13 febbraio 2008

Riflessione sulla Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione: "Incertezze che incrinano la coscienza missionaria" (Osservatore)


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NOTA DOTTRINALE SU ALCUNI ASPETTI DELL’EVANGELIZZAZIONE A CURA DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

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Riflessione sulla Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione

Incertezze che incrinano la coscienza missionaria

di Alberto Cozzi

In ogni atto comunicativo l'uomo "anticipa" in qualche modo "una comunità ideale", cioè esprime e interpreta legami, relazioni e quindi diritti e doveri. La Chiesa, quando comunica il Vangelo di Gesù Cristo, anticipa come comunità ideale la comunione trinitaria: "Così la Chiesa universale si presenta come "un popolo radunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"" (Lumen gentium 4). È ciò che Gesù esprime nella sua preghiera sacerdotale: "E la gloria che tu hai dato a me io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me" (Giovanni 17, 22-23).
Ciò significa che i cristiani portano nell'annuncio del Vangelo un dono che non congeda il fratello, ma anzi crea legami nuovi, nei quali si giunge alla comunione con Dio stesso: "Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo" (Prima Lettera di Giovanni 1, 3). In questo testo si vede chiaramente come l'annuncio di ciò che è stato sperimentato nell'incontro con Cristo sia in concreto un'estensione dei legami di comunione che crea una nuova comunità, alla cui origine vi è la comunione di Padre e Figlio.
Questa stessa certezza è espressa in modo forte nei testi chiave del Concilio Vaticano II, ripresi in sintesi dalla Dominus Jesus (18): "Da un lato "la Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità del genere umano" (Lumen gentium 1); essa è quindi segno e strumento del Regno: chiamata ad annunciarlo e a instaurarlo. Dall'altro lato, la Chiesa è "il popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Lumen gentium 4); essa è dunque "il Regno di Cristo già presente in mistero" (Lumen gentium 3)".
Rispetto a questa certezza originaria della fede cristiana, la recente Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione, pubblicata il 15 dicembre 2007 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, evidenzia a livello ecclesiologico tre possibili crisi su cui vigilare: una "crisi di appartenenza" (n. 9), una "crisi della pretesa di verità" (n. 10) e una "crisi della testimonianza" di un'esperienza (n. 11). Si tratta di incertezze che incrinano la coscienza originaria del compito evangelizzatore dei discepoli di Gesù, proprio perché oscurano la percezione della natura missionaria della Chiesa.

Senso di appartenenza

La prima crisi, individuata al n. 9 della Nota, riguarda il "senso dell'appartenenza alla Chiesa". La problematica da leggere sullo sfondo è quella del preteso superamento di una logica "ecclesiocentrica": nella sua opera evangelizzatrice la Chiesa deve resistere alla tentazione di "portare se stessa", per concentrarsi sull'annuncio di Gesù Cristo e del suo Regno (Illuminante la precisazione di Redemptoris missio al termine del n. 19: "Paolo VI, che ha affermato "l'esistenza di un legame profondo tra il Cristo, la Chiesa e l'evangelizzazione", ha pure detto che la Chiesa "non è fine a se stessa, ma fervidamente sollecita di essere tutta di Cristo, in Cristo e per Cristo, e tutta degli uomini, fra gli uomini e per gli uomini"").
Secondo questa sensibilità rimane vero che la Chiesa "deve annunciare", perché è a servizio dell'azione salvifica universale di Dio, ma non deve annunciare "se stessa". Piuttosto deve come "dissolversi" nell'azione salvifica di Dio a favore degli uomini. Una mentalità di questo tipo rischia però di dimenticare che la comunità ideale, anticipata in ogni atto comunicativo, non può essere senza "corpo", cioè senza legami reali, storicamente efficaci e misurabili. In tal senso, la comunione che si crea deve piuttosto inserirsi nella storia concreta e in un popolo radunato nei vincoli della fede, dei gesti rituali (sacramenti) e della tradizione (apostolica). Si riconosce qui, nella crisi del senso di appartenenza, una duplice crisi: quella dei legami e quella della presenza. Nella crisi dei legami è presente spesso una lettura ingenua della gratuità del dono del Vangelo: si annuncia senza imporre se stessi agli altri. Ma ciò significa anche annunciare senza creare legami, senza offrire se stessi alla comunione, all'amicizia? Per correggere questa "crisi dei legami" storici e concreti, la Nota propone la bella immagine dell'incorporazione alla Chiesa come "ingresso nella rete di amicizia con Cristo, che collega cielo e terra, continenti ed epoche diverse". Nello sforzo evangelizzatore non si tratta di estendere un gruppo di potere animato da una qualche utopia politica, ma c'è in gioco l'ingresso nel dono della comunione con Cristo, che è vita nuova animata dalla carità e dall'impegno per la giustizia. Quanto alla "crisi della presenza", che tende a separare la Chiesa da Cristo e quindi dal Regno, quasi che la comunità cristiana non sia il "corpo di Cristo" in cui si realizza una nuova presenza salvifica di Dio, la Nota insiste sul fatto che la Chiesa "è già presenza di Dio nella storia (...) una presenza necessaria, poiché solo Dio può portare al mondo pace e giustizia autentiche" (Tra le righe della Nota si può leggere il rimando a Redemptoris missio n. 18: "Il Regno di Dio non è un concetto, una dottrina, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è anzitutto "una persona" che ha il volto e il nome di Gesù di Nazaret, immagine del Dio invisibile").
La Chiesa che evangelizza è "veicolo della presenza di Dio e perciò strumento di una vera umanizzazione dell'uomo e del mondo". Dunque la Chiesa non è pura funzione di un'azione salvifica universale e anonima di Dio, senza consistenza propria, ma è una rete di legami in cui si realizza la presenza di Dio che salva. Andrebbe recuperato qui il senso positivo originario dell'assioma extra ecclesiam nulla salus: la Chiesa è stata dotata da Dio di tutti i doni salvifici e i mezzi per raggiungere la verità e la vita (Su questo significato dell'assioma si veda Commissione Teologica Internazionale, Il Cristianesimo e le religioni, n. 70. Il senso è quello espresso da Redemptoris missio n. 18: "Cristo ha dotato la Chiesa, suo corpo, della pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza").

Pretesa di verità

La seconda crisi, a cui rimanda il n. 10, deriva dalle recenti forme di relativismo pluralista: è la crisi della "pretesa di verità". Si può leggere sullo sfondo la riduzione della Chiesa a formazione culturale parziale, accanto ad altre forme culturali. Come tale la Chiesa non dovrebbe pretendere di imporre il suo punto di vista sulla verità, dal momento che la singola cultura non si identifica con la verità universale. Non è pertanto autorizzata ad "annunciare" ad altri la sua verità per convertirli, poiché così rischia di ledere la loro libertà di coscienza. Si dovrebbe invece limitare a dialogare con altre culture e religioni. Al di là della problematica riduzione della libertà a "indifferenza nei confronti della verità e del bene", a cui allude esplicitamente la Nota, va rilevato qui il rischio di perdere il vero senso della Chiesa per un'errata concezione della cultura e del suo rapporto con la verità dell'uomo. È già interessante il fatto che la mentalità pluralista, in particolare nella recente teologia delle religioni, abbia impostato il rapporto con le religioni come problema della relazione tra "il cristianesimo e le religioni", lasciando in ombra la Chiesa, che è invece il soggetto storico concreto di tali rapporti. L'idea di "cristianesimo" rischia in effetti di ridurre la fede a una certa forma culturale. A monte di una simile mentalità sta, da un lato, un'idea riduttiva di cultura e, dall'altro, un equivoco sulle dimensioni culturali dell'appartenenza alla Chiesa. Aiuta a correggere queste concezioni errate una duplice considerazione del teologo J. Ratzinger in Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo (Siena, Cantagalli, 2003).
La prima riguarda il senso dinamico dell'idea di cultura e la sua apertura all'universalità della verità: "Le varie culture non vivono solo la loro propria esperienza di Dio, del mondo e dell'uomo, ma lungo il loro cammino si incontrano inevitabilmente con altri soggetti culturali e si devono confrontare con le altrui differenti esperienze. Così, a seconda dell'apertura o della chiusura, a seconda della larghezza o della ristrettezza di un soggetto culturale, si giunge all'approfondimento e alla purificazione delle proprie conoscenze e valutazioni. Ciò può portare a una trasformazione profonda della forma di cultura vigente. Un'eventuale trasformazione positiva dipende dalla potenziale universalità di tutte le culture, che si concretizza nell'accoglienza di ciò che è altrui e nel cambiamento di ciò che è proprio" (ivi, pp. 65-67). In fondo, l'incontro delle culture è possibile perché l'uomo, nonostante tutte le differenze della sua storia e delle sue creazioni comunitarie, è un identico e unico essere. Quest'essere unico che è l'uomo, nella profondità della sua esistenza, viene intercettato dalla verità stessa. Da qui deriva la fondamentale apertura di tutti verso l'altro e si spiegano le essenziali convergenze che esistono anche tra le culture più remote. Ne deriva una visione dinamica e comunicativa delle culture, che rende testimonianza della tipica apertura dell'uomo all'universale e alla trascendenza: "Perciò le culture, quale espressione dell'unica essenza dell'uomo, sono caratterizzate dalla dinamica dell'uomo, che trascende tutti i limiti" (ivi, p. 205). Alla luce di queste considerazioni si può cogliere - ed è la seconda considerazione da raccogliere - il rapporto tra fede e cultura. Il mezzo che porta l'una incontro all'altra non può che essere la comune verità dell'uomo, nella quale è sempre in gioco la verità su Dio e sulla realtà nel suo complesso. Quanto più una cultura è conforme alla natura umana, quanto più è elevata, tanto più aspirerà alla verità che fino a un certo punto le era rimasta preclusa, sarà capace di assimilare tale verità e d'immedesimarsi con essa. Detto questo, occorre subito aggiungere che il cristianesimo è una cultura e la Chiesa un soggetto culturale, anche se non si tratta di una cultura particolare, essendo la Chiesa un popolo radunato da tanti popoli. Non esiste una fede pura, senza mediazione culturale. Perciò il cristiano può avere una duplice cultura: quella d'origine e quella della fede. Credere significa entrare in un popolo, la Chiesa, con una sua cultura e una sua storia. Ma come stanno insieme le affermazioni che il cristianesimo è una cultura ma non una cultura particolare? È possibile comporre le affermazioni se si tiene presente il superamento delle culture nella Bibbia e nella storia della fede: "Tutti i popoli sono invitati ad entrare in questo processo di superamento della particolarità, che ha avuto inizio innanzitutto in Israele, a rivolgersi a quel Dio, che da parte sua si è oltrepassato in Gesù Cristo e ha infranto il muro dell'inimicizia che era tra noi (Lettera agli Efesini 2, 14) e ci conduce l'uno verso l'altro nell'espropriazione di sé compiuta sulla croce. La fede in Gesù Cristo è pertanto di sua natura un continuo aprirsi, irruzione (Einbruch) di Dio nel mondo umano e aprirsi (Aufbruch) dell'uomo in risposta a Dio, che nello stesso tempo conduce gli uomini gli uni verso gli altri. Tutto quanto ci appartiene ora appartiene a tutti e tutto ciò che è degli altri ora diviene anche nostro" (ivi, pp. 210-211). La fede ha avvicinato i popoli non a una cultura particolare, ma alla dinamica di auto-superamento verso la verità universale dell'uomo, che costituisce il vero punto di aggancio per l'interpretazione del messaggio cristiano. L'esodo, la frattura culturale, col suo morire per rinascere, è un tratto fondamentale del cristianesimo: "Nessuno nasce cristiano, nemmeno in un mondo cristiano e da genitori cristiani. Il cristianesimo può avvenire sempre e solo come nuova nascita (...) Nell'idea di rivelazione il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo (...) ci porta entro uno spazio più grande, e proprio così ci apre la possibilità... di accostarci gli uni agli altri" (ivi, pp. 91-92).
Questo invito all'Esodo verso una verità più grande, che la fede propizia, risuona nella Nota quando viene richiamato il dovere di ogni cristiano di evangelizzare "mettendosi in cammino per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza". Sembra dunque che la risposta migliore a certe forme di relativismo pluralista sia un forte richiamo al dovere di accompagnare gli uomini nell'esodo continuo verso la "verità sempre più grande" e quindi universale a cui siamo chiamati da Dio.

Il valore dell'esperienza

La terza forma della crisi dell'evangelizzazione è identificata al n. 11 come "crisi della testimonianza personale" di un'esperienza. Nella sua Prima Lettera - sopra citata - l'apostolo Giovanni dava l'idea di un'esperienza contagiosa, che si comunica a partire da una gioia incontenibile, che non può essere trattenuta per sé soli. La Nota parla in tal senso di una "gratitudine per l'amore donato in Cristo" che inserisce nella dinamica di questo donare, aprendola ad ogni uomo. Il Vangelo è comunicazione di un amore che apre agli altri. Si impegna nell'evangelizzazione chi sente questa comunicazione d'amore e se ne lascia coinvolgere. Siamo al livello della testimonianza personale, dell'incontro e dello scambio "da persona a persona". La notazione non è da poco: troppo spesso si immagina l'annuncio al modo di una proclamazione pubblica e solenne, dimenticando l'importanza della trasmissione personale della fede, che costituisce ancora il vero tessuto dell'opera evangelizzatrice delle comunità cristiane. Si pensi all'opera capillare realizzata nell'iniziazione cristiana nelle parrocchie ma anche all'educazione familiare alla fede e alla preghiera. Vale dunque la pena di richiamare questa essenziale "dimensione interpersonale" dell'evangelizzazione, nella quale la Chiesa si conferma come comunità storica concreta fatta di legami e volti personali. La Nota lo fa riprendendo un bel testo di Paolo VI nell'Evangelii nuntiandi (n. 46): "Accanto alla proclamazione fatta in forma generale del Vangelo, l'altra forma della sua trasmissione, da persona e persona, resta valida ed importante. [...] Non dovrebbe accadere che l'urgenza di annunziare la buona novella a masse di uomini facesse dimenticare questa forma di annuncio mediante la quale la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro". La Chiesa che evangelizza non è un anonimo gruppo culturale, impegnato a diffondere il suo punto di vista sulla realtà. È una comunità viva, fatta di legami storici concreti e animata da una presenza viva di Dio in Cristo che apre attraverso il contatto personale la forza dell'amore di Dio che crea comunione.

La Chiesa

I presupposti ecclesiologici dell'evangelizzazione esigono che sia considerata una duplice impossibilità: l'impossibilità di risolvere la Chiesa in un aspetto parziale dell'azione di Dio a favore degli uomini, da un lato; l'impossibilità di considerarla come realtà a se stante, indipendentemente cioè dalla sua relazione a Cristo, dall'altro. Sul primo versante è illuminante l'immagine della Chiesa come "sposa" (Lettera agli Efesini 5, 25-30) e quindi come realtà altra, posta di fronte a Cristo come termine di un dono e di un appello libero; sul secondo versante si deve pensare alla Chiesa come "corpo" di Cristo (Prima Lettera ai Corinzi 12, 12-27), in cui si realizza la sua presenza, che è germe e strumento del Regno nella storia. L'immagine della "sposa" completa quella del "corpo" precisando che la Chiesa non si risolve nell'agire di Dio a favore del mondo, non è solo prolungamento dell'opera di Cristo, ma è soggetto di fronte a Lui, fatto di legami e volti concreti nei quali è accolta e realizzata la comunione nuova del Padre e del Figlio. L'immagine del corpo illumina quella sponsale ricordando che la Chiesa è di fronte a Cristo non come realtà autonoma, precostituita rispetto al suo dono, dal momento che è frutto della consegna radicale di sé, che Cristo ha compiuto nella sua Pasqua. La Chiesa è posta da Cristo stesso di fronte a sé come sposa immacolata, chiamata a una libera risposta d'amore. Il suo impegno evangelizzatore consiste proprio nel coinvolgere gli uomini in questa risposta d'amore, attraverso la tessitura di legami concreti, nei quali si realizza la presenza di Cristo nel suo corpo.

(©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2008)

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