidi e mettere a segno il più terribile attentato dall’11 settembre. Questi gesti non sciolgono il nodo terrificante dello sterminio seriale di esseri umani innocenti, musulmani e “infedeli” uccisi perché innocenti, come in un grande sacrificio umano. Non sono però foglie di fico per l’autolesionismo occidentale e la dissimulazione coranica. La lettera dei 138 è meglio della nostra retorica umanitaria che non prevede guerra, tragedia e l’inevitabile. E’ meglio della filastrocca “siamo tutti americani, ebrei e madrileni”. E’ meglio perché riconosce, nominandolo, lo scontro di civiltà. L’islam radicale o fondamentalista o politico, come si voglia chiamarlo, il jihad intriso di profezia si è candidato alla guida della umma nell’attacco all’occidente, qualunque cosa questa parola significhi. Noi la traduciamo con il nostro modo di vivere diverso e libero, laico e confessionale, cristiano-ebraico, persino pagano. Ha ragione il Daily Telegraph, la lettera getta luce in uno stagno di tenebre. Non possiamo aspettare, come si usava prima dell’11 settembre e purtroppo si usa ancora. E’ un lusso non concesso. Dobbiamo credere, come ha detto il presidente americano Bush, che “i tagliatori di teste non sono il vero volto dell’islam”. Una parte di quel mondo ha scatenato una sollevazione che ci ha travolto, facendo della propria miseria e nostalgia, dell’infinita bellezza della sua religione un grido di battaglia contro il Grande e il Piccolo Satana, americani ed ebrei. Dentro e fuori l’islam è in corso una guerra tra chi ama la morte più della vita e chi difende la vita rischiando la morte. La lettera va a favore dei secondi. E’ stata spedita non in tempo di pace, ma sotto la costante nuvola di bombe e suicidi assassini. Per questo è ancora più importante e da non rifiutare, anche se non rispetta i parametri di Human Rights Watch. Non è perfetta, sarà firmata da predicatori non trasparenti, come tu rilevi. Ma è scritta da sunniti e sciiti, gente che a Baghdad si ferma per strada e se nella carta di identità vede che ti chiami “Alì”, ti spara in fronte davanti ai figli. Non fermerà la mano degli assassini, continueranno a seminare lacrime. Ma ha ragione il filosofo Roger Scruton, uno che aiutava i dissidenti a fuggire oltre cortina: andrebbe affissa nelle porte di moschee e madrasse, come risposta a chi dà la caccia ai Rashid Mimouni, l’autore del romanzo “La maledizione”, che figurava nelle liste di morte affisse in altre moschee assieme all’autore di “Ripudio”, il capolavoro dell’algerino Rashid Boudjedra. La gravitas dei 138, la cura con cui misurano le parole e scelgono i versetti, è un dono ai loro fedeli snervati dal dolore. Ci hanno infine concesso ciò che gli idioti e i multiculturalisti vogliono negarci: lo status di umma.

© Copyright Il Foglio, 20 ottobre 2007

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