15 ottobre 2008

"Papa Giovanni XXIII: uomo e pastore di pace" (Osservatore Romano)


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Costante ricerca della pace e dell'unità dei cristiani nel ministero di Giovanni XXIII

La Chiesa misericordiosa di Papa Roncalli

Pubblichiamo stralci della relazione su "Papa Giovanni XXIII: uomo e pastore di pace" tenuta sabato scorso in Campidoglio dal vescovo di Bergamo in occasione della cerimonia per il cinquantesimo anniversario dell'elezione al pontificato di Angelo Giuseppe Roncalli.

di Roberto Amadei

Nel marzo 1963 veniva assegnato a Giovanni XXIII il premio Balzan per la pace, "per la sua attività in favore della fraternità tra tutti i popoli e [...] i suoi recenti interventi sul piano diplomatico". Il prestigioso riconoscimento interpretava il vasto e caloroso consenso che, anche in ambienti lontani ed estranei alla Chiesa, si era formato attorno alla sua persona, sia per il suo insegnamento che per la continua azione a favore della pace universale. Il periodo del suo pontificato (1958-1963) è stato turbato da pericolose tensioni tra i popoli che avevano accentuato la corsa agli armamenti e provocato la ripresa degli esperimenti nucleari. Nell'ottobre del 1962, per la crisi cubana, Stati Uniti e Unione Sovietica rischiavano lo scontro armato con imprevedibili, drammatiche conseguenze per l'intera umanità.
Altri segnali però indicavano l'intensificarsi ovunque del desiderio di superare la cosiddetta "guerra fredda" per iniziare a costruire una pace vera, fondata non sulla paura ma sulla sincera collaborazione tra tutti i popoli, ponendo fine al dominio che poche nazioni esercitavano sul resto dell'umanità. Giovanni XXIII ha affrontato questa situazione, caratterizzata da speranza e terrore, con lo stile maturato durante le precedenti esperienze. Lui stesso lo affermava parlando della Pacem in terris: "Di mio in questa enciclica c'è anzitutto l'esempio che volli dare, nel corso della mia vita, di ininterrotta conformità col capitolo terzo, libro secondo dell'Imitazione di Cristo. L'uomo pacifico fa più bene che il molto istruito. L'uomo pieno di passioni trasforma in male anche il bene ed è sempre incline a pensare male di tutti. Invece l'uomo buono e pacifico riduce tutto in bene".
Nel 1925, nominato visitatore apostolico in Bulgaria, iniziava a vivere il suo ministero nell'incontro con culture ed esperienze religiose diverse: in Bulgaria era la Chiesa ortodossa, in Turchia le piccole comunità ortodosse, i musulmani, gli ebrei e lo stato laico, in Francia il pluralismo religioso, la laicità tradizionale, l'inizio della secolarizzazione, il fermento della teologia e della pastorale. È stato un succedersi di esperienze difficili, cariche di secolari incomprensioni e di ostilità che non hanno indurito il suo cuore o scoraggiato la sua attività, anzi gli hanno permesso di conoscere e apprezzare la ricchezza della fede cristiana e di elaborare un nuovo modo di vivere il proprio ministero. Il filo conduttore della sua esistenza fu l'assimilazione sempre più profonda di Gesù Cristo dal quale si sentiva continuamente avvolto d'amore misericordioso. La misericordia divina divenne il tema centrale delle sue riflessioni e della sua esperienza di fede. "Non debbo essere maestro di politica, di strategia, di scienza umana; ce n'è davanzo di maestri di queste cose. Sono maestro di misericordia e di verità": così annotava nel Giornale dell'anima nel novembre del 1940.
Un amore misericordioso offerto con sincera cordialità a tutti perché si sentiva a servizio di tutti, non solo dei cattolici. Per esempio, soffriva nel considerare i pochi e trascurati segni del cristianesimo primitivo presente in Turchia e perché ai turchi non era stata data ancora la possibilità di comprendere il cristianesimo come buona novella anche per loro, però non può non confessare il suo amore per questo popolo: "Senso di mestizia per le rovine trovate a Scutari, e per l'atmosfera di questo mondo turco ancora così lontano dalle sorgenti della civilizzazione quantunque esse siano a due passi, anzi sotto i suoi piedi. Eppure li amo in Gesù Crocifisso questi cari Turchi, e non so soffrire che i Cristiani ne dicano così male, dando prova di pochissima penetrazione del Vangelo nelle loro anime. Li amo, ciò rientra nel mio ministero di padre, di pastore, di delegato apostolico: li amo perché li credo chiamati alla redenzione. So che lo spirito di parecchi fra i miei figli cattolici "levantini" è contro di me, ma ciò non mi turba né mi scoraggia" (Agenda, 26 luglio 1936).
Guidato da questo amore ha avvicinato ogni persona con stima, fiducia e speranza. Ogni esperienza umana veniva avvicinata con rispetto e studiata con attenzione per capirla in profondità individuandone prima gli aspetti positivi e poi quelli negativi. Da qui il costante impegno per conoscere la storia delle realtà religiose, culturali, sociali e politiche incontrate nel suo ministero; la sottolineatura gioiosa della spiritualità orientale, la stima dell'impegno del popolo turco per divenire uno stato moderno anche se la legislazione non sempre rispettava l'esperienza religiosa, in particolare quella cattolica. Conoscere il diverso per comprendere gli interlocutori, dialogare sinceramente con loro, individuare ciò che li univa per poter vivere la storia comune sostenendosi e arricchendosi reciprocamente nel creare unità non solo tra i credenti ma con tutti gli uomini di buona volontà.
Era convinto che il cammino verso l'unità dei cristiani e la pace tra i popoli fossero determinati innanzitutto dalla comunione dei cuori, dal rapporto di stima e solidarietà nella vita quotidiana. Ed era pure convinto che questo era l'unico modo di mostrare il volto autenticamente evangelico della Chiesa ai fratelli separati, e di manifestare ai non cristiani che la Chiesa è universale, perché il Cristo, salvatore di tutti, è capace di parlare in modo significativo a ogni esperienza umana arricchendola, purificandola e aiutandola a sentirsi espressione della comune umanità, ed è chiamata a edificare un'unità sempre più profonda tra tutti gli uomini.
Così si esprimeva nell'omelia di Pentecoste del 1944 a Istanbul: "Noi amiamo distinguerci da chi non professa la nostra fede: fratelli ortodossi, protestanti, israeliti, musulmani, credenti o non credenti di altre religioni; Chiese nostre, forme di culto tradizionali e liturgiche nostre. Comprendo bene che diversità di razza, di lingua, di educazione, contrasti dolorosi di un passato cosparso di tristezze, ci trattengono ancora in una distanza che è scambievole, non è simpatica, spesso è sconcertante. Pare logico che ciascuno si occupi di sé, della sua tradizione familiare o nazionale [...] io debbo dirvi che nella luce del Vangelo e del principio cattolico, questa è una logica falsa. Gesù è venuto per abbattere queste barriere; egli è morto per proclamare la fraternità universale; il punto centrale del suo insegnamento è la carità, cioè l'amore che lega tutti gli uomini a lui come primo dei fratelli, e che lega lui con noi al Padre".
La scelta di lasciarsi sempre guidare dalla carità misericordiosa non era dovuta principalmente al suo temperamento, ma alla convinzione profonda che senza di essa il messaggio evangelico viene svuotato, la Chiesa non è credibile nel suo annuncio ed è incapace di offrire il suo determinante contributo per realizzare la fraternità inscritta nella natura umana. Aveva la possibilità di verificare la validità del suo metodo, oltre che nei rapporti con le singole persone e con le diverse istituzioni, nelle relazioni con i popoli, in particolare con gli Stati che da tempo avevano costruito muri di ostilità o di indifferenza nei confronti della Chiesa. Sono note le coraggiose, discusse e contrastate aperture verso i Paesi dell'Est europeo gravitanti attorno all'Unione Sovietica. Non era ingenuo, perciò avvertiva il rischio di essere strumentalizzato. Però non poteva spezzare quei fili che la Provvidenza gli affidava per riaprire il dialogo con questa numerosa porzione della sua famiglia.
La sua scelta, nell'insegnamento e nel comportamento concreto, è stata per la neutralità sopranazionale della Chiesa, "una neutralità - spiegò Giovanni XXIII in occasione del premio Balzan per la pace - che mantiene tutto il suo vigore di testimonianza. Premurosa di diffondere i principi della vera pace, la Chiesa non cessa dall'incoraggiare l'adozione di un linguaggio e l'introduzione di abitudini e di istituzioni che ne garantiscono la stabilità". Uno "stile" praticato anche nelle relazioni con le altre Chiese cristiane, proponendo, sostenendo e realizzando passi decisivi sulla strada del dialogo ecumenico. La fecondità di questa scelta è stata dimostrata anche dall'attenzione e dall'accoglienza prestata all'enciclica Pacem in terris, determinata soprattutto dal fatto che tutti vedevano in Giovanni XXIII l'espressione vivente di quanto diceva: l'uomo di pace capace di unire in solidarietà operante tutti gli uomini, un servitore sincero e disinteressato dell'intera famiglia umana.

(©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2008)

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