22 febbraio 2007

Rassegna stampa del 22 febbraio 2007, festa della Cattedra di San Pietro

Da “Il Foglio”

Il 12 febbraio scorso il presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini, annunciò “una parola meditata, una parola ufficiale” in merito al progetto di legge governativo sulle unioni di fatto, una nota dell’episcopato italiano “che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della chiesa e che potra essere chiarificatrice per tutti”. Il testo di quella nota non è ancora pronto, ma esiste una bozza che fa da base autorevole per la discussione fra i vescovi. Il Foglio ne è venuto in possesso. Eccola.

Il progetto di legge intende regolare alcuni diritti, doveri e facoltà di persone, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale (cfr. art. 1, n. 1). La convivenza deve essere provata dalle risultanze anagrafiche (cfr. art. 1, n. 2). La dichiarazione all’ufficio di anagrafe deve essere resa contestualmente da entrambi i conviventi oppure da un solo convivente che ha l’onere di darne comunicazione all’altro (cfr. art. 1, n. 3). Sembra che in tal modo si voglia escludere una “celebrazione pubblica” della convivenza. Tuttavia, con il presente progetto di legge il fatto della convivenza diventa fonte di numerosi diritti specifici. Ciò non è accettabile per i seguenti motivi:

1 - La convivenza (eterosessuale o omosessuale) riceve un riconoscimento legale, anche se non viene equiparata a tutti gli effetti all’istituzione matrimoniale. Infatti, le risultanze anagrafiche di fatto costituiscono un riconoscimento da parte dello stato di diritti e doveri derivanti proprio dalla convivenza di due persone, venendo così a dare riconoscimento giuridico e legale a una realtà o a uno status che si pone in alternativa all’istituzione del matrimonio. In questo modo la registrazione anagrafica costituisce lo strumento giuridico, che non solo accerta una realtà di fatto, ma è fonte di riconoscimento e di attribuzione di un nuovo o diverso status giuridicamente tutelato. Ugualmente, tutto ciò che attiene ai diritti acquisiti in materia di successione, assistenza, obbligo di prestazione di alimenti, assegnazione di alloggi eccetera costituisce una realtà giuridica che la Costituzione italiana riconosce in modo esclusivo all’istituto del matrimonio e al suo valore di assoluta preminenza rispetto a altre forme di legami parentali o altro, mentre in questo caso tali diritti vengono a essere riconosciuti per uno status nuovo, di fatto e di diritto riconosciuto legalmente. In questo caso viene sconvolto il favore che la Costituzione riconosce in modo esclusivo alla famiglia. Si crea così un nuovo modello di vita, che oscura la percezione di alcuni valori fondamentali, svaluta l’istituzione matrimoniale e ha un influsso negativo sulla mentalità, soprattutto per le giovani generazioni.

Al riguardo occorre ricordare un brano del discorso di Papa Benedetto XVI alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi (22/12/2006): “A questo punto non posso tacere la mia preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto. Molte di queste coppie hanno scelto questa via perché – almeno per il momento – non si sentono in grado di accettare la convivenza giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio. Così preferiscono rimanere nel semplice stato di fatto. Quando vengono create nuove forme giuridiche che relativizzano il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico. In tal caso il decidersi per chi già fa fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi, per l’altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa sia o non sia. C’è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla ‘sfera biologica’ – finisce per distruggere se stesso. Se ci si dice che la chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere. Forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo ed anima, è immagine di Dio?”.

2 - Molti dei diritti di cui parla il presente progetto di legge potrebbero essere garantiti per altre vie non nocive per il corpo sociale, ad esempio attraverso un contratto delle persone interessate a partire dalla loro autonomia di cittadini. In tal caso si tratterebbe di diritti che hanno la loro base nella scelta individuale di due persone e non nel fatto, legalmente riconosciuto, della loro convivenza. In questa linea si è anche espressa la Congregazione per la Dottrina della Fede nelle “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” del 3 giugno 2003: “Non è vera l’argomentazione secondo la quale il riconoscimento legale delle unioni omosessuali sarebbe necessario per evitare che i conviventi omosessuali perdano, per il semplice fatto della loro convivenza, l’effettivo riconoscimento dei diritti comuni che essi hanno in quanto persone e in quanto cittadini. In realtà, essi possono sempre ricorrere – come tutti i cittadini e a partire dalla loro autonomia privata – al diritto comune per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse. Costituisce invece una grave ingiustizia sacrificare il bene comune e il retto diritto di famiglia allo scopo di ottenere dei beni che possono e debbono essere garantiti per vie non nocive per la generalità del corpo sociale” (n. 9).

3 - Per quanto riguarda, quindi, il comportamento dovuto ai politici cattolici, valgono le disposizioni ribadite da due documenti recenti della Congregazione per la Dottrina della fede, e cioè: a) “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” del 24 novembre 2002: “La coscienza cristiana ben formata non permette a nessuno di favorire con il proprio voto l’attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti… Devono essere salvaguardate la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso… ; ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale” (n. 4). b) “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle persone omosessuali” del 3 giugno 2003: “Se tutti i fedeli sono tenuti a opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti le seguenti indicazioni etiche. Nel caso in cui si proponga per la prima volta all’Assemblea legislativa un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge. Concedere il suffragio del proprio voto a un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente immorale” (n. 10).



Perché la Chiesa deve tacere?
di Giuliano Ferrara

I laici che si scandalizzano per l'intervento sulla legge Bindi dovrebbero guardare agli Usa

Per molto tempo noi laici papisti, noi apprendisti della bottega filosofica e teologica di Joseph Ratzinger, siamo stati accusati di far strame profano del sacro, di strumentalizzare la religione a scopi politici, di voler clericalizzare la politica, ed è vero esattamente l'opposto. Lo dimostra l'ultima battaglia laicista intorno alla legislazione matrimoniale di Rosy Bindi.In forme diverse, con maggiore o minore deferenza verso i vescovi italiani, uno Stefano Rodotà o un Leopoldo Elia, giuristi, gridano allo scandalo, assalgono Camillo Ruini per lesa maestà del governo e del suo progetto di legge, arrivano a imputare alla Chiesa italiana una posizione addirittura sediziosa, sovversiva del buon ordine concordatario fondato a loro parere sulla divisione del lavoro: ai parroci le anime dei fedeli sotto la tutela dei sacramenti, ai politici l'organizzazione della vita sociale sotto l'imperio della legge.Che cosa c'è di più clericale di un pensiero che si mette all'ombra del concordato, e per di più del vecchio concordato pattizio, quello scambio a suo modo grandioso, ma non certo liberale, di poteri e privilegi firmato da Benito Mussolini e dal cardinale Pietro Gasparri nel 1929?Dunque ai vescovi è proibito, secondo il tribunale della libera coscienza laica, battersi per o contro una legge che ridefinisce i confini della famiglia e del matrimonio. Lasciamo stare il giudizio di merito: le norme della legge Bindi sono blande e riguardano per l'essenziale diritti individuali, e forse i vescovi esagerano e fanno casino, forse invece hanno ragione a intuire in quello spiraglio un puntiglio ideologico pericoloso, chissà.Il problema va al di là del testo che arriva in Parlamento firmato dal governo e sostenuto soprattutto dalla sua componente di cattolicesimo morbido, sociologico, sentimentale e affettivo, contraria a ogni pretesa di verità e di dottrina, a ogni interpretazione culturale e antropologica della fede cristiana, a ogni soglia morale che non nasca (come dicono) dal vissuto delle persone concrete, insomma dalla società così com'è e non come dovrebbe essere.Il problema non è la legge, buona o cattiva che sia, ma la proibizione fatta alla Chiesa di cercare di fermarla o di cambiarla con un'aperta e pubblica testimonianza, «vincolante» per coloro che accettano il suo magistero (come ha detto il presidente della Conferenza episcopale).Fatemi capire. L'America è un paese bigotto? Hanno la più antica costituzione scritta del mondo. La loro origine è nella vocazione dei protestanti inglesi del Mayflower a praticare ciascuno la religione che preferisce, sottraendosi alle guerre dottrinali del Vecchio continente. A partire da una frase di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori, in America vige l'idea che religione e stato debbano essere separati da un «muro».Non c'è né un concordato né l'idea stessa di un concordato. Niente patti, niente trattati, niente scambio. Le chiese sono libere, lo stato è libero. Non sembrerebbe il ritratto di una repubblica con tendenze teocratiche. Anzi, è il modello che gli estremisti del laicismo italiano vorrebbero importare.Bene. Ma c'è un particolare. In America le denominazioni religiose più diverse, le congregazioni e i diversi popoli di Dio fanno tutto quel che credono opportuno per dare alla religione un ruolo esplicitamente pubblico. Fanno pressione sui giudici per ottenere sulle questioni etiche una sentenza invece che un'altra. Si organizzano elettoralmente per premiare i candidati che promettono di eleggere giudici i quali condividano una certa visione della società e della morale.Hanno i loro senatori e deputati, altro che i teodem, impegnati pubblicamente a testimoniare, in aperta sintonia con i leader religiosi e con i predicatori delle diverse specie confessionali, in favore di una idea della vita piuttosto che di un'altra.Tutti i presidenti, da Bill Clinton a George W. Bush, hanno Dio sulla bocca, e l'astro nascente Barak Obama, liberal, più di ogni altro sostiene che la religione un politico serio, se ce l'abbia, se ci creda, non può lasciarla fuori della porta della sua attività pubblica.Con tutto questo, in America non c'è contaminazione clericale nel senso temuto da laici ottocenteschi europei e italiani, e a nessuno verrebbe mai in mente di accusare di sovversione un leader religioso che fa lobbying contro il matrimonio gay, contro l'aborto o su qualunque altra questione.Anzi, sono sempre di più coloro che, nella comunità intellettuale degli storici, dunque anche nel mondo progressista, riconoscono lo strettissimo legame tra la libertà religiosa e le grandi battaglie di emancipazione umana come la lotta per l'abolizione della schiavitù e poi della segregazione razziale, sempre condotte in nome di un'idea di natura e di divino tradotta in diritti, e spesso guidata dai Martin Luther King, cioè da uomini di Dio, da reverendi divenuti oratori popolari e combattenti civili.Il concordato riformato da Bettino Craxi e Agostino Casaroli a metà degli anni 80 ha tolto alla Chiesa il fondamentale privilegio ideologico di essere l'espressione della religione di stato degli italiani e così ci ha reso tutti più liberi, dando alla società la forza plurale e la libertà di esprimersi anche attraverso il ruolo pubblico della religione. Che i laici ottocenteschi si appellino al concordato del 1929 per argomentare le loro idee laiche e libertarie mi sembra una contraddizione in termini molto sulfurea.
Panorama


Caro Ruini, le spiego perché sta sbagliando
di Ignazio Ingrao

I Dico sono l'ultima frontiera.
La sfida all'Ok Corral del cardinale Camillo Ruini, giunto alla fine della sua ventennale parabola ai vertici della Chiesa italiana. Un epilogo travagliato, segnato prima dallo scontro con il segretario di Stato, Angelo Sodano, poi dalle incomprensioni con il successore, Tarcisio Bertone.
L'ultimo tradimento arriva dall'amico di un tempo, Romano Prodi, aiutato dagli ex di Azione cattolica e della Fuci (Rosy Bindi, Stefano Ceccanti e altri ancora), due organismi che proprio Ruini ha voluto rivitalizzare. Ecco come si spiega la veemenza nello scontro tra il governo e la presidenza della Cei sulle unioni di fatto, che non ha precedenti nemmeno nella battaglia contro il divorzio. Questa la tesi di Alberto Melloni, ordinario di storia contemporanea all'Università di Modena-Reggio Emilia e membro di quella «officina bolognese» fondata da Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo, che ha fatto del rinnovamento impresso alla Chiesa dal Concilio Vaticano II una ragione di studio e di vita.

Il cardinale Ruini ha annunciato una nota «ufficiale, impegnativa e chiarificatrice» sulle unioni civili. Non c'è più spazio per la mediazione?
Rullano i tamburi di guerra ma gli eserciti devono ancora scendere in campo. Aspettiamo di vedere il testo della nota e attendiamo gli sviluppi del dibattito parlamentare. Certo siamo di fronte a uno scontro senza precedenti nella storia dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano.
Anche contro aborto e divorzio la Chiesa schierò tutte le sue forze.
È vero. Ma in quei casi si trattava di battaglie «contro», per cancellare leggi che i cattolici non accettavano. Oggi invece assistiamo a una battaglia che tocca l'autonomia del potere legislativo, perché punta a impedire che una norma venga promulgata. È una questione delicata non solo rispetto al problema della laicità dello Stato ma anche riguardo al tema centrale del ruolo del laico nella Chiesa. Il cattolico impegnato in politica non è un terminale della gerarchia, mantiene intatta la sfera della sua libertà di coscienza. Perciò temo che in questo scontro vengano sacrificati due principi costituzionali: i parlamentari sono eletti senza vincolo di mandato; lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
In cosa gli interventi della Cei sarebbero lesivi della sovranità dello Stato?
Se allo Stato non compete il giudizio sulle materie che riguardano il diritto naturale, come ho sentito affermare da autorevoli esponenti della gerarchia ecclesiastica, vuol dire che gli si riconosce solo una sovranità limitata. Inoltre, nella posizione dei vertici della Chiesa colgo anche una profonda contraddizione: se davvero le convivenze sono una pericolosa minaccia per la società, allora andrebbero proibite. Se vengono tollerate, perché non legiferare per dare loro un assetto chiaro che definisca diritti e doveri? Mi viene il sospetto che dietro la posizione così rigida del presidente della Cei vi possa essere invece un'altra ragione.
Quale potrebbe essere?
Il cardinale forse ritiene che se il governo Prodi non riesce a superare lo scoglio delle unioni civili rischia seriamente di cadere. Non penso che Ruini abbia intrapreso la battaglia contro i Dico perché vuol far cadere il governo, ma sa bene che questa potrebbe essere una conseguenza non troppo remota.
C'è persino chi ascrive a Ruini il disegno di volersi opporre alla nascita del Partito democratico.
Sarebbe ancora più grave poiché non è compito della Chiesa pronunciarsi su quale partito debba nascere. Certo anche questa potrebbe essere una conseguenza dell'azione della presidenza della Cei. Ma c'è un pericolo, che forse le gerarchie ecclesiastiche non hanno debitamente messo in conto: così facendo si annaffia giorno per giorno la pianta dell'anticlericalismo. È una pianta carnivora, che oggi appare insignificante ma cresce silenziosamente e domani potrebbe divorare tutto, come è accaduto in Spagna.
In realtà non solo il capo dei vescovi italiani, ma anche il Papa e gli episcopati di altri Paesi si sono pronunciati contro le unioni di fatto. Sono tutti contro Prodi?
Certamente no. Ma invito a cogliere importanti sfumature di accenti e di tono. Il Papa parla della funzione pedagogica della legge e del pericolo che questa incoraggi le giovani coppie a non seguire la strada del matrimonio. A differenza di Ruini, Benedetto XVI non si è rivolto ai parlamentari, non ha mai cercato di condizionare l'atto positivo di approvazione di una legge. Anche nel suo recente viaggio in Spagna ha sempre parlato a favore della famiglia mai contro il governo Zapatero. Così gli episcopati di altri paesi del mondo, Canada, Francia, Germania, hanno criticato il riconoscimento delle unioni civili ma si sono anzitutto concentrati sulla richiesta di azioni concrete a tutela della famiglia tradizionale. Mi sembra che questo sia anche l'atteggiamento di una fetta consistente dell'episcopato italiano, che non condivide i toni da battaglia finale della presidenza della Cei, ma per ora è ridotto al silenzio.
Lo scontro è condizionato anche dalla fine del mandato del presidente della Cei?
In questi mesi Ruini ha cominciato a fare i conti con la prospettiva della fine del suo mandato ai vertici della Chiesa italiana. Sa che, chiunque sarà il suo successore, non avrà mai il suo stesso carisma, la sua stessa lucidità, la sua stessa passione nel misurarsi con la politica italiana. Perciò è possibile che viva la battaglia sulle unioni di fatto come l'ultima spiaggia, l'eredità spirituale che lascia al Cattolicesimo italiano.
Qual è invece il progetto del cardinale Tarcisio Bertone sulla Cei?
Negli ultimi vent'anni con Ruini i vertici della Chiesa italiana sono stati interlocutori dei partiti prima che della società. Probabilmente il cardinale Bertone, fedele alla visione di Benedetto XVI, per il futuro pensa a una Chiesa italiana capace di farsi interlocutrice della società prima che della politica.
Questo potrebbe significare che la Segreteria di Stato riprenderà in mano a poco a poco i rapporti con la politica italiana, che Wojtyla aveva delegato a Ruini, lasciando alla Cei più libertà ed energie per la missione pastorale, cioè annunciare il Vangelo.
Panorama



Ratzinger scrive a Wielgus: «Le sono vicino»
All’arcivescovo dimessosi a Varsavia:«Possa presto tornare a servire la Chiesa»
Salvatore Mazza

Roma Lo «abbraccia» e lo «benedice». Ricordando che «l'esperienza della croce» fa parte della vita del cristiano. E augurandosi che, pur «nel modo» che sarà «possibile», possa riprendere la sua attività. Lo scrive Papa Benedetto XVI nella lettera indirizzata a monsignor Stanislaw Wielgus, arcivescovo emerito di Varsavia, dimissionario nel giorno stesso in cui avrebbe dovuto prendere possesso della diocesi, lo scorso 7 gennaio, in seguito all'accusa di aver collaborato per oltre vent'anni con i servizi segreti comunisti di Varsavia. «Dal cuore - scrive il Papa nella lettera pubblicata ieri pomeriggio dall'agenzia polacca cattolica Kai - le voglio assicurare la mia vicinanza spirituale e la mia comprensione fraterna per le sofferenze che ha dovuto patire nel corso della sua vita da cappellano e da arcivescovo, fino alla recente rinuncia all'Arcivescovado di Varsavia. Le mando una particolare benedizione, auspicando che possa presto tornare a servire la Chiesa nel modo possibile». La lettera è stata resa nota alla vigilia della speciale giornata di preghiera e di penitenza indetta per oggi dalla Chiesa polacca in seguito alle polemiche sugli anni del regime comunista. Wielgus, pur avendo ammesso di aver avuto contatti con i servizi segreti - firmò una carta in cui si impegnava, in cambio del visto per uscire dal Paese, a riferire sull'attività dei suoi connazionali all'estero - ha sempre negato di essere stato un "agente segreto" dei SB, e di aver mai fatto "rapporti" ai servizi; cosa, del resto, comprovata dalle stesse carte che lo accusano, dalle quali non risulta che egli abbia mai nuociuto effettivamente ad alcuno. «Sono conscio delle particolari condizioni nelle quali sua eccellenza ha dovuto operare - scrive a questo riguardo il Papa nella lettera - quando il regime marxista in Polonia utilizzava tutti i mezzi per soffocare la libertà dei cittadini e in particolar modo degli uomini di Chiesa... Ho apprezzato la sensibilità e il senso di responsabilità nei confronti della Chiesa polacca, quando il mese scorso ha deciso di rinunciare al suo incarico dato che la situazione creatasi avrebbe messo in discussione l'azione e l'autorità dell'Arcivescovado». Il giorno dopo il mancato insediamento Wielgus aveva scritto al Papa una lettera in cui chiedeva perdono per le colpe commesse.
Avvenire, 21 febbraio 2007


RELIGIONI E DIALOGO
Annunciata ieri dalla Sala stampa vaticana una nuova importante iniziativa nel cammino dei rapporti tra la Chiesa cattolica e il mondo musulmano

Il Papa invita a Roma l’imam di Al-Azhar
Atteso in Vaticano lo sceicco Tantawi del grande ateneo sunnita del Cairo È stato il cardinale Paul Poupard a consegnare il messaggio al leader islamico che lo ha accettato con soddisfazione

Da Roma Salvatore Mazza

Benedetto XVI incontrerà a Roma lo sceicco Mohamed Sayyed Tantawi, Grande imam di Al-Azhar al-Sharif. Non è ancora fissata la data, ma l'invito, consegnato personalmente a Tantawi dal cardinale Paul Poupard, «è stato accettato con soddisfazione» dal rettore della principale Università islamica del mondo.
«Sua eminenza il cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, presidente della Commissione per i rapporti religiosi con i musulmani e presidente del Pontificio Consiglio della cultura - recita il comunicato diffuso ieri dalla Sala stampa della Santa Sede - è stato ricevuto oggi, 20 febbraio 2007, dallo sceicco Mohamed Sayyed Tantawi, Grande imam di Al-Azhar al-Sharif. Accolto in un clima di grande cordialità, sua eminenza il cardinale Paul Poupard ha trasmesso allo sceicco Tantawi gli auguri di Sua Santità Benedetto XVI e l'invito del Papa ad incontrarlo a Roma, invito che è stato accettato con soddisfazione».
«L'incontro tra le due personalità - prosegue la nota - ha permesso di valutare il lavoro del "Comitato misto per il dialogo" stabilito tra il Comitato permanente di Al-Azhar per il dialogo con le religioni monoteiste e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, che tiene una riunione annuale, alternativamente al Cairo e a Roma, il 24 febbraio, in ricordo della visita di Papa Giovanni Paolo II ad Al-Azhar, il 24 febbraio 2000, così come i diversi aspetti dei rapporti tra cristiani e musulmani. Il cardinale Poupard - conclude il testo - incontrerà anche il ministro della Religione, dottor Hamdi Zaqzuq».
L'incontro tra il Papa e Tantawi segnerà un momento particolarmente importante nel dialogo islamo-cristiano, dopo le polemiche suscitate in tutto il mondo musulmano dall'errata valutazione della lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI all'Università di Ratisbona nel corso della sua visita in Baviera. Quando, come si ricorderà, un passaggio del suo discorso venne giudicato offensivo verso la religione islamica, provocando una reazione a catena di polemiche anche violente; alle quali il Pontefice reagì prima dichiarando il proprio «rincrescimento» per l'equivoco, e poi convocando in Vaticano gli ambasciatori di tutti i Paesi islamici. La successiva visita in Turchia, dal 28 novembre al primo dicembre, con i diversi incontri di Benedetto XVI e, soprattutto, con la visita alla Moschea Blu, smorzò poi i residui focolai della polemica.
Nel progredire di tutti questi eventi, anche Tantawi - che era stato tra i primi a chiedere "pubbliche scuse" - aveva ricevuto all'inizio di dicembre, attraverso il nunzio al Cairo, monsignor Michael Fitzgerald, il testo integrale del discorso di Ratisbona, formulando nella stessa occasione anche l'invito per l'incontro interreligioso in Vaticano previsto per il prossimo 24 febbraio. E nella seconda metà di gennaio il Consiglio delle ricerche islamiche dell'Università di Al-Azhar, presieduto dallo stesso sceicco, ha approvato la ripresa del dialogo con il Vaticano.
Avvenire, 21 febbraio 2007