9 gennaio 2008

La musica sacra nel pensiero della Chiesa: "L'universalità del gregoriano" (Padre Zielinski per L'Osservatore Romano)


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La musica sacra nel pensiero della Chiesa

L'universalità del gregoriano

Michael John Zielinski
Vicepresidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa


L'arte e la musica, manifestazioni della bellezza, non sono elementi estrinseci alla liturgia e neppure sono puramente decorativi; sono piuttosto parti integranti del culto, come mette in rilievo Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis del 22 febbraio 2007: "Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come soleva dire san Bonaventura, contempliamo la bellezza e il fulgore delle origini. Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l'amore" (numero 35).
Il valore spirituale della musica è stato riconosciuto in un modo distinto da san Filippo Neri. Nei suoi esercizi spirituali, che chiamava "oratorio", san Filippo usava la parola e la musica: la lettura e il commento di un testo dei Padri della Chiesa o di autori classici di spiritualità favorivano l'edificazione e il raccoglimento degli uditori, mentre la musica veniva aggiunta per consolare et recreare li animi stracchi da discorsi precedenti. Come scrive Maria Teresa Bonadonna Russo, "San Filippo dichiarò infatti (...) di aver preso dalla "pratica" l'idea di introdurre "tra gli esercizi gravi fatti da persone gravi la piacevolezza della musica spirituale"". L'idea di inserire la musica nelle sue riunioni spirituali, che concepiva come "reti per pescar anime", sembra dovuta all'esperienza maturata durante la sua giovinezza a Firenze, dove il canto delle laudi sacre era molto diffuso fra il popolo. Di questi canti san Filippo stimava non solo la semplicità formale, ma anche la suggestione emotiva che grazie a essa erano in grado di suscitare.
Nel cosiddetto "oratorio grande" e nelle celebrazioni liturgiche la musica divenne sempre più importante ed elaborata, anche se non è mai stata considerata fine a se stessa: il suo scopo era il culto solenne offerto a Dio e l'edificazione delle anime. La Chiesa Nuova era un centro del mondo musicale romano, e fra gli amici e figli spirituali del santo si trovano i grandi musicisti del Cinquecento: Anerio, Animuccia, Palestrina, da Victoria. In tutte le regioni d'Italia, le congregazioni dell'Oratorio erano luoghi dove fioriva la musica sacra.
San Filippo ed i suoi figli spirituali mettevano in prassi ciò che la tradizione ecclesiale ha sempre affermato: il canto e la musica sacri, nell'offrire gloria a Dio nella solennità della celebrazione liturgica, sostengono la preghiera e la partecipazione ai santi misteri di quanti vi assistono. Nel santificare i fedeli e nell'educarne il gusto, il canto sacro rende anche esplicita la misteriosa unità del corpo mistico. Sant'Agostino descrive nelle sue Confessioni la viva commozione provata a Milano nel partecipare a celebrazioni in cui i fedeli eseguivano il canto dei salmi e degli inni di sant'Ambrogio (IX, 7, 15-16). In un sermone lo stesso sant'Agostino dice: "L'uomo nuovo sa qual è il cantico nuovo. Il cantare è espressione di gioia e, se pensiamo a ciò con un po' più di attenzione, è espressione di amore" (Sermo, 34, 1). In tal senso, Benedetto XVI ha detto durante la sua visita al Pontificio Istituto di Musica Sacra il 13 ottobre 2007: "Quanto è ricca la tradizione biblica e patristica nel sottolineare l'efficacia del canto e della musica sacra, per muovere i cuori ed elevarli a penetrare, per così dire, nella stessa intimità della vita di Dio!".
Tanti documenti pontifici e conciliari del secolo scorso richiamano alla celebrazione dei divini uffici in modo solenne e in canto. Come frutto di questo rinnovamento di musica sacra, i fedeli venivano a conoscere bene le melodie gregoriane più comuni, e ciò accadeva in molte regioni del mondo. Negli ultimi decenni, è invece stata proposta una grande varietà di canti e canzoni per favorire il coinvolgimento dell'assemblea; purtroppo essi mancano spesso nella forma e nel contenuto. Emerge anche il problema che molte composizioni nuove sono così effimere e legate al proprio tempo che devono essere sostituite dopo pochi anni.
Bisogna sottolineare che il magistero non richiede un'indistinta partecipazione di tutto il popolo nel canto liturgico, ma raccomanda un buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, per cui "scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso" (Giovanni Paolo II, chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003). I documenti ecclesiastici parlano soprattutto del canto gregoriano, perché esso è intimamente unito alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche e fa parte della lex orandi della Chiesa. Questa è la traccia dal motu proprio di san Pio X Tra le sollecitudini (1903) ai giorni nostri, passando attraverso l'enciclica Musicae sacrae disciplina di Pio XII (1955), il capitolo sesto della costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II Sacrosanctum Concilium (1963), la successiva istruzione dell'allora Congregazione dei Riti (1967), e il chirografo Mosso dal vivo desiderio di Giovanni Paolo II (2003) in commemorazione del centenario del Tra le sollecitudini.
In Sacramentum caritatis, Benedetto XVI afferma: "La Chiesa, nella sua bimillenaria storia, ha creato, e continua a creare, musica e canti che costituiscono un patrimonio di fede e di amore che non deve andare perduto. Davvero, in liturgia non possiamo dire che un canto vale l'altro. A tale proposito, occorre evitare la generica improvvisazione o l'introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto - nel testo, nella melodia, nell'esecuzione - deve corrispondere al senso del mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici. Infine, pur tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano, in quanto canto proprio della liturgia romana" (numero 42).
Non è soltanto possibile, è anche desiderabile che l'assemblea, nella celebrazione della Santa Messa, partecipi cantando in gregoriano le parti che le sono assegnate. Ciò sarebbe un ritorno alla serietà della liturgia, alla santità e alla bontà di forme e all'universalità che devono caratterizzare ogni musica liturgica degna di questo nome, come insegna san Pio X e ribadiscono sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI. Si potrebbe iniziare dalle acclamazioni, dal Pater noster, e dai canti dell'Ordinario della Messa. Non si dovrebbe sottovalutare la capacità dei fedeli di apprendere un repertorio minimo. Possiamo imparare molto dall'esperienza dei paesi africani, dove il popolo cristiano canta facili melodie gregoriane ormai ben assimilate.
Non sorprende quindi che la musica sacra sia in crisi, perché "senza il canto gregoriano la musica di chiesa è mutilata, (...) non ci può essere anzi musica di chiesa senza canto gregoriano", come afferma monsignor Valentín Miserachs Grau, presidente del Pontificio Istituto di Musica Sacra. "I grandi maestri della polifonia sono ancora più grandi quando si basano sul canto gregoriano, mutuandone le tematiche, la modalità e la poliritmia. Per questo spirito che ne informa la raffinata tecnica, per questa fedele aderenza al testo sacro e al momento liturgico, sono stati grandi Palestrina, Lasso, da Victoria, Guerrero, Morales, e via dicendo". Anche le nuove composizioni, sia in latino sia in lingua volgare, sono tanto più valide quanto più si ispirano al canto gregoriano. Giovanni Paolo II ha fatto suo il noto principio di san Pio X: "Una composizione di chiesa è tanto più sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, nell'ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme" (Tra le sollecitudini, numero 3; Mosso dal vivo desiderio, numero 12).

Nonostante i pronunciamenti del Concilio Vaticano II e del magistero papale, la musica di chiesa è in crisi; è colpita dall'ermeneutica di discontinuità e di rottura, della quale Benedetto XVI ha parlato nel suo Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005.

Per recuperare il grande tesoro che la tradizione della Chiesa ci ha trasmesso, bisogna cominciare con il canto gregoriano, che è in grado di comunicare al popolo di Dio il senso della cattolicità e di guidare verso una retta inculturazione.

Lo scrittore tedesco Martin Mosebach ricorda che questa musica era insolita anche alle orecchie di Carlo Magno o di san Tommaso d'Aquino, di Monteverdi o di Haydn. Ed era tanto estranea ai tempi loro quanto lo è ai nostri giorni. Oggi, tuttavia, si è meglio disposti verso la musica di altre culture di quanto non lo fossero i cristiani di molti secoli fa. Anzi, le melodie delle varie tradizioni locali, anche di culture diverse dalla nostra, sono parenti prossime del canto gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente universale.

(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2008)

1 commento:

Syriacus ha detto...

L'abate olivetano Zielinski tenne una conferenza all'Oratorio di Genova non molto tempo fa, in cui lesse un testo molto simile a questo. All'uscita, gli chiesi che ne pensava, ovvero una possibile retta ermeneutica, delle parole di Mons. Ranjit, che qualche giorno prima aveva definito "abusiva" l'introduzione della comunione in mano. Un mero 'misunderstanding' linguistico, di un "cingalese impiegato del Vaticano"?
Ebbene, la sua risposta, molto franca, appassionata e diretta fu che l'introduzione della comunione in mano è stata senz'altro un 'abuso' (di potere, diciamo) , poichè -questo il punto dell'Abate- non vi sarebbe stato un esplicito "mandato" del Concilio al proposito.

Vi assicuro che la convinzione del Zielinski nel sostenere la sua posizione, all'unissono con quella del Ranjit, mi 'sorprese' davvero.

...D'altronde, nella conferenza egli sostenne con forza il ruolo imprescindibile della lingua sacra latina. Aggiunse, con rammarico, di come dopo la riforma liturgica non si siano ravvisate famose conversioni esclusivamente cagionate dalla Divina Liturgia, come in tempi precedenti.

Ciò perfettamente in linea con il -ecclesially incorrect- "non tutta la riforma liturgica è stata negativa" di Mons. Ranjit.

Insomma, un prelato con le idee chiare, e che dice ciò che pensa.