4 dicembre 2007

L'Osservatore Romano intervista il cardinale Vingt-Trois (arcivescovo di Parigi): "Quattro «cantieri della fraternità» per un'integrazione armoniosa"


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Nostra intervista al cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi

Quattro «cantieri della fraternità» per un'integrazione armoniosa

Mario Ponzi

Il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi la considera una priorità pastorale: la comunità ecclesiale deve trasformarsi in comunità accogliente, per testimoniare come la forza di un'integrazione armoniosa fra tutte le sue componenti sia la strada giusta per costruire una società migliore.
I vescovi francesi seguono con particolare apprensione l'evolversi degli avvenimenti che in questi giorni hanno suscitato delle preoccupazioni in tutto il Paese. Lo fanno con la discrezione che sembra contraddistinguere il loro stile pastorale. Non intervengono direttamente, ma sono alla costante ricerca del dialogo con tutte le parti sociali, politiche, soprattutto religiose.
Il cardinale André Vingt-Trois, presidente della Conferenza episcopale, nell'intervista che ha rilasciato a "L'Osservatore Romano" all'indomani della creazione a cardinale, manifesta la sua preoccupazione pastorale per lo svilupparsi della situazione e rilancia le indicazioni che i vescovi francesi avevano proposto esattamente un anno fa. Si era alla vigilia delle elezioni presidenziali; negli occhi, come nel cuore, ripassavano le immagini (riviste qualche giorno fa) delle banlieux in fiamme. In un messaggio del Consiglio permanente dei vescovi la proposta fu quella dei quattro "cantieri della fraternità" in cui lavorare per ricostruire una società degna per tutti gli uomini di Francia: giovani e famiglia; lavoro e impegno; mondializzazione e immigrazione; etica e morale.

Ritiene ancora valide quelle proposte alla luce dei fatti che si ripropongono oggi nella vita dei parigini?

Io lo auspico. Certamente non dobbiamo, noi vescovi francesi, fornire soluzioni che non ci appartengono, ricette che non possediamo. La nostra missione è comunque quella di risvegliare le coscienza di tutte le parti coinvolte.
La prima cosa che dovremmo cercare di fare è invitare i nostri concittadini a prendere coscienza dell'esistenza di un sentimento di ansia o di paura, incessantemente alimentato, riguardo al futuro. Si tratta certamente di un sentimento che ha dei fondamenti obiettivi, ma che allo stesso tempo si presenta come una sorta di fantasma. Vorrei ricordare che in ogni periodo della storia dell'umanità vi sono state paure virtuali.
Dovremmo dunque invitare i nostri concittadini a prendere coscienza del fatto che forse il nostro modo di vivere, la maniera in cui si è organizzata la nostra società, comporta sì un sistema che in qualche modo garantisce una sorta di tutela generale, che ci mette al riparo da molti rischi; ma consente il diffondersi anche di un consumismo smodato che accresce la disparità fra quanti possiedono mezzi in eccedenza e quanti non ne hanno affatto. Un po' come accade nel mondo, fra quanti dispongono della ricchezza e quanti vivono in profonda miseria. Forse è giunto il momento di interrogarci, con tutta sincerità, per capire se il futuro dell'umanità è veramente segnato da quanti hanno qualcosa e devono fare di tutto per conservarlo, oppure se non sia il caso di riconsiderare il nostro modo di vivere e di impegnarci per un sistema in cui vige una giustizia più equa, incentrato sulla ridistribuzione delle ricchezze.

Questo però è un problema che riguarda l'intera comunità internazionale, che si traduce nella scelta della globalizzazione, o della mondializzazione come alcuni preferiscono definire questo movimento che sembra sempre più coinvolgere la società internazionale.

Guardi non credo sia questione di terminologia, più o meno tecnica, quanto piuttosto di contenuti, soprattutto di una certa equità internazionale. Sarebbe completamente illusorio credere che l'Europa occidentale e industrializzata, ricca, possa mantenere il suo sistema chiudendolo al resto del mondo. Una delle ipotesi di soluzione è d'impegnarsi in processi di cooperazione e di sviluppo nei paesi non industrializzati. Ciò significherebbe non considerare l'equità come attrazione dei più poveri verso i Paesi più ricchi, ma come impegno dei Paesi più ricchi a sviluppare le ricchezze in altri Paesi. Ma questo è un impegno a lungo termine e che richiede molta pazienza e perseveranza.
Ora vi sono, nella situazione in cui ci troviamo, molte persone che si arrangiano alla meglio per varcare le frontiere e che sono effettivamente presenti nei nostri Paesi. È evidente che un governo responsabile non può rinunciare a ogni sorta di gestione in queste situazioni, ma deve mettere in atto mezzi per regolare l'immigrazione in funzione della situazione economica e delle capacità d'integrazione.

Non è forse quello dell'integrazione dei giovani immigrati il problema che scuote maggiormente il tessuto sociale parigino? Quale potrebbe essere l'impostazione giusta per la soluzione dei problemi degli immigrati?

La Francia, e penso che lo stesso valga per l'Italia anche se sotto un'altra forma, è un Paese con una lunga storia d'immigrazione. Noi abbiamo vissuto, soprattutto nel corso del XX secolo, ondate d'immigrazione dovute agli eventi politici verificatisi in Russia, in Germania, in Italia, in Spagna, e così via. Abbiamo avuto fenomeni migratori, molti fenomeni migratori direi, fra cugini, ossia fra Paesi europei, dove sussisteva già una certa affinità culturale ed elementi di comunione culturale che hanno permesso un'integrazione relativamente più facile.
Ora siamo di fronte a un'immigrazione di culture straniere. Ci troviamo di fronte a persone che arrivano spesso senza mezzi economici, in situazioni di estrema povertà. La Chiesa, anche se consapevole che certamente tutta l'umanità non si riunirà su una piccola porzione di territorio, ritiene tuttavia che quando un uomo, una donna, dei bambini, si ritrovano in strada, senza un lavoro, senza un alloggio, senza cibo, si ha il dovere di occuparsi di loro. È altresì convinta che la soluzione non è quella di metterli in prigione e di metterli alla porta disprezzandoli. Bisogna cercare di trovare delle soluzioni, altre strade. Anche se non è facile visto che viviamo in un universo limitato, e che dobbiamo accettare di condividere qualcosa. Ed è proprio su questo punto, sulla condivisione dei beni, sulla condivisione del lavoro, che si confrontano non ideologie ma, direi, soprattutto affetti diversi.

A Parigi il fenomeno migratorio assume anche un volto diverso, poiché gran parte della popolazione giovane delle periferie è costituita da francesi nati da genitori immigrati. Ma francesi a tutti gli effetti.

È tutta un'altra questione. Noi abbiamo in Francia emigrati che sono alla terza generazione. Ma sono completamente scolarizzati; devono piuttosto affrontare, in particolare i giovani, il problema dell'integrazione con i loro coetanei della nostra società tradizionale. Come si può formare questi giovani in vista della loro integrazione? Si distribuiranno diplomi in tutte le direzioni senza preoccuparci di sapere a cosa potranno servire? Questa difficoltà, che riguarda tutti i giovani, coinvolge però in modo particolare e più specifico i figli di famiglie immigrate che mostrano anche un certo ritardo culturale. E questo è un altro grande problema.

Come può affrontare la Chiesa queste così grandi problematiche, tenendo conto del tessuto estremamente secolarizzato con il quale si confronta in Francia?

Non viene mai garantito nel Vangelo che la nostra parola sarà ascoltata o accettata. Dunque il nostro lavoro, la nostra missione è - quando consideriamo che a essere in gioco è la dignità della persona umana o il futuro dell'uomo - dire quello che pensiamo e mettere le persone dinanzi alle loro responsabilità. Poi spetta a esse decidere cosa vogliono fare. Il Signore non ci ha inviati per sostituire il Parlamento o il personale politico, noi non siamo stati inviati per fare la guerriglia legislativa. Siamo stati inviati per annunciare il Vangelo. Vi sono dei laici cristiani impegnati nella vita politica, nel lavoro legislativo che si sforzano realmente di essere testimoni dei valori nei quali credono. Credo che questo possa essere un modo per raggiungere i nostri obiettivi e cambiare le cose. In questo momento ci sono molti cristiani che stanno cercando di fare qualcosa. Incontrano difficoltà, è vero, ma vanno avanti. Senza dubbio siamo in una situazione strana, possiamo rivolgerci ai nostri concittadini, fare osservazioni quando lo riteniamo opportuno, ma non sappiamo come potrà essere utilizzato quello che diciamo.
La nostra, del resto, è una società multiculturale e plurireligiosa, e dunque noi abbiamo il dovere di testimoniare il Vangelo in questa società e ciò deve caratterizzare tutto ciò che facciamo.
Per questo lo scorso anno ho aperto quelli che abbiamo definito i quattro "cantieri" principali nei quali svolgere il nostro lavoro pastorale: la gioventù e la famiglia, la solidarietà nel lavoro, il campo morale, l'etica nella mondializzazione. Dalle visite pastorali fatti in questi anni abbiamo potuto costatare che in molte parrocchie sono state avviate iniziative adeguate al lavoro da svolgere nei quattro cantieri. Ma è ancora troppo presto per trarre conclusioni. La speranza è che la comunità ecclesiale possa crescere e aiutare il Paese a crescere con lei.

Quale può essere il contributo della Chiesa in Francia al processo di solidarietà internazionale?

Ho indicato come priorità l'accoglienza ai fratelli delle Chiese orientali che vengono da noi. Ne arrivano tanti e hanno bisogno di tutto. Stiamo però organizzando anche un servizio di sostegno per quanti restano nelle loro terre. Un modo per sostenerli è per esempio andare a visitarli con una certa frequenza per far sentire loro comunque il calore della nostra vicinanza.

(©L'Osservatore Romano - 3-4 dicembre 2007)

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