12 giugno 2008

I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa (Schiavone)


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Su segnalazione di Eufemia, leggiamo questo interessante editoriale di Aldo Schiavone per "Repubblica".
R.

I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa

di ALDO SCHIAVONE

A leggere, più a freddo, i commenti del giorno dopo, sembra proprio che l' effetto, ancora una volta, sia stato raggiunto. Con il duplice, studiatissimo bacio deposto sull' anello di Benedetto XVI all'inizio e alla fine del loro ultimo incontro, Silvio Berlusconi ha fatto ricorso all' immagine di una inattesa sottomissione per lanciare un messaggio inequivocabile: è arrivato, in Italia, il momento di una nuova alleanza fra Chiesa e guida politica del Paese. Il gesto, al posto della parola o del discorso, per trasmettere in modo sintetico e diretto il senso di una scelta. Comunicare è vincere. Poi si ragionerà. La centralità della "questione cattolica" è stata così riproposta con il valore di un annuncio e di un programma. Insieme a tanti altri aspetti del nostro passato, è venuto il momento - questo voleva dire quell' inchino - di mettere da parte anche la difficile e ingombrante laicità che aveva accompagnato finora il nostro cammino repubblicano. Fra i due lati del Tevere può scorrere ormai una nuova acqua. Qualche tempo fa, avevo scritto su questo giornale di "un'onda neoguelfa" che sta scuotendo nel profondo la nostra società - un sentimento diffuso che assegna al Pontefice l' esercizio di una specie di protettorato nei confronti della democrazia italiana, e ne fa il custode della stessa unità morale della nazione. Ebbene, con il suo gesto Berlusconi ha assunto pienamente la leadership di questa tendenza, cercando di piegarla a suo vantaggio. In questo senso, il bacio all' anello viene dal capopartito, più che dal presidente del Consiglio: serve a completare la collocazione postelettorale del Pdl, prima che a trasmettere una certa idea del Governo e dello Stato. Di fronte alla nettezza di questa posizione, la cosa più sbagliata sarebbe di sottovalutarne la portata e l'importanza, riducendola a un semplice aggiustamento tattico, dettato solo da un opportunismo di corto respiro. Non è così. Al contrario, essa nasconde una valutazione strategica, e si fonda su un' intuizione non banale dei cambiamenti in atto. È vero: la fine della stagione democristiana, non meno che i mutamenti del nostro scenario sociale e mentale, ci stanno spingendo verso la sperimentazione di nuovi intrecci, anche organizzativi, fra religione e politica, che si presentano in termini molto diversi rispetto al nostro più recente passato. Ed è proprio intorno a questo groviglio - alla capacità di darvi una forma matura e compiuta - che sarà combattuta la battaglia per la futura egemonia culturale del Paese, per la costruzione del tessuto intellettuale e morale in cui vivremo. Le religioni monoteiste tendono ad avere tutte, geneticamente, un rapporto strettissimo con la politica. La loro pretesa di interezza - controllare l' uomo nella totalità della sua esistenza - e la loro esclusività («non avrai altro Dio~») le immettono sin dall' inizio in uno spazio di potere e di violenza. Il messaggio cristiano ha cercato tuttavia di spezzare in modo rivoluzionario questo nodo, recidendolo con un colpo di spada ignoto alle altre tradizioni: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», come leggiamo nei Sinottici. Lungo tutta la sua storia, l' Occidente ha cercato di elaborare questa separazione, offrendone di volta in volta letture prudentemente concilianti o aspramente radicali. In questo cammino, un punto di forza della modernità è stata la distinzione fra interiorità della coscienza ed esteriorità della norma giuridica, riflessa nel corrispondente principio della neutralità etica dello Stato e del discorso pubblico che ne sorregge le basi. Ora, il punto è che questa divisione, così come ci è stata consegnata dai classici, non regge più, e in questa crisi c' è un fortissimo segno del nostro tempo. Lo Stato e la politica (per non parlare del diritto) piuttosto che distanziarsene, hanno sempre maggior bisogno di integrare al loro interno contenuti etici forti e vincolanti, per essere in grado di disciplinare la potenza di economie e di tecniche onnipotenti, capaci di incidere sulla vita e sulla morte, di trasformare il naturale in artificiale, di arrivare a toccare lo stesso statuto biologico dell' umano. E nel conseguente corto circuito che si sta determinando finisce con il saltare ogni distinzione fra coscienza interiore e discorso pubblico, fra legge e moralità, almeno per quanto riguarda alcuni terreni decisivi, dalla genetica alla procreazione, all' idea di matrimonio e di famiglia.
In un simile quadro, la pretesa di tener fuori della politica - della biopolitica che decide sulla forma della vita - il magistero morale della Chiesa, proprio nel momento in cui più acuta se ne fa la domanda a causa dell' incertezza che stiamo attraversando, diventa una pretesa assurda.
Dobbiamo saperlo accettare: i confini fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio hanno assunto contorni imprevisti, e passano su terre incognite, che appena cominciamo a esplorare. Non abbiamo bisogno di una nuova laicità per attraversarle, ma piuttosto di sondare le possibilità di una integrazione inedita tra fede e ragione, che ci accompagni almeno per un certo tratto di strada, al di là di vecchi e inservibili steccati.
Riconoscere pienamente il diritto della Chiesa di intervenire con tutto il suo peso nel discorso pubblico sull' intreccio fra etica, Stato e diritto che darà forma al futuro del Paese non deve significare però attribuirle un primato a priori.
Vorremmo che questo fosse chiaro a Berlusconi e ai suoi consiglieri. Quando l' esperienza religiosa diventa discorso pubblico, la sua verità, la sua pretesa di assoluto, devono, per dir così, accettare di relativizzarsi. Ogni democrazia è, intrinsecamente, una democrazia relativa, quanto al merito delle sue decisioni. Una Chiesa che abbia davvero compiuto quell' "autocritica" rispetto alla modernità di cui parla Benedetto XVI deve essere in grado non di rinunciare all' assoluto - e dunque alla vocazione a evangelizzare e convertire - ma alla pretesa di imporlo in quanto corazzato di potere, al di fuori di una limpida formazione del consenso democratico. È un passaggio non facile: e tuttavia non se ne intravedono altri, se non rovinosi. L' ultima cosa di cui l' Italia ha bisogno è di ritrovarsi ancora divisa fra "laici" e "cattolici".
Sono convinto che la fine della Dc abbia anche condotto al tramonto del cosiddetto "cattolicesimo democratico" (ha ragione in questo Gaetano Quagliariello che ne ha appena parlato in un convegno). Il Pd dovrà tenerne debito conto.
Ma come oggi sono improponibili i paradigmi di una laicità che ha perduto i suoi presupposti storici, sarebbe altrettanto inaccettabile qualunque tentativo da parte delle gerarchie cattoliche di attribuirsi il ruolo di ago della bilancia nel nascente bipartitismo italiano, per poter dettare con più agio le proprie soluzioni. Arrivano purtroppo segnali non tranquillizzanti in questa direzione. Il Pdl farebbe bene a non incoraggiarli, e a non eccedere. Prima o poi, ne pagherebbe il prezzo.

© Copyright Repubblica, 10 giugno 2008 consultabile online anche qui.

A parte qualche passaggio che non condivido, l'articolo e' interessante. Fa piacere che Schiavone abbia colto le obiezioni sull'esistenza di una fantasiosa "ondata neoguelfa".
R.

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