8 luglio 2008

La residenza pontificia di Castel Gandolfo ai tempi di Benedetto XIV: «Santità, è arrivato monsignor di Canilliac». «Mi spiace, ma sono in vacanza»


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L'articolo indica Papa Prospero Lambertini come Benedetto XVI. Il testo sara' quindi corretto dalla sottoscritta.
R.

La residenza pontificia di Castel Gandolfo ai tempi di Benedetto XIV

«Santità, è arrivato monsignor di Canilliac»
«Mi spiace, ma sono in vacanza»


Il Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo al tempo di Benedetto XIV. Pitture e arredi è il titolo del volume pubblicato da De Luca Editori d'Arte per la collezione "Monumenta Sanctae Sedis" dei Musei Vaticani (Roma, 2008, pagine 223). Ne pubblichiamo un estratto.

di Maria Antonietta De Angelis

La mattina di mercoledi 17 agosto 1740 il cardinale Prospero Lambertini, arcivescovo di Bologna, veniva eletto Sommo Pontefice dopo un lunghissimo conclave di più di sei mesi. Sceglieva il nome di Benedetto XIV. Due ore dopo dettava un breve e nervoso biglietto per il suo agente in Bologna, Filippo Maria Mazzi, in cui, mescolando l'"io" e il "noi", lo avvertiva dell'elezione e chiedeva che i propri nipoti "non venghino senza mio nuovo ordine à Roma"; il biglietto seguiva con istruzioni per lavori lasciati interrotti nella sua diocesi e terminava con l'invio della Apostolica Benedizione.
La nomina a Sommo Pontefice significava sempre, anche a quel tempo, un radicale cambiamento di vita e di abitudini per gli eletti, ma Papa Lambertini non si rassegnò. Amava il movimento e la vita all'aria aperta. Da sempre, come ricorda il biografo bolognese Cesare Marescotti, la sua giornata comprendeva due passeggiate, una a piedi la mattina, l'altra in carrozza il pomeriggio. Possedeva anche un cane che spesso portava a correre e che sicuramente portò con sé a Roma dato che per "il cane di N. S." nel 1740 sono registrati fra i conti della computisteria due collari, uno da casa e uno da passeggio. Doveva essere un animale di taglia grande poiché il collare da passeggio era alto e aveva due fibbie in rame dorato.
A Roma tutta questa libertà gli sarebbe mancata. Il rimedio fu tanto proficuo quanto tempestivo: nei primi due anni di pontificato una piccola e collaudata squadra di artisti, capeggiati dall'architetto dei sacri palazzi, Ferdinando Fuga, e diretti dal maggiordomo di palazzo, il cardinale Girolamo Colonna, gli costruì il caffeaus nei giardini del Quirinale accanto a un'uccelliera e gli rimodernò la villa pontificia di Castel Gandolfo. Così nell'inverno poteva "Sua Beatitudine (...) godere della amenità della verdura" nel suo comodo e raffinato ritiro del Quirinale e in estate (in giugno e per i primi due anni anche in ottobre) cambiare aria e stile di vita nella villeggiatura di Castello.
Le testimonianze sul palazzo pontificio di Castel Gandolfo in quel particolare momento sono estremamente rare. Fra il 1739 e i primi mesi del 1740 ci è rimasta quella di Charles de Brosses, un visitatore in questo caso d'eccezione data la grande stima che nutriva per Papa Lambertini: Une autre fois, nous allâmes a Castel-Gandolfo, maison de campagne du Pape; c'est un bâtiment fort commun, le meubles et le jardin à l'avenant. Il commento negativo del futuro presidente del Parlamento di Borgogna si chiarisce anche in rapporto a quanto detto poche righe sopra quando descrive entusiasticamente la villa Mondragone a Frascati: un grande castello, ben ammobiliato, ornato di un teatro, di una lunga galleria di statue e di pitture dei migliori maestri.
Viene da pensare che anche Benedetto XIV abbia avuto la stessa impressione arrivando a Castel Gandolfo per la prima volta il 3 giugno 1741. L'arredo, come ci appare dall'inventario del 1738, era di circa sessanta quadri sacri, perlopiù di piccolo formato, una grande quantità di stampe in parte colorate, e parati di corame sbalzati dipinti e dorati secondo una moda che risaliva alla metà del secolo precedente, testimoni tutti del modesto livello dell'arredo; se è vero che la vita in villa, secondo la tradizione della corte papale, si svolgeva su binari più semplici e informali rispetto al treno di vita dell'Urbe, non è meno tangibile nell'inventario la sensazione che l'austerità un poco polverosa degli arredi di Castello - alcuni, certamente molto preziosi, risalivano al tempo di Paolo v - aumentava l'impressione di scarso senso dell'accoglienza che essi offrivano.
I sedili erano composti esclusivamente da un grandissimo numero di cassapanche dipinte e decorate dallo stemma del pontefice regnante. I mobili invece erano quasi tutti semplici manufatti di falegnameria rivestiti da coperte in corame. Questo tipo di mobili, alquanto economici rispetto a un vero mobile di ebanisteria, era stato molto in voga nella seconda metà del xvii secolo anche nei palazzi più splendidi come quello dei Pallavicini Rospigliosi a Monte Cavallo. Pochissimi erano i mobili di ebanisteria, fra cui degni di nota due canterani "coloriti a pietra finta con filetti dorati" posti nella stanza accanto alla Sala d'Udienza, un "buffetto di noce, e radica d'ulivo fatto scacchi", e soprattutto il grande trucco (una specie di bigliardo) di noce nell'appartamento del cardinal Nepote Neri Corsini che dovrebbe corrispondere al tavolo da gioco costruito per castello nel 1738 da Lucino Cittadini.
C'era anche un curioso oggetto uno "specchio con cornice di pero nero liscia con luce d'un palmo che mostra la persona deforme e grande di volto"; nel 1742 fu tolto dall'arredo e relegato nel guardaroba.
L'appartamento pontificio vero e proprio, non più abitato dai tempi di Clemente xi era completamente in disuso e privo persino di molte tende. Benedetto XVI si affezionò subito a Castello; ad esempio il 24 maggio del 1743 scriveva al cardinale de Tencin: "Siamo in procinto di partire per la villeggiatura di Castello (...) e nella villeggiatura se non muteremo soma, muteremo almeno l'aria, ed avremo un poco più di moto". E pochi giorni dopo (31 maggio) "In questo luogo, ove ci troviamo a prendere un poco d'aria, che in sé sarebbe buona, ma che purtroppo ci riesce velenosa per le continue incessanti nuove della rovina del nostro povero Stato riceviamo la sua del 13".
Una parte dell'interesse di Benedetto per Castello nasceva certo dal desiderio di mantenere in qualche misura le libere abitudini del periodo bolognese, quando le formalità erano minori, ma sembra anche di sentire nel suo modo di esprimersi un malcelato senso di insofferenza (o di idiosincrasia?) verso l'ambiente romano così diverso dal suo dinamismo e dalla sua sensibilità intensa, affinata dalla cultura. Secondo una testimonianza dell'ambasciatore veneziano Francesco Venier del 1744 egli era rimasto franco, sincero, probo, nemico di tutte quelle "arti che si dicono romane". Il caffeaus e soprattutto Castel Gandolfo sembrano assumere nel suo linguaggio, l'immagine di uno schermo o meglio di un "rifugio" per l'animo, un Aufenthalt ante litteram; tenendo conto dell'esiguità del tempo che il Papa trascorreva effettivamente durante l'anno a Castello.
Prospero Lambertini ci ha lasciato un epistolario di valore intimo senza pari, per l'estensione cronologica - che interessò praticamente tutta la sua vita - l'immediatezza del suo modo di esprimersi e la estrema varietà dei destinatari, fra cui amici di una vita come il cardinale Pierre Guérin de Tencin, Filippo Maria Mazzi, il conte Paolo Magnani, la marchesa Maria Camilla Caprara Bentivoglio, il canonico Pier Francesco Peggi. Ciò non esclude che egli, come tutti, non usasse l'arma della bugia o della reticenza, ma è proprio l'enorme estensione della sua rete epistolare che ci permette di controllare la veridicità delle sue parole e dei pensieri che le sottendono. Inoltre le sue lettere rappresentano spesso, anche quando vorrebbero essere formali, autentiche confessioni dei suoi umori e delle esigenze del suo animo che a volte appaiono persino inconsce. Una di queste missive datata da Roma 7 febbraio 1742 e indirizzata al fidato Filippo Maria Mazzi, a leggerla con attenzione, è molto illuminante. Essa cade proprio nel momento in cui il nuovo arredo di Castello stava prendendo forma.
Scrive Papa Lambertini: "Accusiamo la sua del 31 del passato, dalla quale intendiamo il suo ritorno da Cento, e positivamente l'invidiamo, perché in dieci anni d'Arcivescovado non abbiamo avuto altro gusto che d'esser stati qualche volta in quella Terra, siccome nel Papato non abbiamo altra soddisfazione che d'andar quando possiamo a Castel Gandolfo colla nostra sola Famiglia, banditi i Cardinali, e gli Ambasciatori, che se ci vogliono parlare non lo fanno in Casa, ma per la strada, o in una Villa". Questo suo atteggiamento era ufficialmente rispettato dalla corte, se il cardinale camerlengo Annibale Albani (con cui Papa Lambertini imbastirà un lungo conflitto psicologico) poteva scrivere proprio il 3 giugno 1741 che Sua Santità si era recata a Castel Gandolfo "dove è passata senza comitiva non desiderando vedere nessuno e bramando di godere la sua quiete e la piena sua libertà".
Benedetto XIV considerò sempre il palazzo pontificio di Castel Gandolfo come una residenza privata, la sua casa. Ce lo conferma un episodio assai significativo che si svolse nel giugno del 1743: "Nella passata settimana venne monsignor di Canilliac, per quanto abbiamo inteso, a Castello. Noi secondo il solito fummo alla Messa nella chiesa dei Zoccolanti, passeggiammo dopo i qualche tempo per la villa Barberini col re d'Inghilterra (Giacomo iii Stuart), e secondo il solito alle ore 15 che vuol dire sette ore dopo la nascita del sole (mezzogiorno, ora di pranzo) ritornammo a casa. Dopo il nostro ritorno a casa ci fu riferito che era arrivato monsignore, né Noi lo vedemmo, e molto meno lo sentimmo, non volendo, come ella ben sa, sentir veruno in questo luogo di villeggiatura, ma bensì ognuno o nelle sagrestie delle chiese, o nella Villa Barberini".
Questo principio, che egli difese, soprattutto nei primi anni, a spada tratta lo spingeva a comportamenti estremi, come quello di uscire a piedi sotto la pioggia per recarsi a Villa Barberini a dare udienza ai cardinali o ad altri non graditi, riservando le udienze a palazzo solo per gli intimi, come il cardinale Valenti Gonzaga, l'uditore monsignor Giacomo Millo, il pro-datario cardinale Pompeo Aldrovandi, il segretario della Cifra monsignor Antonio Rota, il governatore di Roma, monsignor Ricci.
Mantenere il sistema era tuttavia difficile soprattutto in ottobre quando le piogge erano continue e faceva freddo. Il primo a cogliere il destro del tempo cattivo e farsi ammettere all'udienza in palazzo fu uno dei personaggi più antipatici al Pontefice, il cardinale Domenico Passionei, già nell'ottobre del 1742. Benedetto da allora rinunciò per sempre alla villeggiatura d'ottobre e si limitò a fare "vacanza" in Roma, chiudendo l'anticamera e non ricevendo estranei. L'inviolabilità di Castel Gandolfo cadde definitivamente soltanto nel 1754, quando ricevette nella Sala del Concistoro (e non vi è da dubitare che il percorso fu quello ufficiale) il padre generale dei cappuccini appena eletto, un frate boemo che non riscosse affatto le sue simpatie.
Il suo epistolario muta spesso stile quando scrive da Castello, e i racconti di vita vissuta vi si insinuano più frequentemente del solito allentando la tensione per le gravi questioni politiche internazionali che sempre permea le sue lettere. Esse sono piene di notizie sul clima, sulle villeggiature dei cardinali, i temporali violenti sul lago, i propri tentativi di "salvare" dalla vita malsana di città conoscenti e amici portandoli alle delizie della vita all'aria aperta.
Se grazie al volume di Bonomelli è nota a tutti la vicenda del priore e cappellano segreto Jean Bouget, portato diverse stagioni a Castel Gandolfo per curarsi dagli acciacchi della salute e che invece non dava impressione di trarre profitto dalla vacanza, vale la pena di ricordare un brano della seconda lettera a de Tencin che ci è rimasta, scritta da Castel Gandolfo il 16 ottobre 1741, e che è un tipico esempio del carattere spavaldo di Papa Lambertini. "Abbiamo avuto questa mattina un fulmine in questo palazzo apostolico che l'ha girato tutto e sbucato in cento parti (...). Molti hanno avuto paura, ma Noi per misericordia di Dio, non siamo stati fra quelli. Eravamo al tavolino, avevamo il testo canonico nelle mani, abbiamo dato al fulmine, sentito e veduto da Noi, il buon viaggio, e finita la lettura di quanto avevamo bisogno, ci siamo inginocchiati a rendere grazie a Dio". La "saetta" in questo caso non fece danni, diversamente da quella che era caduta sul palazzo nel novembre del 1738 e che danneggiò il tetto.
Benedetto tornò a Castel Gandolfo tutti gli anni tranne nel 1744, a causa delle pericolose operazioni militari nella zona dei Castelli Romani di Austriaci e Spagnoli in guerra, e mai più dal 1757 anche se ai primi di marzo di quell'anno sperava ancora di andarvi. Ormai era troppo malato per muoversi da Roma o addirittura dalle proprie stanze.
Nell'inverno tra il 1756-1757, prima una forte influenza con catarro e tosse tale da lasciargli "il petto molto dolente" e procurargli un'ernia, poi una gravissima forma di ritenzione urinaria peggiorata da infezioni continue lo avevano debilitato; nella primavera del 1757 le gambe indebolite avevano perso il tono muscolare ed egli non poteva più reggersi in piedi neppure con il bastone. Iniziò così l'ultimo periodo di un calvario durato un altro anno e che Benedetto accettò a volte con strazio e spavento (come confessò egli stesso), ma più spesso con la consapevolezza concreta che sempre lo aveva guidato, lavorando meglio che poteva e cercando tenacemente di non perdere i contatti con il mondo.
Continuò a scrivere lettere, a dare udienza, a seguire le vicende della sua famiglia, soprattutto quelle dei tre pronipoti Giovanni, Cesare, e Lucrezia, che assorbivano molta parte delle sue forze e dei suoi affetti. Seguitò a perseguire le sue imprese culturali come il Museo Sacro Vaticano, che non vide mai, ma del quale era informato da Girolamo Colonna e per il quale non mancava di dare i sui suggerimenti.
La computisteria dei palazzi apostolici conserva una fattura del 20 aprile 1757 di Lucia Corsini Barbarossa (vedova del fedele intagliatore di palazzo Giuseppe Corsini) per lavori a una sedia per poter trasportare il Pontefice da una stanza all'altra "quando stava ammalato" e per una croce d'altare per quando celebrava Messa stando seduto. Questo conto fu pagato da Clemente xiii nel dicembre del 1758.

(©L'Osservatore Romano - 9 luglio 2008)

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