10 marzo 2008

Preghiera per gli Ebrei nella Messa tridentina, Gianluca Arca: "Benedetto XVI ha compiuto un'operazione in piena sintonia con la tradizione..."


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"Benedetto XVI ha compiuto un'operazione in piena sintonia con la tradizione..."

A proposito della nuova formula della preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo in rito antico

di Gianluca R. P. Arca

Numerose polemiche ha suscitato la recente pubblicazione della revisione, nell'orazione universale del Venerdì Santo, della preghiera per gli ebrei: se la polemica che viene dagli ebrei è comprensibile, per quanto non condivisibile, non lo è quella che viene da quanti si ritengono cattolici e, per di più, cattolici tradizionalisti. Da cattolico non ritengo di dover valutare l'atteggiamento dei primi, ma non posso tacere sulle contraddizioni evidenti nelle reazioni degli altri.

Alcuni uomini ligi alle forme, ma dimentichi della sostanza, convinti del proprio tradizionalismo si sono levati in aspre critiche all'indirizzo del Santo Padre.

La tradizione, secondo il concetto della Chiesa cattolica, consiste nel deposito della fede come insegnato dalle Sacre Scritture, inteso dai santi Padri, nonché dal magistero d'ogni tempo; questa tradizione, la sostanza stessa dell'essere Chiesa, si è esplicata costantemente anche nella liturgia che è maturata attraverso i secoli, esprimendo in maniera costante il deposito e l'intendimento di cui si è fatto cenno, pur evolvendosi le forme in maniera rispondente alla comprensione di ogni epoca.

La dinamica evolutiva della liturgia ha subito un arresto in seguito alla riforma voluta dal Concilio di Trento che ha irrigidito in forme facilmente controllabili, grazie all'ottenuta fissità e omologazione, nel momento in cui più grave era il pericolo di deformazioni eretiche, la struttura e le tessere della liturgia. La tradizione non si è identificata, comunque, per quanti sono stati capaci di intenderla nel suo vero significato, in quelle rigide forme, ma nel deposito che continuava a splendere immutato.

La tutela della fede, in tutti i moduli che l'attualizzano e la esplicano, è sempre stata affidata ai successori degli Apostoli e al primo di essi in particolare, a colui a cui, per essere il successore dell'Apostolo Pietro, spetta di confermare i suoi fratelli” (Luca 22,32).

La tradizione indiscussa della cattolicità insegna che il papa è eletto per ispirazione di un “Grande Elettore”, del Signore stesso nella persona dello Spirito Santo.

È facile pensare a mille calcoli di tipo politico, nel momento in cui i cardinali sono riuniti in conclave per l'elezione, e sarebbe semplicistico il pensare che non esistano riflessioni e valutazioni umane in quella sede, tuttavia, non possiamo non essere convinti del fatto che, nonostante l'arrabattarsi degli uomini, talora in maniera conscia talora senza quella coscienza, venga ad attuarsi il disegno dello Spirito Santo per il bene della Chiesa. E quel bene non è tale in quanto conforme alla visione della maggior parte o di una minoranza di fedeli, è bene perché viene dall'ispirazione al capo visibile del Capo Invisibile.

Il papa è il vicario di Cristo, al Papa è il carisma di confermare i fratelli nella fede, del papa è il dovere di tutelare la fede, al papa è data assicurazione, nelle parole stesse del Signore, di vittoria contro il male nella guida a porto sicuro del gregge che gli è affidato: “Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam et portae inferi non prevalebunt adversus eam, et tibi dabo claves regni caelorum” (Math. 16,18).

Non si può pensare, a pena di non essere cattolici in maniera piena, di poter fare di più, di essere chiamati alla tutela della fede addirittura muovendosi contro il pontefice, quasi egli fosse stato abbandonato da Colui che ha promesso assistenza e sostegno, si rischia, così, di dare l'avvio alla dissoluzione della Chiesa: “Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge” (Math. 26,31).

Desiderare che si dia corso alla propria visione delle cose, piuttosto che a quanto è utile alla causa di Cristo è una tentazione purtroppo sempre in agguato e sempre pronta ad impossessarsi dei fedeli; ci si perde nella contemplazione idolatrica di parole, di gesti, di posizioni, che devono essere conservate identiche a come sono state sancite in questo o quel momento storico (questo vale sia per i tradizionalisti radicali sia per coloro che si ritengono innovatori ad oltranza) e non si rendono conto di porsi fuori da ogni tradizione; non si accorgono di voler cristallizzare, secondo i propri gusti, la liturgia che nella Chiesa è stata sempre un organismo vivo né si accorgono di voler a tutti i costi preservare lo strumento a danno della sostanza.

L'ultima parola, per quanto concerne motivi di dottrina, di morale, di liturgia spetta, dunque, al papa e a lui solo.

Per tornare alla riflessione da cui si è partiti, appare a tutti chiaro il fatto che nella Chiesa si sono susseguiti differenti atteggiamenti nei confronti degli ebrei, considerati ora popolo deicida ora popolo che primo ha goduto dell'amicizia divina e nostri fratelli maggiori; questa percezione ha guidato la codificazione delle forme attraverso le quali si è elevata la preghiera per la loro conversione.

Se si prendono in considerazione la preghiera del messale del 1962 e la modifica, risalente a qualche giorno fa, operata da Benedetto XVI, ci si rende conto del fatto che la sostanza non muta; la Chiesa pregava e prega perché anche i giudei possano giungere alla contemplazione piena della verità, la redenzione operata per tutti gli uomini da Gesù Cristo Figlio di Dio, si potrebbe dire, anzi, che questa speranza è resa, nella revisione, più luminosa ed esplicita di quanto fosse nella precedente formula.

Il pontefice ha compiuto un'operazione in piena sintonia con la tradizione come si è venuta sviluppando, senza soluzione di continuità (per quanto già detto, non può concepirsi, nella Chiesa, soluzione di continuità).

Alcune delle parole contenute nella precedente formula eucologica suonano offensive, non della dignità e della fede degli ebrei, ma di quella dei cristiani stessi che dimostrerebbero, continuando ad esprimere un duro giudizio, dopo riflessioni che hanno condotto a più ampia fiducia nella grazia di Dio, una certa mancanza di carità fraterna nei confronti dei fratelli per i quali pregano. Le locuzioni “velo del cuore” o “accecamento dell'intelletto” sono superflue alla causa per cui si prega; i cristiani si adoperano per la diffusione del Vangelo, perché tutti gli uomini abbiano coscienza della salvezza operata da Dio per mezzo del suo Cristo e lo fanno attraverso l'insegnamento di Cristo stesso: con il rispetto e l'amore, mai con la violenza o la contumelia. Chi ha fede piena nell'onniscienza divina sa, infatti, quanto poco sia necessario, nella preghiera, l'esplicazione della ragione: quand'anche la formula di preghiera per i fratelli ebrei mancasse di ogni riferimento all'intenzione, il Signore gradirebbe l'afflato sincero e opererebbe il bene di coloro per i quali viene elevata la supplica.

Il papa è conscio della necessità, in un tempo che sembra desiderare lo sbiadimento e, talora, la dissoluzione di ogni slancio positivo in senso evangelico, di affermare, come tutti i suoi predecessori hanno fatto, la salvezza universale operata da Gesù Cristo e, dunque, sottolinea due concetti principali che si evincono dalle scritture e che, come si diceva, tratti fuori da un contesto nel quale alcune durezze restavano, splendono di luce maggiore: “Cristo” è “salvatore di tutti gli uomini” (passim nei Vangeli), “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla pienezza della verità” (I Tm 2,4). Questo è nell'animo del pastore, questa è la fede che la Chiesa ha sempre espresso!

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1 commento:

euge ha detto...

Qualcosa di sensato su questo argomento e non le solite prese di posizione sterili e volutamente polemiche.
Eugenia