4 aprile 2008

Dossier: Quella Messa si può fare. Il sociologo Pietro De Marco risponde alle principali perplessità provocate dal Motu proprio Summorum Pontificum


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Dossier: Quella Messa si può fare

Ai dubbi si risponde...

di Roberto BERETTA

Il sociologo Pietro De Marco risponde alle principali perplessità provocate dal Motu proprio del Papa sulla possibilità dell’uso liturgico del messale del 1962. In realtà, Benedetto XVI integra e completa l’opera di Giovanni Paolo II.

Diciamo la verità: sono in molti i buoni cristiani che parteciperanno volentieri a una Messa in latino, per nostalgia, per cultura, per formazione spirituale. Ma sono altrettanti (e non è detto che non siano, almeno in parte, compresi nel gruppo precedente...) i credenti rimasti perplessi dopo il recente Motu proprio di Benedetto XVI sulla liturgia precedente il 1970.

Per vari dubbi e motivi, che sottoponiamo a Pietro De Marco, sociologo della religione all'Università di Firenze; il quale invece subito dopo l'uscita della lettera pontificia ne ha sottolineato perfino l'«aspetto medicinale».

Primo dubbio: professore: se è vero (come è vero) che il Concilio Vaticano Il non aveva mai abrogato la liturgia in latino, che bisogno c'era di «restaurarla»? E poi, visto che esisteva già la «nuova messa» tradotta in latino, perché tornare proprio al "messale di san Pio V"?

«Vi è un aspetto tecnico-giuridico che non è mio mestiere trattare, anche se mi cimenterei volentieri. Certo è che, a dispetto delle dichiarazioni di "non abrogazione" della "forma antica del rito romano" moltiplicatesi di recente, sembrava in atto in passato un'abrogazione tacita. I vescovi amministravano la concessione della celebrazione dell'antico rito con molta parsimonia, forse apprensione, talora ostilità. La decisione di Benedetto XVI di sottrarre la Messa tridentino-gregoriana alle contingenze locali è dunque un ammirevole atto; la Summorum pontificum risolve i tentennamenti e le resistenze perenni nelle Chiese locali e tra gli specialisti, alla luce di una convinzione maturata in molte sedi da oltre un decennio».

Secondo dubbio: è evidente che ci sono stati parecchi e anche ridicoli e indecenti abusi liturgici nel post-Concilio. Ma anche la liturgia precedente aveva pecche non minori: rubricismo e formalismo, scarso spazio alla Bibbia, difficoltà di comprensione e di partecipazione, idea un po' «magica» del rito, eccetera. Non si tornerà o a questi abusi?

«La sensibilità e la determinazione del Pontefice sembrano decisamente favorevoli a restituire sia alla tradizione liturgica preconciliare, sia al lavoro del Concilio il loro valore e il loro peso. Anche a difesa delle diverse forme di attuazione della riforma liturgica, poiché dall'arbitrio nulla viene risparmiato: anzitutto ciò che si presenta come nuovo. Si deve pur rioconoscere (tardivamente? Questo non vale certo per Joseph Ratzinger) che alcune delle severe riserve che vennero dall'interno della Chiesa alla riforma liturgica, riserve coltivate poi da ambienti diversi e certamente non scismatici hanno visto confermate nel tempo le loro ragioni: nelle mani dei liturgisti (e biblisti; pochi i teologi), la Messa della tradizione secolare tridentino-gregoriana si stava riducendo alla figura-evento della Cena. Enorme il rischio, col tacere dell'evento culmine della transustanziazione e sottovalutare la natura sacrificale e propiziatoria del rito, di smarrire la peculiare realtà della Messa».

Terzo dubbio: valeva la pena di ripristinare il rito di san Pio V, al prezzo di rinfocolare ulteriori divisioni nella Chiesa?

«Ma la nuova legittimazione della intatta validità del messale di Pio V e la sanzione positiva della sua scelta alternativa libera, decise da Benedetto XVI, vanno ben oltre le pratiche di pacificazione con i "lefebvriani".

Esse dichiarano che la ritualità cattolica e il dogma eucaristico, come intesi prima del Concilio Vaticano II, restano orizzonte vitale della nostra vita liturgica. Insomma, la disciplina del nuovo rito non solo non bastava ai "tradizionalisti" (non sarebbe decisivo, considerata la loro rigidità), ma - ciò che conta - "non bastava" a Roma, in quanto ha mostrato di non essere freno in sé sufficiente alle concezioni "banalizzanti", attivistico-comunitarie, della liturgia, subentrate alle sfide manipolatorie di qualche anno fa. Non è il latino il problema, ne è solo un corollario. La ricchezza tradizionale intera - per dire così - del culto cristiano è per Benedetto XVI il canone cui attingere nuovamente. L'obiettivo della «riconciliazione interna della Chiesa» diviene così parte di un più ampio intervento per l'intera comunità credente, indipendentemente da storiche tensioni con le minoranze tradizionaliste. Questo quadro può essere generatore di conflittualità intraecclesiale?

Avrei voglia di replicare che l'argomento della conflittualità (come rischio, anche spirituale o morale) è spesso usato per proteggere i gruppi, o gli stati di cose, "egemoni" o prevalenti».

Quarto dubbio: come recuperare le ricchezze teologiche che la «nuova Messa» sottolinea e che nel messale tridentino erano come minimo sottaciute? Penso allo spazio per la liturgia della Parola, all'idea di Messa come cena e non solo sacrificio, alla centralità dell'assemblea e non del solo celebrante...

«Certo, la riforma ha introdotto nella liturgia più Scrittura, più memoriale e più popolo. Non si tratta di smarrire quello che della vita liturgica attuale apprezziamo; né è ragionevole pensare che il Motu proprio abbia non solo l'intenzione (che non ha) ma la forza obiettiva di produrre effetti indesiderati del genere e su larga scala. Però dobbiamo saper prendere atto che Parola e popolo sarebbero da soli poca cosa senza la realtà - che precede, fonda e trascende la comunità orante - del Corpo mistico e del sacrificio eucaristico».

Lei ha sostenuto che «il messale tridentino potrà agire come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente».
Speriamo. Ma temo pure la rinascita di un rito che dimentica la bellezza del simbolo per diventare pedantemente allegorico, e preti che cercano sicurezze nell'esecuzione «esatta» dei gesti e delle formule: come i farisei di un tempo misuravano la lunghezza dei loro filatteri... lei no?

«Ma questa è una caratterizzazione deteriore del rito antico, che chi lo ha praticato e interiorizzato nella sua formazione cristiana contesta fermamente. Ricordo che i maestri della primissima fase della riforma liturgica conoscevano la magnificenza simbolica, non "allegorica", del rito cristiano entro la liturgia gregoriano-tridentina, che non hanno mai pensato di sconvolgere. Ma una frattura vi fu. Infatti, cosa hanno a che fare tali maestri o la stessa Costituzione liturgica del Concilio con gli indirizzi della riforma? In questa frattura prende corpo, oserei dire, ufficiosamente nella Chiesa, lo stereotipo del ritualismo: il riformatore cattolico ha bisogno di un paradigma negativo, e non va per il sottile.
In conclusione, con la Summorum pontificum si conferma, a mio avviso, il taglio inconfondibile del programma di Benedetto XVI: la sua visione strategica opera ad integrazione e compimento del magistero di Giovanni Paolo Il, con caratteristiche di fermo discernimento sui temi della verità e della ragione. Ne valeva, e ne varrà, sicuramente la pena».

Il pensiero del car. Ratzinger

«Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ascolta».
(Joseph Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, 1997, p. 115)

© Copyright IL TIMONE - Settembre/Ottobre 2007 (pag. 42-43)

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