31 marzo 2007

Il gioco e' finito...


Le parole del Presidente della CEI sono state gravemente e dolosamente travisate al solo scopo di mettere in cattiva luce la Chiesa, alla vigilia della domenica delle Palme.
IL GIOCO E' FINITO!
Finalmente la gerarchia ecclesiastica reagisce alle continue pressioni mediatiche ed ai costanti insulti da parte di esponenti politici, diffondendo note in polemica con i titoli ed i contenuti di articoli di carta stampata e dei telegiornali.
Dopo le vane parole dei siti internet e dei politici, dobbiamo (felicemente) registrare la dura presa di posizione dell'arcidiocesi di Genova, che denuncia il circo mediatico in rotazione.
Sono convinta che nulla cambiera' nei titoli di domani, ma almeno, ora, ho la speranza che i Vescovi non si lasceranno annientare dai media senza reagire.
Ho sentito al TG5 che il cardinale Bertone ha rilasciato un'intervista ad un settimanale francese, in cui accusa i media di scarsa obiettivita' verso la Chiesa.
Da registrare anche la nota di Mons. Mario Ceccobelli che denuncia un uso distorto delle sue parole sulla libertà di coscienza in un’intervista pubblicata sul quotidiano torinese La Stampa, dal titolo: “Anche i politici hanno libertà di coscienza” (vedi articolo in "Rassegna stampa del 30 marzo 2007").
Coraggio, cari media! Stupiteci domani sulle prime pagine...provate a riportare le esatte parole di Mons. Bagnasco!
Anche un bambino capirebbe che e' in atto un'offensiva tesa a mettere in cattiva luce la Chiesa e il Papa...scomodo!
Mi sento di pretendere, come cattolica, le scuse del quotidiano da cui e' partita la polemica, dei siti internet dei giornali e dei telegiornali di prima serata. Doverose le scuse da parte di quei politici che hanno offeso Bagnasco sulla base del "sentito dire".

Raffaella


Mons. Bagnasco: precisazione in merito ad articolo odierno de Il Secolo XIX

Si rende noto che l'intervento di S.E. Mons. Angelo Bagnasco ieri a Genova, all'incontro degli operatori della Comunicazione Sociale della Diocesi, è stato male riportato con titolazioni e sintesi sommarie che risultano parziali e fuorvianti.

Non così nell'articolo odierno di Avvenire a pagina 11 che è fedele alla lettera e allo spirito dell'intervento.



Bagnasco: «Parliamo all'intelligenza»

Da Genova Adriano Torti


«La Nota che il consiglio permanente della Cei ha presentato a proposito della famiglia fondata sul matrimonio, è una nota che cerca di parlare all'intelligenza dei credenti attraverso alcuni accenni alla fede ma, soprattutto, all'intelligenza comune, al buon senso, alla ragione attraverso delle motivazioni delle ragioni di tipo antropologico». Lo ha affermato l'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco intervenendo ad un incontro con gli animatori diocesani della cultura e della comunicazione. «La nota è un esempio impegnativo - ha spiegato il presidente della Cei - con il quale ci siamo cimentati con molta coralità, con molto impegno e, mi pare, con un buon risultato. È un esempio di come oggi la comunicazione debba tenere conto delle ragioni antropologiche, non solo delle ragioni che derivano dalla fede, ma delle ragioni che derivano dal retto uso della ragione». Questo, ha affermato l'arcivescovo Bagnasco «per non cadere nella facilissima accusa che i cattolici vogliano imporre la propria fede, e le proprie convinzioni al popolo in un contesto di chiaro pluralismo». «Certamente - ha spiegato ai presenti - se noi come cattolici usassimo solo ed esclusivamente delle ragioni di fede, giustamente saremmo fuori da questo dinamismo democratico che è il confronto delle ragioni. Confronto retto, onesto, il più possibile pacato e rispettoso, cosa che non sempre accade». Proprio per ovviare a tali obiezioni, ha esortato l'arcivescovo, «dobbiamo sempre più abituarci, ancorati alle ragioni della nostra fede, ed imparare ad usare le ragioni della ragione».
In ballo, ha continuato il presule c'è una «corretta antropologia». Il rischio è la mancanza di «un criterio oggettivo per giudicare il bene il male». Se il criterio è quello «dell'opinione pubblica generale», allora, «è difficile dire dei no». Perché, ha detto ancora l'arcivescovo, «dire di no all'incesto o al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano?». Contro queste «aberrazioni già presenti almeno come germogli iniziali», è difficile resistere, «se viene a cadere il criterio antropologico dell'etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura».

Avvenire, 31 marzo 2007


Il vescovo di Gubbio Ceccobelli: distorte le mie parole sulla libertà di coscienza in un’intervista al quotidiano La Stampa

“Profondamente amareggiato”: così si è detto, in una nota, il vescovo di Gubbio, mons. Mario Ceccobelli, denunciando un uso distorto delle sue parole sulla libertà di coscienza in un’intervista pubblicata sul quotidiano torinese La Stampa, dal titolo: “Anche i politici hanno libertà di coscienza”. L’intervista si affiancava a quella dell’arcivescovo dell’Aquila, mons. Giuseppe Molinari, sul tema dei DICO. “Le mie parole – scrive mons. Ceccobelli, citato dal quotidiano Avvenire – sembrano contrapporsi a quelle del confratello Giuseppe Molinari. Lungi da me una tale intenzione. Il mio – precisa – era un ragionamento di carattere generale sul compito della Chiesa, che è quello di insegnare e di formare coscienze rette, secondo il suo autorevole insegnamento, fondato sulla Parola di Dio. E’ chiaro – aggiunge – che anch’io condivido la Nota dei vescovi italiani sulla famiglia e sulle unioni di fatto”. Secondo mons. Ceccobelli, “è la famiglia, fondata sul matrimonio, il luogo dell’educazione e della formazione delle nuove generazioni; se verrà meno anche questa basilare istituzione – avverte il presule – la società andrà incontro a tempi difficilissimi di totale sbandamento”. Il vescovo di Gubbio precisa allora il suo vero pensiero sulla libertà di coscienza dei cattolici in politica. “Il cristiano – afferma – ha il dovere di formarsi una coscienza retta, che abbia come punti di riferimento la Parola di Dio, l’insegnamento della Chiesa e la legge naturale”. “Proprio alla luce di questo principio – sottolinea mons. Ceccobelli – non ci si può appellare alla propria coscienza per agire in modo autonomo e secondo logiche di parte, magari giustificandosi con l’attribuirsi il titolo di ‘cristiano adulto’. Questa mia precisazione – conclude – è volta a chiarire l’effettivo significato delle mie espressioni e ad escludere ogni altra chiave interpretativa”. (A cura di Roberta Moretti)

La Stampa, 31 marzo 2007

I titoli dei giornali di domani...


Non occorre essere un mago per sapere, in anticipo, quali saranno i titoli dei giornali di domani (e dei tg di stasera).
Ora scrivero' un elenco di aperture immaginarie (non tanto) dei quotidiani di domani.
Vediamo come va questo gioco e se "indovino".

Titoli:

Bagnasco: i DICO come la pedofilia e l'incesto.

Bagnasco all'attacco: i DICO come i pedofili e gli incestuosi.

Bagnasco di nuovo all'attacco: no ai DICO e no alla pedofilia e all'incesto.

Bagnasco scomunica i DICO: uguali alla pedofilia e all'incesto.

Bagnasco: non c'e' differenza fra i DICO e la pedofilia e l'incesto
.

Devo continuare? Sono pronta a scommettere che i titoloni avranno il tono apocalittico descritto. Poi ci saranno le reazioni politiche che tenderanno ad attaccare il Presidente della CEI ed anche, ovviamente, il Papa o, come si usa dire oggi, la Chiesa di Ratzinger.
In fondo agli articoli, magari in piccolo, magari come richiamo, forse, troveranno spazio le AUTENTICHE PAROLE di Mons. Bagnasco.
Eccole qui:


GENOVA - «Quando si perde la concezione corretta autotrascendente della persona umana, non vi è più un criterio per valutare il bene e il male. Quando il criterio dominante è l'opinione pubblica o le maggioranze vestite di democrazia - che possono diventare antidemocratiche o violente - allora è difficile dire dei "no"». Lo ha spiegato mons. Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, venerdì sera in un intervento con gli animatori della comunicazione della diocesi genovese.

INCESTO E PEDOFILIA - «Perché quindi dire no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia?», si domanda il prelato riferendosi ai Dico. «Perché dire di no all'incesto, come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene? (in realtà il caso è avvenuto in Germania, ndr). Perchè dire di no al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? Bisogna avere in mente queste aberrazioni secondo il senso comune e che sono già presenti almeno come germogli iniziali».

IL BENE E IL MALE - «Oggi ci scandalizziamo», ha concluso il presidente della Cei, «ma se viene a cadere il criterio dell'etica che riguarda la natura umana, che è anzitutto un dato di natura e non di cultura, è difficile dire no. Se il criterio sommo del bene e del male è la libertà di ciascuno, come autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più l'uomo nella sua libertà di scelta, ma nel suo dato di natura».


(sito corriere della sera)

A me pare ovvio, lampante, evidente, chiarissimo, che Mons. Bagnasco non ha voluto paragonare i DICO all'incesto ed alla pedofilia (solo uno sciocco puo' ricavare dalle sue parole una simile interpretazione), ma ha inteso lanciare una provocazione su cui tutti siamo chiamati a riflettere.
Se l'etica viene meno, chi decide se un atto e' giusto o sbagliato? Chi impedisce la fondazione di un partito di pedofili? Se tutto diventa lecito (magari perche' va "di moda"), chi puo' dire dove si arrivera'?
Le parole del Presidente della CEI saranno volutamente travisate ed interpretate in senso opposto al loro significato. Il fatto che io possa fare questa previsione con sicurezza mi inquieta non poco.
Spero di sbagliarmi, ma potrei scommettere che domani i titoli ricalcheranno i miei.

Raffaella

Alcune interviste al cardinale Ratzinger

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Il Papa rendera' omaggio al suo "maestro"

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Il Papa confessore...


QUEI GIOVANI IN SAN PIETRO PER CONFESSARSI

Dentro un destino nuovo E potendo ricominciare
Dalle facce, quando se ne vanno, sembrano contenti. Come certi di una speranza ritrovata, più grande di quelle loro oggi promesse

Marina Corradi

Che quindicimila ragazzi si ritrovino in san Pietro in un giorno di Quaresima per confessarsi col Papa e con duecento sacerdoti probabilmente non è una notizia per i giornali che in questi giorni assediano con falangi di cronisti la Procura di Potenza per raccontare sempre nuovi malinconici scandali di gente famosa - e raccontarci, in fondo, con cronache pignole e abbondanti, che l'Italia è solo quella lì. Che, come ha detto il Papa, «la basilica di San Pietro non sia grande abbastanza» per accogliere tutti quelli che sono venuti, è cosa che passerà forse inosservata nelle redazioni. Eppure la scelta di Benedetto XVI di confessare i ragazzi di Roma alla vigilia di Pasqua, e la risposta di migliaia di adolescenti a gremire San Pietro, è un segno forte, una parola controcorrente cui varrebbe la pena di far caso. Perché, da quando "peccato" è diventata parola impronunciabile, ridicolo retaggio di oscurantismo bigotto, anche la confessione è, almeno nel monopensiero culturalmente corretto, una vecchia penosa cosa senza senso. Sono decenni che si lavora a smantellare l'idea di peccato, trasformandolo in un soggettivo "senso di colpa" da cui è imperativo morale liberarsi in fretta. Sono decenni che ci hanno insegnato a imputare gli errori dei singoli alla società - cioè a tutti, o piuttosto a nessuno. Così che davanti ai delitti più intollerabili ci diciamo che l'assassino è certamente un pazzo - giacché ci siamo dimenticati di quanto l'uomo può essere cattivo. E, attorno all'epicentro di violente esplosioni di un male originario ormai ignorato, a Erba o a Cogne, la gente resta attonita: come è stato possibile, fra noi che siamo brava gente, lavoratori, persone a posto? Il peccato del nostro tempo, disse profeticamente Pio XII, è «avere perso il senso del peccato». Rimossa come un'anticaglia la coscienza di un male originario, che ci abbia tutti intaccati, e educati a pensare a un Dio che "se c'è, non c'entra", o che se ne deve stare in alto nelle sue celesti sfere, estr aneo ai giorni degli uomini, il peccato ha perso la sua essenza, cioè la lontananza da Dio: per ridursi al massimo a una inosservanza delle leggi degli uomini, in un culto della "legalità" per cui abortire un figlio, poiché è legalmente permesso, è percepito come cosa meno grave che evadere il fisco. Dentro una collettiva smemoratezza di quel male originario da cui nessuno è salvo, sempre nuovi "onesti" si alzano ad annunciare l'urgenza di ripulire la società dal male. Ma sorprendentemente tanta specchiata onestà, tanto ardore moralizzatore non riesce a contagiare dei suoi "valori" i figli. È una sterile, farisaica onestà quella che lampeggia fra i nostri scandali quotidiani. Perché non siamo capaci di salvarci da soli, e nemmeno, in fondo, di perdonarci da soli del male che facciamo e poi neghiamo, ma che molestamente, chissà perché, continua a tornarci in mente. Poi un giovedì di Quaresima il Papa invita i ragazzi di Roma a confessarsi, e quelli vengono a colmare San Pietro. Dalle facce, quando se ne vanno, sembrano contenti. Come certi di una speranza ritrovata, più grande di tutte quelle che si sentono promettere, e a cui in molti non credono più. Perché la speranza vera che manca a molti, è che si viva non per un caso, ma dentro un destino buono. E che si possa, ogni volta, ricominciare.

Avvenire, 30 marzo 2007


VERSO LA PASQUA
il fatto
Migliaia di giovani in San Pietro e nell’Aula Paolo VI per l’«incontro con la misericordia di Dio» che Benedetto XVI ha voluto come preparazione alla Giornata mondiale che si celebrerà nelle diocesi la Domenica delle Palme

In confessionale il Papa della Gmg

Sette tra ragazzi e ragazze si sono accostati al sacramento direttamente con Ratzinger
Per tutti gli altri duecento i sacerdoti


Da Roma Salvatore Mazza

Entra anche lui, la stola viola sulle spalle, nel confessionale. Per confessare. Per aiutare tutti quei giovani a sperimentare «la misericordia di Dio». A scoprire che, attraverso la riconciliazione, si acquista continuamente la capacità di esprimere quel «vero amore» di cui il mondo ha bisogno, perché «l'orizzonte dell'amore è davvero sconfinato: è il mondo intero!».
Attorno a Benedetto XVI, ieri sera, migliaia di giovani romani hanno riempito la basilica di San Pietro e l'Aula Paolo VI per la lunga, suggestiva liturgia penitenziale in vista della celebrazione, domenica prossima, della XXII Giornata Mondiale della Gioventù, che ha per tema Come io vi ho amato così amatevi anche voi gli uni gli altri. Un appuntamento, ha detto Papa Ratzinger rivolgendosi ai ragazzi e alle ragazze presenti nell'omelia che ha chiuso la liturgia della Parola, che «assume un profondo e alto significato: è infatti un incontro intorno alla croce, una celebrazione della misericordia di Dio» che nella confessione «ognuno di voi potrà sperimentare personalmente».
«Nel cuore di ogni uomo» infatti, ha spiegato il Pontefice, c'è «sete di amore», e «ancor più il cristiano non può vivere senza amore. Anzi - ha osservato - se non incontra l'amore vero non può dirsi nemmeno pienamente cristiano». L'amore di Dio per noi si è fatto «visibile nel mistero della Croce», ha aggiunto; un «amore crocifisso» che «culmina nella gioia della Risurrezione e Ascensione» e «nel dono dello Spirito Santo» per mezzo del quale, «anche questa sera, saranno rimessi i peccati e concessi il perdono e la pace».
Col Battesimo, ha detto ancora Benedetto XVI, «voi siete già nati a vita nuova in virtù della grazia di Dio», ma «poiché questa vita nuova non ha soppresso la debolezza della natura umana» vi è data «l'opportunità di accostarvi al sacramento della Confessione». E «ogni volta che lo fate con fede e devozione, l'amore e la misericordia di Dio muovono il vostro cuore» verso «il ministro di Crist o». A lui infatti «esprimete il dolore per i peccati commessi, con il fermo proposito di non peccare più» e «con la disponibilità ad accogliere con gioia gli atti di penitenza che egli vi indica per riparare il danno causato dal peccato. Sperimentate così il perdono dei peccati; la riconciliazione con la Chiesa; il ricupero, se perduto, dello stato di grazia». Cristo infatti «ci attira a sé per unirsi a ciascuno di noi, affinché, a nostra volta, impariamo ad amare i fratelli con lo stesso suo amore».
E mai come oggi, ha osservato ancora Papa Ratzinger, «c'è tanto bisogno di una rinnovata capacità di amare i fratelli». Per questo «uscendo da questa celebrazione - ha esortato - siate preparati a osare l'amore nelle vostre famiglie, nei rapporti con i vostri amici e anche con chi vi ha offeso. Siate preparati a incidere con una testimonianza autenticamente cristiana negli ambienti di studio e di lavoro, a impegnarvi nelle comunità parrocchiali», nelle associazioni e «in ogni ambito della società». Ancora, ha aggiunto concludendo rivolgendosi ai fidanzati, «vivete il fidanzamento nell'amore vero, che comporta sempre il reciproco rispetto, casto e responsabile». E se invece «il Signore chiama alcuni di voi» a «una vita di particolare consacrazione, siate pronti a rispondere con un sì generoso e senza compromessi».
Il rito della riconciliazione è poi iniziato con una richiesta comune di perdono, simboleggiata da sette giovani che hanno chiesto perdono ognuno per un vizio capitale: si sono così sentiti risuonare le richieste del sostegno divino per «non avere rapporti sessuali prima o fuori del matrimonio, a evitare deviazioni e stravaganze», contro i «peccati di lussuria, che ci fanno schiavi del sesso» e contro «il disordine morale che mette a rischio persone, famiglie e società»; e contro «la noia», «il vittimismo e la lagnanza», l'avarizia, la disonestà, la superbia, l'invidia spacciata per «sana competitività». Nello stesso tempo, come segno della domanda di miseri cordia, altri sette giovani hanno acceso altrettante lampade vicino al crocifisso della Cappella Visitina, portato per l'occasione al centro della basilica.
Al momento della confessione individuale, Benedetto XVI è entrato in uno dei confessionali di San Pietro, dove ha confessato sette tra ragazzi e ragazze. Il cardinale vicario Camillo Ruini, presente con tutti i vescovi ausiliari di Roma, ha invece confessato all'esterno, con i penitenti che gli si sedevano accanto. Duecento in tutto i confessori impegnati tra la Basilica e l'Aula Paolo VI, dove al termine Benedetto XVI s'è voluto recare per salutare i presenti: «Siete davvero tanti, la basilica di San Pietro non è capace di contenervi tutti», ha detto loro, lodandoli per il «sacrificio» fatto stando lontano dagli «amici» in basilica.

Avvenire, 30 marzo 2007


Il saluto di Costanza
«Grazie per le sue risposte alla nostra sete di amore»

Grazie per questo incontro con lei. Ma grazie soprattutto per l'incontro più importante: quello con l'amore di Dio nel sacramento della Confessione. Costanza d'Ardia, 26 anni, assistente sociale, ha salutato così ieri sera il Papa a nome di tutti i giovani presenti in San Pietro, facendo eco alle parole scritte da Benedetto XVI nel messaggio per questa Giornata mondiale della gioventù. «Noi giovani - ha detto Costanza - se non sappiamo sempre amare, è perché spesso non abbiamo ricevuto amore vero. È infatti amore per noi quello di chi ci impone di andar vestiti in un determinato modo, di divertirci senza rispettare la dignità del nostro io, di vivere la sessualità non come manifestazione dell'amore all'interno del matrimonio ma come semplice uso del nostro corpo? È amore per noi - ha continuato la giovane romana - quello di chi non rischia col proporci mete alte o ci lascia in condizioni precarie di lavoro o ci sfrutta o ci mette in competizione con gli altri per ottenere il massimo del profitto per sé stesso? È amore per noi quello di chi ci propone lo "sballo" e offre sostanze che tolgono il controllo di noi stessi? È amore per noi quello di un superaffetto che ci viene offerto per impedirci di uscire dal caldo nido familiare per compiere scelte di vita importanti e definitive?».
Ci sono tante sofferenze nascoste, anche questa sera, da ricordare. «Tra noi - prosegue Costanza -, quanti sono gli assetati di amore perché in famiglia il rapporto tra i genitori si è incrinato e ha provocato depressione e dolore nel cuore dei figli. E tra noi, anche chi ha una vita più serena, spesso è in ricerca di qualcosa di più che sappia appagare il suo desiderio infinito di bene, di giusto, di vero. Il suo desiderio di amore». È il motivo più profondo per cui questi giovani, poco dopo, si accosteranno al Confessionale: «Come Pietro vogliamo pronunciare l'unica risposta necessaria per la vita: "Tu solo hai parole di vita eterna"».

Avvenire, 30 marzo 2007


«Noi penitenti, qui abbracciamo la gioia»

Per tutti gli altri duecento i sacerdoti
Da Roma Giovanni Ruggiero

Fanno appena in tempo a entrare in San Pietro perché poi una pioggerella sottile costringe gli ultimi ad aprire gli ombrelli. Giovani, giovanissimi e anche meno giovani di tutta la diocesi di Roma (con molte felici intrusioni) aspettano che s'aprano i varchi per partecipare alla liturgia penitenziale con Benedetto XVI. I più seguono il loro parroco o un seminarista poco più grande di loro, altri invece sono accompagnati da un insegnate della scuola.
Sono giovani anche i religiosi. Un gruppetto di carmelitani scalzi fa spicco tra i ragazzi per la tonaca. Sono tutti stranieri, seminaristi del Teresianum. Fanno attenzione che il cronista non sbagli i nomi: Andrzej e Pawlet che sono polacchi, Victor che è bulgaro, e Cleber brasiliano. Andrzej si nomina, sul campo, portavoce: «Siamo qui per l'autorità del Papa che è importante. Le sue parole rappresentano un forte fondamento. Se si costruisce su queste basi non si può sbagliare».
Giovani anche le suore, come le Piccole Sorelle dei Poveri. Suor Chiara è italiana, ma le consorelle che l'accompagnano sono indiane: «Con incontri come questi, i giovani si sentono parte integrante della Chiesa».
Le prime "intruse" extradiocesane sono ragazzine delle medie di una scuola di Revere, la cittadina del Mantovano posta sulle rive del Po. Sono a Roma in gita scolastica: l'occasione non se la vogliono perdere. Di Giornate della gioventù hanno solo sentito parlare in parrocchia. Troppo piccole per andarci. Questo incontro accende la loro curiosità.
Le ragazze della scuola alberghiera Safi di Roma, invece, conoscono questi incontri. Una di loro, Marta, ha all'attivo Colonia e parla della "gioventù di oggi" manco avesse sessant'anni: «Questa gioventù - dice infatti - non è più capace di cogliere certi valori. Tutto contribuisce a distrarre». Insieme elencano le cause della "distrazione". Jennifer: «I mass media»; Claudia: «La volgarità imperante»; Imma: «Troppo apparire e poco essere. Sono tutti modelli sbagliati».
Giocano in casa i ragazzi che seguono Claudio Canesa, un seminarista dei Figli di Maria Immacolata. Vengono da Fiumicino con due pullman. Fabrizio avrà 18 anni tra qualche giorno. Parla a nome di tutti: «Un incontro come la Giornata della gioventù vuol dire mettersi a confronto, ma è anche un gesto offerto al mondo per mostrare la nostra comunione. Dice che i giovani non sono persi, e che la speranza è qua».
Sulle teste di tutti spiccano i cappelli blu a larga tesa di Colonia 2006. Maria e Daniele appartengono alla parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe di Roma. Lei: «Un appuntamento come questo rappresenta l'incontro tra i giovani e la Chiesa, e serve per capire come alla luce del Vangelo possiamo interpretare gli anni che viviamo». Lui è di poche parole, anche perché, dice, «ha detto già tutto lei. Aggiungo solo che questa è un'occasione di crescita».
Altri "intrusi" vengono da Cassino. «Diocesi o non diocesi - taglia corto don Nello Crescenzi - la Giornata mondiale della gioventù è una tradizione per Cassino». Infatti, si è portato appresso mezza parrocchia e mezzo liceo "Carducci". Maria Rita, quest'anno ha la maturità, parla per tutti: «Veniamo sempre per dimostrare la gioia della fede in cui crediamo».
Un gruppo di scout sta in retroguardia, sono quelli che si prenderanno un po' di pioggia (ma dovrebbero esserci abituati). Vengono tutti da Casal Dei Pazzi: è il gruppo Roma 84. Parla Carlo, il capo clan: «Io la vedo come una preparazione penitenziale importante in vista della Pasqua». La capo fuoco, Elisabetta, che ha anche le "mostrine" di Colonia aggiunge: «Testimonianze come queste servono per dimostrare che nessuno è solo». Pensa a Colonia: «Quello che ricordo è la fede che ho visto negli occhi della gente».

Avvenire, 30 marzo 2007


Esortazioni del Papa ai giovani durante la messa penitenziale
Fidanzati siate casti confessatevi spesso

VATICANO Fidanzati siate casti e ragazzi e ragazze confessatevi spesso. Sono alcune delle esortazioni del Papa ai giovani, durante la messa penitenziale di preparazione alla Pasqua, organizzata dalla diocesi di Roma, con la partecipazione di moltissimi studenti: non sono entrati tutti nella basilica di San Pietro e una parte di loro ha seguito la cerimonia nell'aula Paolo VI in Vaticano, dove comunque Benedetto XVI è passato per un breve saluto: «siete davvero tanti – ha detto loro – la basilica di San Pietro non è capace di contenervi tutti» e li ha lodati per il «sacrificio» fatto stando lontano dagli amici in basilica.
In San Pietro, dove c'erano alcune migliaia di persone, il Papa ha anche confessato personalmente alcune ragazze e ragazzi.
«Giovani fidanzati, vivete il fidanzamento dell'amore vero, che comporta sempre il reciproco rispetto, casto e responsabile» ha detto Benedetto XVI nella omelia rivolta ai ragazzi, raccomandando anche di confessarsi spesso, per «sperimentare la misericordia di Dio» godere della «pace e serenità della coscienza e della consolazione dello spirito». Ha anche riproposto la riflessione della Chiesa sulla umanità che «sedotta dalle menzogne del Maligno, si è chiusa all'amore di Dio, nell'illusione di una impossibile autosufficienza», mentre «nel sacrificio della croce Dio continua a riproporre il suo amore». E ai ragazzi ha riassunto l'idea cristiana del peccato, della redenzione, della lotta contro il male. Ha anche ricordato il «bisogno di una rinnovata capacità di amare» nel mondo e invitato a una «testimonianza cristiana in tutti gli ambiti della societa». In sintonia con la preoccupazione del Papa per la castità dei fidanzati cristiani sono suonate anche alcune preghiere recitate dai ragazzi, tra le quali una che chiedeva il sostegno divino per «non avere rapporti sessuali prima o fuori del matrimonio, a evitare deviazioni e stravaganze» e una contro i «peccati di lussuria, che ci fanno schiavi del sesso» e contro «il disordine morale che mette a rischio persone, famiglie e società».

Gazzetta del sud, 30 marzo 2007

Rassegna stampa del 31 marzo 2007


Cari amici, anche oggi ci tocca la nostra buona dose di reazioni politiche, ma tranquilli: non mi dilunghero' troppo perche' la stampa e' piu' o meno all'unisono sulle dichiarazioni di Bertinotti (Presidente della Camera, quindi carica super partes) e di Mons. Bagnasco. Motivo del contendere? La Nota della CEI.
Piu' tardi vorrei segnalare alcune interviste dell'allora cardinale Ratzinger su alcuni temi fondamentali.

Raffaella



DICO E VESCOVI / Scola: non sostituiamo la politica ma lo Stato non sia neutro
Bertinotti: la Chiesa sfida la sovranità delle Camere
Bagnasco: la nota Cei non parla solo alla fede ma alla ragione

MILANO — «Lo dico con grande misura, spero. Vedo una responsabilità anche della gerarchia ecclesiastica, ovvero che ci sia una propensione della gerarchia ecclesiastica di alienare la sovranità del legislatore». Fausto Bertinotti lo afferma in un colloquio con il direttore del Tg1 Gianni Riotta, andato in onda ieri sera a Tv7. E la sua è una replica, a distanza, proprio al cardinale Angelo Scola, intervistato prima di lui. Così, dopo le esternazioni di qualche giorno fa, il presidente della Camera con questo affondo è entrato ancora più a gamba tesa nell'accesissimo dibattito sui Dico. Difendendo la laicità dello Stato e invitando le gerarchie ecclesiastiche «a non alienare la sovranità del legislatore».
Il suo, ieri sera, è stato un ragionamento a distanza proprio con Scola: «Ha detto delle cose assai importanti su due terreni che secondo me sono significativi del caso italiano. Questa idea secondo cui la vivacità — ma la vivacità è un termine improprio — la vitalità, la creatività della società civile italiana, è una risorsa straordinaria che non usiamo. Questo che potrebbe essere il terreno di un confronto proficuo è sostanzialmente sotterrato da quello che chiamiamo l'agenda politica».
«Qui — ha proseguito sempre Bertinotti — mi tocca l'obbligo di dire due cose. Una è che, lo affermo con grande misura, vedo una responsabilità anche della gerarchia ecclesiastica. Quando almeno lascia intendere, la metto così da come io fruisco questa informazione, che ci sia una propensione della gerarchia ecclesiastica di alienare la sovranità del legislatore».
Il cardinale Scola, intervistato sempre dal direttore del Tg1, invece, ha prima di tutto approvato «l'arrivo del meticciato delle culture, perché la pace si ottiene imparando ad ascoltare. Ma soprattutto una nuova laicità per me consiste nello sviluppo della società civile, perché la Chiesa cattolica collabora e sostiene la politica ma non la sostituisce». Però, per Scola, il nodo è un altro. E cioè, «che riaffermato il valore laico dello Stato, riaffermato che la Chiesa non sostituisce la politica, lo Stato non deve essere neutro. Perché la pace arriva attraverso la verità». A domanda, poi, su John Fitzgerald Kennedy e il suo concetto di «cattolico che rispettava la laicità dello stato», Scola ha ribadito: «Va bene. Purché il politico cattolico non accetti che da questo concetto derivi quello di neutralità».
E ieri sul tema è intervenuto anche il presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «La nota che il consiglio permanente della Cei ha presentato a proposito della famiglia fondata sul matrimonio cerca di parlare all'intelligenza dei credenti, ma soprattutto all'intelligenza comune attraverso delle motivazioni di tipo puramente antropologico». Un modo «per non cadere nella facilissima accusa che i cattolici vogliano imporre la propria fede al popolo in un contesto di chiaro pluralismo e di frammentazione culturale, religiosa, filosofica ed etica».
Quindi, ha concluso sempre Bagnasco, «quando viene a cadere un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male, ma il criterio dominante è l'opinione generale, o delle maggioranze vestite di democrazia, allora è difficile dire dei no».
R. P.

Corriere della sera, 31 marzo 2007



A proposito della Nota

Quale autonomia nelle questioni antropologiche?

Francesco D'Agostino

Non è un mero stilema dialettico, quello che conclude la "Nota" del Consiglio permanente della Cei sulla famiglia, nel punto in cui si offrono le riflessioni elaborate nel testo alla coscienza di tutti. È evidente che i destinatari privilegiati della "Nota" sono i cattolici. Ma è anche evidente che il tema trattato non è confessionale. Ciò che è in gioco, quando si parla di famiglia, è il bene umano, come bene comune.
Forse qualcuno (a torto) sorriderà, leggendo nel testo della "Nota": «Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna». Si tratta di una verità semplice, semplicissima, ma proprio per questo fondamentale e universale. Chi è introdotto «nel mondo complesso della società» grazie ai genitori e alla sicurezza del loro affetto possiede «un patrimonio incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita». E questo patrimonio «garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio» va custodito per il bene di tutti, letteralmente di tutti.
Non è necessario un grande sforzo concettuale, ma solo la capacità di una lettura senza pregiudizi, per percepire che queste considerazioni della "Nota" sono profondamente laiche, e si rivolgono quindi a tutti gli uomini di buona volontà, come peraltro è reso evidente dal fatto che mai nella "Nota" si fa richiamo alla dimensione sacramentale (essa sì confessionale) del matrimonio.
La richiesta di coerenti comportamenti politici ai politici cattolici che emerge dalla "Nota" va quindi intesa in questa chiave: non si tratta di una richiesta di fedeltà cieca ed ottusa al magistero della Chiesa; è una richiesta di fedeltà consapevole e intelligente al bene dell'uomo, della cui promozione, in questo come in ogni altro caso, i vescovi si fanno carico, nella consapevolezza che è l'unico modo per rispettare il mandato evangelico. È per questo che tale richiesta presuppone il discorso (filosofico e teologico) sulla libertà di coscienza e non lo manda affatto in soffitta, come da qualche parte si è detto. Libertà di coscienza significa in primo luogo dovere di riflettere sulla verità delle cose, dovere di confrontarsi con tutte le istanze che possono dire parole autorevoli in materia (e quindi con l'insegnamento del magistero) e soprattutto dovere di non soggiacere al proprio narcisismo individualistico (al "nostro caro Io", come diceva Kant), ma piuttosto di usare nei confronti di se stessi la critica più rigorosa e coerente. Il principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica è sacrosanto, ma per l'appunto solo per questioni politiche, che riguardino cioè l'occasionalità di scelte essenzialmente contingenti, anche se di grande rilievo. Sono ad es. libero, in quanto cattolico, di optare politicamente per la monarchia o la repubblica, per la destra o la sinistra, per un'economia di mercato o per un'economia dirigista, per il monopolio o per la liberalizzazione dei servizi pubblici: potremmo andare avanti con infiniti esempi. Ma non posso ricondurre a una mia pretesa autonomia la decisione su questioni antropologiche fondamentali, sulle questioni non negoziabili, che mettono in gioco l'essenza stessa della persona: la discriminazione razziale, la disponibilità della vita, la libertà religiosa (per tutti), la libertà dell'educazione dei giovani, l'attenzione per i più deboli e per gli anziani, l'identità della famiglia… queste non sono questioni politiche, ma antropologiche; possono ricevere dalle leggi dello Stato determinazioni giuridiche variabili, ma solo nel contesto di chiarissimi e inequivocabili principi fondativi.
Come non pensare che la coerenza che la "Nota" richiede ai politici (e non solo a quelli cattolici) non sia un bene politico fondamentale, anzi, forse, l'unico vero bene politico su cui tutti dovremmo convenire?

Avvenire, 31 marzo 2007


IL FILOSOFO CATTOLICO REALE

«Le gerarchie? Mi aspetto inviti e non ordini»

Armando Torno

MILANO — Il fondo di Francesco D'Agostino, apparso sull'Avvenire di ieri, è stato un serio invito a riflettere sulla «Nota» del Consiglio permanente della Cei sulla famiglia. Dopo la lettura dei due testi, sorge spontanea una domanda: quali sono i limiti dell'autonomia decisionale dei cattolici nel dibattito delle attuali questioni antropologiche? E ancora: quanti e quali sono i temi non negoziabili?
Ne abbiamo parlato con Giovanni Reale, il filosofo cattolico che è stato chiamato direttamente da Giovanni Paolo II: il pontefice, dopo un loro incontro, decise di affidargli la pubblicazione delle sue opere. Reale dirige la collana «Il pensiero occidentale» (edita da Bompiani), ormai la più vasta del panorama editoriale filosofico italiano, e dopo la lettura dei due testi ricordati si è rivolto a chi scrive con una domanda: «Per dirsi cattolici oggi, in cosa bisogna credere?». E si è dato una risposta: «Essere un cattolico significa credere in Cristo come Figlio di Dio che si è incarnato ed è diventato uomo per prendere su di sé tutti i mali, compreso il nemico ultimo: la morte. Significa soprattutto credere nel mistero pasquale di morte e resurrezione». Certo, il cattolico realizza la sua fede anche attraverso una tradizione, che comunque Reale vede implicita nei grandi misteri ricordati.
Detto questo, egli fa un passo avanti. Precisa: «A volte mi sembra che ci sia una notevole confusione, soprattutto quando si parla di autentica fede cattolica in dimensione socio-politica, se non addirittura la si offre con delimitazioni giuridiche». Per Reale, in altri termini, il cattolico ha dei punti di riferimento indiscutibili e non dei vincoli che lo limitano nel pensiero e nell'azione.
Per questo chiama in causa il grande magistero di Agostino, sul quale ha riflettuto anche l'attuale pontefice Benedetto XVI: «Il santo e filosofo, che ci ha lasciato un'opera come
La città di Dio, ci ha esplicitamente detto: prima uniamoci a Lui per mezzo della fede, per essere poi vivificati per mezzo dell'intelligenza. Perché noi abbiamo creduto per poter conoscere; se infatti avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere». In altri termini, in queste parole che riprendono quelle di Agostino, si invita a rovesciare la prospettiva di tanti dibattiti attuali: la fede non deve essere la conseguenza di una serie di vincoli, ma ogni vincolo può essere superato e capito attraverso la fede.
Reale, sia chiaro, riconosce sia al documento della Cei che al commento ricordato saggezza e valori che possono essere utili oltre il mondo cattolico. In particolare, rileva che non è il caso di aggiungere figure giuridiche diverse dal matrimonio, pur non provando paure o problemi nel parlarne. Anche perché «l'uomo democratico si realizza con la capacità di sentire il diverso». E questo, sottolinea Reale, in un tempo in cui «si desidera praticare una libertà che sconfina nella licenza, giacché non riconosce alcun vincolo». Precisa ancora: «Qualunque proposta del magistero ecclesiastico non può essere impositiva ma soltanto propositiva; deve essere un invito e non un ordine: a me pare che Cristo si comportasse in questo modo».
Insomma, le nuove formulazioni della famiglia non riescono a sostituire il matrimonio, non devono danneggiare i figli e non vanno formulate come leggi-tornaconto. Ma il dibattito ci deve essere e i cattolici è bene che ad esso partecipino con fede e non armati di codicilli giuridici.
Platone, aggiunge Reale «che diede un duro colpo all'idea di famiglia (tra i custodi del potere e della difesa) in fondo anticipò — stando alle più accreditate interpretazioni — gli ordini monastici. Come dire: tu non riconoscerai il tuo figlio fisico, ma li amerai tutti come se fossero tuoi. Certo, con Platone gli orizzonti si ampliano a dismisura. Il filosofo che ha universalizzato la famiglia forse non aveva presente i dibattiti del nostro tempo e i drammi in essi contenuti».
Il filosofo Giovanni Reale insegna dal 2005 nella nuova facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano

Corriere della sera, 31 marzo 2007

Il commento del Prof. Reale spiega perfettamente il comportamento della CEI: la nota non e' un'imposizione, non prevede sanzioni per determinati comportamenti, ma invita coloro che si dichiarano cattolici alla coerenza.
Troppo comodo presentarsi come "cattolicissimi" in campagna elettorale e poi pretendere di agire come se la Chiesa non esistesse...




Ora i "cattolici democratici" chiedano scusa

di LUCA VOLONTÉ

Ora Alberigo e Melloni chiedano scusa ai loro lettori. Il primo è un grande esperto in Scienze Religiose, ma appare sempre più da bocciare sul Catechismo cattolico, non riesce a digerire il Papa, i vescovi, i parroci, la fede stessa. C'è da immaginare che 2000 anni fa incontrando Gesù con i discepoli potesse commentare che erano dei perditempo. È così facile invece comprendere l'ipotesi cristiana di un Dio che interviene nella storia, che lascia una compagnia sulla terra, che prosegue nella storia con Pietro e i suoi successori. No, pare che cercando punti di intesa tra le religioni si sia trovato a prescindere dalla Cattolica e questo lo disturbi molto. Così, senza leggere la Sacramentum Caritatis, la dileggia, senza approfondire la Nota su famiglia e Dico incita i parlamentari cattolici a disobbedire ai vescovi. Lo storico Melloni si è fatto conoscere per la sua polemica contro Pio XII nel 2005. Per settimane intere ha impiastrato le pagine del Corriere della Sera con fantasmagoriche interpretazioni di documenti per dimostrare la particolare simpatia del Papa verso il nazismo e le conversioni forzate. Peccato che venne totalmente smentito dai documenti originali e in questi ultimi giorni emerga dai dossier conservati nell'ex DDR un faldone di notizie del Terzo Reich che considerava il Papa un pericoloso e tenace oppositore. I due "cattolici democratici" hanno il dovere della coerenza, le scuse saranno ben accette visto le originali teorie infami sostenute. Ma se avessero la coscienza, meglio sarebbe il silenzio operoso e orante. Intanto i "Cattolici del No", settantenni alla riscossa rispolverati da Marco Politi, si riattiveranno con lo stesso rancore di sempre, ma stavolta andranno in piazza con le stampelle a difendere Grillini e Luxuria e saranno accompagnati dai finanziatori dei Valdesi, Camilleri, Eco, Fo, Rame. A Tor Pignattara è accaduta un'ennesima vicenda inquietante di bulli contro maestri. Una banda di bambini di sette anni, armati di coltelli, minacciano di morte la maestra. Che fare? Di analisi ne ho lette molte, di inviti alle responsabilità educative dei genitori pure. Dobbiamo cambiare passo. Introduciamo pene vere verso questi mariuoli. Che ne dite di reintrodurre la "bacchetta" per addomesticare i più violenti? Meglio i metodi naturali, come i ceffoni di quel padre la cui figlia è stata costretta al sesso orale, che il Prozac introdotto dalla Turco nelle farmacie italiane. Deve esserci uno stato di assuefazione totale al ministero della Salute, se ci si occupa solo di cannabis e pilloloni vari per drogare i bambini. C'è una logica del bambino come "buon selvaggio", che solo per colpa dei genitori si trasforma in bestiolina violenta. La "bacchetta" in classe e la responsabilità giuridica dei genitori per gli atti dei figli sono forse banali, ma molto più efficaci.

Libero, 31 marzo 2007

30 marzo 2007

Ecco la cartolina per il Papa...

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Messaggio del Papa al Forum dei giovani


Il Papa al Forum dei giovani: nell'economia non conta solo essere produttivi e competitivi. Occorre essere testimoni della carità

In questo tempo di grandi trasformazioni nel campo dell’economia “non conta soltanto diventare più ‘competitivi’ e ‘produttivi’ occorre essere ‘testimoni della carità’”. E’ quanto afferma il Papa in un messaggio inviato a mons. Stanisław Ryłko, presidente del pontificio Consiglio per i Laici, che sta tenendo a Rocca di Papa, vicino Roma, il IX Forum internazionale dei giovani sul tema “Testimoni di Cristo nel mondo del lavoro”. All’evento partecipano oltre 300 giovani delegati delle Conferenze episcopali e di vari Movimenti e Associazioni internazionali provenienti da tutto il mondo. Il servizio di Sergio Centofanti.

Il Papa nel messaggio sottolinea che se, da una parte, i progressi compiuti in quest’epoca di grandi trasformazioni “hanno suscitato nuove speranze nei giovani, dall’altra hanno spesso creato in loro forme preoccupanti di emarginazione e di sfruttamento, con crescenti situazioni di disagio personale”. Sono infatti “aumentate le difficoltà di reperire un’occupazione lavorativa che risponda alle attitudini personali e agli studi compiuti, con in più l’aggravio dell’incertezza circa la possibilità di poter poi mantenere nel tempo un pur modesto impiego. Il processo di globalizzazione in atto nel mondo – prosegue il Pontefice - ha recato con sé un’esigenza di mobilità che obbliga numerosi giovani a emigrare e a vivere lontano dal Paese d’origine e dalla propria famiglia. E questo – ha aggiunto - ingenera in tanti un inquietante senso di insicurezza, con indubbie ripercussioni sulla capacità non solo di immaginare e di mettere in atto un progetto per il futuro, ma persino di impegnarsi concretamente nel matrimonio e nella formazione di una famiglia”.
Il Papa invita ad affrontare queste “problematiche complesse e delicate” alla luce della Dottrina sociale della Chiesa che con numerosi documenti, sin dalla Rerum novarum di Leone XIII nel 1891, hanno richiamato “con forza la necessità di valorizzare la dimensione umana del lavoro e di tutelare la dignità della persona” in un contesto “di liberalismo economico condizionato dalle pressioni del mercato, dalla concorrenza e dalla competitività”. In effetti – spiega Benedetto XVI – “il lavoro rientra nel progetto di Dio sull'uomo … è partecipazione alla sua opera creatrice e redentrice. E, pertanto, ogni attività umana dovrebbe essere occasione e luogo di crescita degli individui e della società, sviluppo dei ‘talenti’ personali da valorizzare e porre al servizio ordinato del bene comune, in spirito di giustizia e di solidarietà”. “Non conta soltanto diventare più «competitivi» e «produttivi» - rileva Benedetto XVI - occorre essere testimoni della carità”.
Il Papa esorta i credenti a vivere “il lavoro come una vocazione e una vera missione” con l’obiettivo di costruire il Regno di Dio. “Oggi, più che mai – leggiamo ancora nel messaggio - è necessario e urgente proclamare ‘il Vangelo del lavoro’, vivere da cristiani nel mondo del lavoro e diventare apostoli fra i lavoratori. Ma per compiere questa missione – aggiunge il Papa - occorre restare uniti a Cristo con la preghiera e un’intensa vita sacramentale, valorizzando a tale scopo in maniera speciale la Domenica, che è Giorno dedicato al Signore”.
Il Papa incoraggia infine “i giovani a non perdersi d’animo dinanzi alle difficoltà” e dà loro appuntamento per domenica prossima, in Piazza San Pietro, per la celebrazione della Domenica delle Palme e della XXII Giornata Mondiale della Gioventù, ultima tappa di preparazione alla GMG, che si terrà il prossimo anno a Sidney, in Australia.

Radio Vaticana

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Il Papa e i giovani

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Lo speciale di "Repubblica" sull'inferno


Vedi anche:

"Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei"

"Ratzinger, con quel volto da fanciullo ottantenne..."

"Commenti e riflessioni..."

"La misericordia e la responsabilita'"

"Ancora sull'inferno..."


I dannati dalla Chiesa

Perché il papa ne riafferma l´esistenza

La religione l´arte e la letteratura ne hanno spesso descritto significato e funzione
Ecco la storia di un "non luogo" speciale con il quale l´umanità si è dovuta misurare


PIERO CODA

È senz´altro paradossale che il nostro tempo, che forse come nessun altro ha sperimentato abissi indicibili d´ingiustizia e malvagità come quelli perpetrati nei lager nazisti, sia tentato di non meditare più sulla possibilità reale dell´inferno. Certo, rappresentazioni ingenue e insistite del passato non aiutano a collocare in una luce pertinente e convincente questo concetto che fa parte del bagaglio irrinunciabile dell´esperienza cristiana, ma anche e innanzi tutto umana. Che il male vada infine sceverato dal bene e che vi debba essere un giudizio finale che ripari i torti subiti che la storia non riesce a far quadrare, rivelando le vere intenzioni dei cuori e dicendo pane al pane e vino al vino, è un postulato difficilmente contestabile della nostra esistenza.
La fede cristiana non contraddice questa percezione e questa speranza. Ne dilata, piuttosto, e ne rischiara in modo inatteso l´orizzonte di esperienza e comprensione. Il messaggio di Gesù è "vangelo": la "bella notizia", cioè, secondo cui Dio è sino in fondo e unicamente desiderio di bene nei confronti dell´uomo. Tanto che egli è venuto, appunto, «non per condannare, ma per salvare» (cfr. Gv 12,47), offrendo l´aiuto indispensabile per edificare la propria esistenza e quella della comunità umana secondo una misura pienamente umana. Il che esige un´adeguata assunzione di responsabilità. In altre parole, il messaggio di amore che viene da Dio all´uomo in Gesù, e in cui l´uomo ritrova il meglio di se stesso, non avrebbe significato se l´uomo stesso, come Dio che l´ha creato e lo vuole compagno di vita per sempre, non fosse libertà. «Se la libertà non è reale - scriveva all´inizio del secolo scorso Pavel Florenskij - , nemmeno l´amore di Dio per la creatura è reale».
Di qui, dall´amore di Dio che esige la libertà dell´uomo, lo spalancarsi di quell´abisso che è la possibilità reale di dire no al destino che realizza ogni persona. Se la possibilità di dire questo no non vi fosse o fosse una semplice illusione, l´uomo non sarebbe uomo e Dio non sarebbe Dio. Ciò non significa brandire in modo terroristico la possibilità di questo no, nella sua terribile definitività, per imporre alcunché. Significa al contrario richiamare alla serietà della nostra responsabilità e all´inesauribile efficacia della misericordia di Dio che col perdono sempre di nuovo rende disponibile la chance di ricominciare come fosse la prima volta.
È Gesù stesso, a ben vedere, che offre non a parole ma col dono di sé senza condizioni sul legno della croce la misura ultima di questo dramma segnato dal marchio della speranza. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21): così l´apostolo Paolo. Al seguito di Gesù, Paolo stesso potrà spingersi a esprimere l´ardente desiderio di farsi egli stesso "anatema" per salvare i fratelli: attestando la sua volontà - conforme a quella di Dio stesso - di autoescludersi dal beneficio della salvezza se ciò fosse necessario per strappare qualcun altro alla pena eterna. Una volontà e una preghiera che, lungo i secoli, non di rado troveranno eco nell´esperienza e nelle parole dei discepoli di Gesù. A partire da ciò il teologo Hans Urs von Balthasar ha espresso e argomentato la speranza che nessuno si perda per sempre: l´inferno è una reale possibilità, ma non è detto che essa si verifichi. Non a caso - egli chiosa - «la Chiesa, che ha canonizzato tante persone, non si è mai pronunciata sulla dannazione di alcuno. Neppure su quella di Giuda».
In fin dei conti, è proprio la definitività dell´amore di Dio per la sua creatura manifestato senza ambiguità nel Crocifisso a decretare, al negativo, la possibilità reale di potersi liberamente e definitivamente chiudere a questo amore. Non è un caso che prima di Gesù, pur conoscendo la tradizione ebraica il concetto del giudizio finale di condanna dei reprobi, la realtà degli inferi permanga in una quasi strutturale situazione d´indecisione: come luogo delle ombre in cui convivono e i giusti in attesa di salvezza (e di risurrezione) e i malvagi in attesa di inappellabile giudizio. Solo la discesa di Gesù agli inferi - come recita il Simbolo della fede - dà definitività al luogo (che è uno stato) del rifiuto opposto a Dio. Definitività che deriva dal fatto che solo di fronte a lui, in cui Dio ha pronunciato il "sì" escatologico della misericordia per gli uomini d´ogni tempo e d´ogni luogo, la decisione finale - non di Dio, ma dell´uomo stesso - può esser presa come autogiudizio senz´appello nei confronti della grazia della salvezza.
Ma, al tempo stesso, definitività escatologica che crea - se così si può dire - una nuova situazione d´essere: quella anticipata, nel chiaroscuro del presentimento, dall´esistenza umbratile degli spiriti che esistono, ma in uno stato che è solo l´impronta vuota d´una esistenza vera. Sì, per la fede cristiana è solo perché Cristo, col suo esporsi nell´amore sino alla fine, scende nel baratro del rifiuto di Dio, che tale rifiuto riceve il sigillo dell´irrevocabilità. Egli, ascendendo nell´evento della risurrezione al seno di Dio che è Padre, donde è uscito, accompagna con sé in libertà coloro che gratuitamente ha strappato dagli inferi del non amore. Ma il suo esser disceso in quel fondo, ha al tempo stesso eternizzato la possibilità del non amore che è non vita. «Padri e maestri - esclama lo starec Sosima ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij - , io mi domando: Che cosa è l´inferno? Io affermo che è il tormento di non essere capaci di amare».
Non si tratta di speculazioni astratte o remote dalla vita. Forse mai come nel nostro tempo - dicevo all´inizio - si sono sperimentate a livello personale e sociale le torture dell´angoscia esistenziale e della malvagità collettiva: veri anticipi dell´inferno. Sapere che Gesù Cristo vi s´è calato dentro, sino all´abisso, e ha redento l´irredimibile, è speranza che si può sempre ricominciare. E che l´amore di Dio ci prende terribilmente sul serio: perché il suo amore, che è libertà, giunge al punto da rendere definitivo - se lo vogliamo - l´antirealtà del non amore. Dunque, niente come la possibilità reale dell´inferno dice, in Gesù, l´amore di Dio e la libertà dell´uomo.


Dalla geenna al vuoto, storie di oltretomba

Tra l´antichità e l´Alto Medioevo si elaborò la teoria del damnum, che in origine significava "perdita", "disgrazia". Da lì nacque il concetto di dannazione
E´ certo che sarà lo stesso fuoco a colpire uomini e demoni, come Cristo ha detto: "Via, lontano da me, maledetti..."
L´immagine comune dell´inferno è quella di fuoco. Il daimon stesso è sempre stato tradizionalmente associato al fuoco
Non so che mai sia l´inferno; io soggiorno da sempre in questo nonluogo; diciamo che ne sono un socio fondatore
Padri e maestri, io penso: "Che cos´è l´inferno?". Così lo definisco: "La sofferenza di non poter più amare
"

FRANCO CARDINI

La parola "Inferno" indica evidentemente, in latino, quello che sta in basso o sottoterra; ciò già nell´antichità romana indicava un´idea della vita oltremondana come di una prosecuzione in un luogo immaginato come nelle profonde viscere della Terra.
Con la parola infernus i traduttori latini della Bibbia ebraica intesero tradurre il concetto ebraico di she´ol; ma esso qualificava nella tradizione ebraica, più che un luogo, la condizione del sonno in cui l´anima umana veniva avvolta dopo la morte in attesa del giudizio universale.
Dal momento che ebrei usavano inumare i loro defunti, questa idea si avvicinava abbastanza agevolmente e spontaneamente a quei concetti dell´Oltretomba come luogo sotterraneo, che erano vivi nelle culture egizia e, con qualche difficoltà in più anche assiro-babilonese.
Il Nuovo Testamento, per la verità, non insiste tanto sul concetto ebraico di she´ol, luogo del sonno mortale quanto di geenna, che si potrebbe definire come un luogo di punizione e di sofferenza caratterizzato dalla presenza di un fuoco ardente e di un buio profondo. La geenna, infatti, corrispondeva ad una specie di valle infossata, a sud-ovest delle mura di Gerusalemme, dove si bruciavano i rifiuti e dalla quale emanava sempre un grasso fumo ed un acre odore.
Un luogo quindi, per definizione impuro e sgradevole. Gesù condanna alla geenna, "dov´è piano e stridore di denti", i peccatori impenitenti.
Con queste premesse si comprende come i cristiani che si convertirono alla nuova fede alcuni decenni dopo la morte di Gesù, e che non provenivano dal mondo ebraico bensì dalle varie culture che componevano il mosaico ellenistico-romano, adattarono la loro idea di Inferno a quelle credenze che li avevano caratterizzati prima della conversione. In effetti i greci ed i latini immaginavano un "erebo", cioè un luogo sotterraneo triste e tenebroso, nel quale le anime dei defunti conducevano una vita quasi sospesa a metà tra l´evanescenza e l´inesistenza. Era questo il tristo "Hades", una cui sezione specifica, il "Tartaro" era preparata per chi in vita si era reso responsabile di colpe particolarmente orribili come l´omicidio, il tradimento, l´empietà nei confronti degli dei. Sappiamo d´altra parte che i defunti privilegiati o particolarmente meritevoli, gli Eroi, avevano una dimora eterna caratterizzata da dolci venti, praterie fiorite e alberi da frutto: i Campi Elisi. Anche tale dimora era caratterizzata dalla tristezza che sempre avvolgeva chi, essendo defunto, aveva in realtà perduto l´unica vita pienamente degna di essere definita tale, cioè quella terrena. Gli Elisi erano comunque, se non altro, un luogo piacevole ed esente dal dolore.
I cristiani elaborarono pertanto una dottrina dell´Oltretomba che in un certo senso univa in una sorta di acculturazione l´idea ebraica del sonno dopo la morte, quella vetero-testamentaria della punizione dei malvagi e quella pagana greco-romana della sofferenza spettante a chi si fosse reso responsabile di colpe o di infrazioni rituali.
Tra antichità ed Alto Medioevo si elaborò la teoria del damnum, che originariamente significa "perdita", "disgrazia". Da lì nacque appunto il concetto di dannazione, inteso soprattutto come privazione eterna della visione di Dio. Le pene fisiche, in realtà, venivano concepite come un´immagine analogica destinata a dare una lontanissima idea della sofferenza spirituale provata dai dannati a causa della lontananza dal Signore. Ma, per la dottrina che i cristiani avevano ereditato dagli ebrei, alla fine dei tempi tutti sarebbero resuscitati: ed i malvagi, i peccatori, avrebbero a quel punto rivestito la loro carne per proseguire la loro residenza nell´Inferno, eternamente. Dopo la resurrezione, naturalmente, le pene sarebbero veramente state anche fisiche oltre che spirituali.
Questa dottrina non si creò dal nulla: i suoi Padri principali sono Sant´Agostino che approfondì il concetto di pena eterna, San Giovanni Crisostomo che procedette a un´analisi del concetto di Inferno nel Nuovo Testamento, San Bernardo di Chiaravalle che sottolineò l´orrore della morte eterna come morte autentica, contrapponendola a quella puramente fisica che era solo un normale ed inevitabile incidente attraverso il quale si accedeva alla vita eterna ed infine San Tommaso d´Aquino che insisté sul carattere irremissibile dell´Inferno, dove le sofferenze non inducono i dannati al pentimento ma, anzi, li radicano nell´odio e dunque nella lontananza da Dio.
Naturalmente vi fu chi al contrario riteneva che il concetto di eternità dell´Inferno contrastasse con quello di infinita giustizia e di infinita misericordia divine. Alcuni padri della Chiesa, come Gregorio di Nazianzo, Origene e Giovanni Scoto Eriugena fecero osservare che l´uomo, data la sua stessa imperfezione e la sua strutturale finitezza, non poteva commettere un peccato, per quanto orribile, che meritasse una pena eterna; mentre tale concetto contrastava per sua natura con il principio cristiano di un Dio interpretato principalmente come Amore. L´idea, pertanto, che l´Inferno non potesse essere eterno e che alla fine gli stessi dannati sarebbero stati redenti, attraversò tutto il cristianesimo medievale e moderno, pur considerata come eresia, e giunse in Italia ad una affascinante anche se teologicamente poco sicura conclusione, che fu proposta da Giovanni Papini. Più di recente, il grande teologo Hans Urs von Balthasar propose una soluzione originale, che salvava l´idea dell´eternità dell´Inferno ma faceva al tempo stesso trionfare quella dell´infinita misericordia divina: l´Inferno c´è, ma è vuoto.
La riaffermazione della dottrina tradizionale cattolica da parte di Benedetto XVI viene adesso ad inserirsi in un processo di riconsiderazione di tutte le posizioni della Chiesa ispirate a fermezza dottrinale e volte, a quanto sembra, a combattere quelle tendenze alla modernizzazione che si erano negli ultimi decenni fatte strada. La riaffermazione di un Inferno eterno al quale chi si allontana da Dio non può sfuggire, rappresenta una scelta di campo coerente con il rigoroso richiamo alla disciplina ecclesiale che sembra caratterizzare il pensiero e l´opera dell´attuale Pontefice.


È tollerabile l´inferno in una visione etica?
La giustizia divina e la logica delle pene

San Tommaso, fonte eminente della mappa dantesca, suppone che l´inferno sia al centro della terra. Qui i dannati non vedono Dio e subiscono pene corporali

FRANCO CORDERO

Cosa sia l´inferno. Vediamolo nella Tabula aurea, indice ragionato dell´intero san Tommaso: «est horridus et tenebrosus et poenalis locus daemonum»; dev´essere un luogo, se contiene diavoli e dannati, i cui corpi accoglierà alla fine del mondo; Doctor Angelicus, fonte eminente della mappa dantesca, lo suppone al centro della terra («probabiliter»). La voce Damnatio, scandita in 66 lemmi, spiega quali cose vi succedano, in eterno: gl´inquilini coatti non vedono Dio e subiscono pene corporali (fuoco, tenebra, ecc.), oltre ogni pensabile dolore terreno, Passione inclusa. Che il fuoco non sia metaforico, lo dicono definizioni dogmatiche ricorrenti, vedi Enchiridion Symbolorum. Sul tema fioriscono una letteratura e sermonari classificabili nella clinica psicopatologica, tanto laide sono le fantasie che vi scaricano gli autori: roba da Cent Vingt Journées, ma Sade scrive con distacco scientifico mentre costoro sbraitano; e quanto sadismo connoti l´immaginario teologale, consta dall´insegnamento che gli spettacoli d´inferno completino la beatitudine celeste; dottori pudibondi mascherano l´argomento; terroristi del pulpito lo squassano con accenti da sabba stregonesco (anche Padre Paolo Segneri S. J., famoso quaresimalista).
Il punto è se l´inferno sia tollerabile in una visione etica. Cominciamo da Pelagio, monaco britanno tra quarto e quinto secolo: negando l´idea d´un peccato d´origine trasmesso col seme, sminuisce il battesimo; forte d´uno scomodo radicalismo evangelico, rifiuta ogni compromesso col potere ecclesiastico e politico; nella sua teologia elementare Dio è spettatore neutrale della partita dove ciascuno gioca le sue sorti. Ovvia la condanna ecclesiastica, sollecitata da sant´Agostino. Siamo al limite del cristianesimo ridotto a pura moralità, senza riti, misteri, gerarchie, effusioni mistiche, ma il giudice figura male anche lì, se lo postuliamo creatore onnisciente: cos´aveva in mente?; dispiega lo scenario terreno, sapendo dove finiranno innumerevoli animali umani, nelle fauci diaboliche; l´equanime fair play giudiziario non compensa l´obiettiva cattiveria del creare un mondo così regolato. Ma almeno è giusto, stricto sensu, se presupponiamo che venendo al mondo, uno sia padrone dei suoi destini. Qui stravince Agostino, molto superiore in acume analitico e talento speculativo: contro i manichei presupponeva una volontà sovrana; poi scopre la causalità psichica ed elabora la teoria della grazia; impresa d´altissimo segno scientifico; anticipa Freud, al quale mancano quattordici secoli. In lingua moderna diremmo così: la cosiddetta volontà è nome astratto delle volizioni; ognuna ha delle cause; l´atto scatta nel senso della pulsione prevalente; alcune risalgono all´Es (bacato dal peccato originale: Agostino le chiama concupiscentia), ma esiste una libido spirituale, gratia o caritas; la infonde Dio. Siamo degli automi: suo l´atto buono, nostri i peccati; formula ipocrita perché rimasto solo, l´animale umano pecca come i pesci nuotano o i gravi cadono.
Favola orrenda: fa tutto Lui, concedendo o no la santa libido da cui nascono gli atti virtuosi, delectatio victrix; sta fuori del tempo ma vi agisce continuamente, ad esempio iniettando l´anima agli embrioni (un poco tardive risultano le femmine, insegnavano i dottori d´una philosophia perennis); l´intera commedia cosmica, quindi, sviluppa i suoi piani; è autore, macchinista, scenografo, capocomico e invisibilmente conduce gli attori. Saltano agli occhi le differenze dal quadro pelagiano: là era giudice equo, coerente a una decisione crudele ante mundum; qui pratica nei millenni un passatempo psicopatico, feroce, stupido. Ai lettori moralmente sensibili manca il fiato: fabbrica cavie umane; le muove; avendo stabilito che alcune mosse siano peccaminose, decreta supplizi; li fa eseguire dai diavoli, suoi agenti (l´inferno preesiste all´uomo); e dopo tante migliaia d´anni non s´è ancora stancato. Nella nomenclatura medica gesta simili configurano pericolose malattie. Agostino se ne rende conto, infatti vela come può la scoperta non predicabile dai pulpiti (quando i monaci d´Adrumeto esigono una risposta netta, la elude): secondo lui, non abbiamo ragioni contra Deum, perché i discendenti d´Adamo compongono una massa damnationis; salvandone alcuni, gratis, l´Ingegnere cosmico esercita pura misericordia; tra le righe ammette però che fosse eterodiretto anche il capostipite nel paradiso terrestre; e l´ammissione viene esplicita a proposito degli angeli; i rimasti in cielo erano amplius adiuti ossia disponevano d´un soccorso particolare, automi anche loro. Non è questione nuova, come siano valutabili moralmente gli atti della persona che i teologanti chiamano Dio. L´aveva sollevata Giobbe nell´omonimo libro, soccombendo perché l´antagonista strapotente, abilissimo meccanico, ignora le misure etiche e ha poco discernimento intellettuale. Quando vi torna san Paolo (Epistola ai Romani, capitolo nono), la risposta fa rizzare i capelli: un vaso chiede conto al vasaio del come l´ha plasmato?; l´artefice dispone ad libitum del manufatto. Questa similitudine segna un punto infimo nella parabola etica del divino. «Sublime», esclamano i folgorati dallo spettacolo. Isidore Ducasse, nome d´arte Lautréamont, racconta invece a mano ferma una visione terrificante, ricalcata sul teorema biblico (Les chants de Maldoror, canto secondo).
La dottrina agostiniana diventa dogma, ma svuoterebbe le chiese se fosse predicata, perciò fiorisce un agostinismo spurio, fondato su paralogismi e vaniloqui. Le formule tridentine sono plateale contraddizione: solo lo Spirito Santo innesca l´atto buono, senza concorso umano; se però pecco, vado all´inferno perché peccavo volontariamente; come dire «piove e non piove». Inutile notare quanto sia tossica l´abitudine al discorso doppio. Non sarebbe meglio una religione coltivata come tensione etica, silenzio sull´ineffabile, compassione operosa, perché gli uomini condividono uno stato nient´affatto lieto? Forse converrebbe riscoprire l´umanesimo pelagiano, agli antipodi dell´ecclesiocrate Agostino.

Repubblica, 30 marzo 2007

Arriva il Papa...panico a Pavia :-)

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Aggiornamento della rassegna stampa del 30 marzo 2007


Di seguito potete leggere alcuni editoriali apparsi oggi sulla stampa.Devo constatare che vengono interpellati sempre i soliti commentatori che sembrano avere il monopolio del cattolicesimo intellettuale.
Con tutto il rispetto per i professori Alberigo e Melloni, amerei leggere anche l'opinione di intellettuali cattolici che non appartengano alla scuola di Bologna. Solo cosi' si avrebbe un panorama completo dell'informazione.
Ecco gli editoriali. Segue un'intervista a Mons. Luigi Negri e una nota di agenzia sulle dichiarazioni di Mons. Bruno Forte.
A piu' tardi con altri articoli.

Raffaella

Vedi anche:

Rassegna stampa del 30 marzo 2007


LE IDEE

I parlamentari cattolici e l´obbedienza ai vescovi

GIUSEPPE ALBERIGO

La Conferenza Episcopale Italiana ha inaugurato la stagione successiva alla lunga presidenza Ruini con una "Nota" del Consiglio di presidenza, che adempie un annuncio pubblicato dallo stesso cardinale Ruini il 13 febbraio scorso. Il testo riguarda la famiglia fondata sul matrimonio e le iniziative legislative in materia di unioni di fatto, come recita il titolo. In realtà il cuore dell´atto è costituito dalle eventuali norme che il Parlamento italiano potrebbe esaminare per regolare le «coppie di fatto». Infatti alla famiglia il Consiglio di presidenza della Cei – costituito tutto da celibatari che della famiglia hanno solo un´esperienza remota.. . – dedica in tutto qualche veloce riga priva di qualsiasi novità. Il che non è privo di interesse poiché è proprio il rapporto sponsale tra uomo e donna che la Bibbia indica come il "modello" della stessa relazione tra il Cristo e la Chiesa. E´ deludente che i Vescovi non abbiano colto l´occasione per toccare tanto argomento con maggiore afflato.
Ma l´attenzione era tutta concentrata sulle prospettive di iniziative parlamentari di cui si parla da settimane. Vero è che secondo l´orientamento della Segreteria di stato vaticana, espresso dallo stesso cardinale Bertone, la Cei dovrebbe dedicarsi agli aspetti pastorali della vita cristiana nel nostro Paese, ma l´ombra della presidenza Ruini è lunga e persistente e almeno questo atto ne risente abbondantemente. Soprattutto alcuni passaggi della parte "politica" del documento sono estranei a qualsiasi spirito pastorale, come quando si vorrebbe negare che il diritto possa dare forma giuridica o riconoscimento a tipi di convivenza: affermazione paradossale, estranea a qualsiasi sana concezione del diritto.
Entrando nel vivo dell´argomento, la Nota formula «una parola impegnativa» rivolta «specialmente ai cattolici che operano in ambito politico». Dopo aver citato un passo della recente esortazione di Benedetto XVI sull´impegno dei Vescovi a essere fedeli alla loro responsabilità nei confronti del gregge, la Nota afferma che «sarebbe incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto».
Seguono due ampie citazioni di atti della Congregazione per la dottrina delle fede, emesse quando essa era diretta dall´allora cardinale Ratzinger, quasi che fossero atti del Papa stesso, dato che poi Ratzinger è stato eletto a successore di Pietro. L´atto si conclude affidando le riflessioni che precedono «alla coscienza di tutti e in particolare a quanti hanno la responsabilità di fare le leggi».
Qual è la portata di questo documento? E´ proprio vero, come alcuni sostengono, che obbligherebbe i parlamentari cattolici a negare la loro approvazione a norme che regolassero le «unioni di fatto» (neologismo orrendo, che vorrebbe caricaturare rapporti di amore spesso non meno intenso che nel matrimonio-sacramento!)? Il Consiglio di Presidenza impone «obbedienza» su questo argomento? I parlamentari credenti sono tenuti a prestarla?
La semplice formulazione di questi interrogativi aiuta a comprenderne l´assurda improponibilità. E´ improponibile che dei membri di un parlamento liberamente eletto possano essere vincolati a un´obbedienza estranea alle loro convinzioni di coscienza. E´ quasi incredibile che i Vescovi vogliano impegnare la loro autorevolezza su questo argomento, mentre trascurano di invitare i parlamentari a negare il loro voto a atti di guerra, ben più anti evangelici delle unioni di fatto. E´ altrettanto incredibile che i Vescovi chiedano impegno in questa circostanza, mentre non hanno fatto niente di simile a favore della deplorevole condizione degli extracomunitari. D´altronde i cattolici italiani hanno già sperimentato l´inanità di richieste analoghe quando il "non expedit" avrebbe voluto imporre l´astensione dalle elezioni per "punire" l´Italia che nel 1870 aveva annesso Roma, eliminando il potere temporale dei papi. La piena cittadinanza dei cattolici italiani é stata guadagnata con la disobbedienza a quella imposizione.
In realtà si ha l´impressione che anche tra i membri della Presidenza della Cei abbia serpeggiato qualche dubbio, che affiora anche nelle pieghe della "Nota", che comunque non è stata sottoposta al consenso dell´intero episcopato italiano. L´invito conclusivo ai parlamentari «affinchè si interroghino sulle scelte coerenti da compiere e sulle conseguenze future delle loro decisioni» ha un tono che riecheggia quanto aveva dichiarato qualche giorno prima Bagnasco quando aveva detto che la nota non sarebbe stata usata come «una clava». Nè é superfluo rileggere quanto il Concilio Vaticano II ha solennemente richiamato a proposito del fatto che «gli imperativi della legge divina l´uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza che egli è tenuto a seguire fedelmente».
Bisogna augurarsi che questo atto sia inteso nella sua intenzione esortativa, evitando che abbia effetti laceranti nel Paese e nella comunità cattolica in seno alla quale migliaia di fedeli, spesso coppie unite nel sacramento del matrimonio, hanno manifestato la loro ansia per un episcopato che sembrerebbe pronto a esprimersi solo in congiunture politico-parlamentari.
In questi giorni la nazione e i cattolici in modo speciale, hanno preso commiato, con rimpianto e con riconoscenza, da Nino Andreatta che nell´ultimo mezzo secolo è stato uno dei più impegnati esponenti della vita pubblica. Da credente Andreatta ha servito la Repubblica con grande lealtà e ha promosso in molte circostanze la vita cattolica, rifiutando fermamente, come già prima De Gasperi, i conflitti che in qualche circostanza comportamenti ecclesiastici poco avveduti avrebbero potuto innescare.
Secondo questo spirito tutti gli italiani, cattolici e non cattolici, non possono che augurare all´Episcopato con la guida di Bagnasco e nella prospettiva di una equiparazione allo statuto delle altre conferenze del mondo, una sempre più avvertita, feconda e serena percezione dei bisogni della comunità nazionale e dell´annuncio evangelico in modo che ciascuno possa offrire il meglio di sè e del proprio patrimonio di vita.

Repubblica, 30 marzo 2007

Sempre gli stessi concetti...vogliamo una Chiesa che si occupi solo del sociale? E che differenza c'e' fra la suddetta Chiesa e un qualunque ente benefico? Alberigo sa bene, ma tace, che il Vaticano e' intervenuto piu' volte contro l'uso delle armi. Abbiamo dimenticato gli appelli, quasi quotidiani, di Benedetto XVI a favore del Libano?
Caro professore, non esiste piu' la Chiesa del silenzio per cui sono abilitati a parlare solo gli intellettuali cattolici (preferibilmente di una certa area).
Consiglio a tutti la lettura dei testi del Papa, ispirazione per qualunque dibattito intellettuale, teologico, filosofico.
Ripetere sempre e comunque che la Chiesa non puo' intervenire nel dibattito pubblico e, soprattutto, non ha il diritto di illuminare le coscienze, francamente, e' un discorso superato.
Superiamolo TUTTI!

Raffaella


LA CEI DI BAGNASCO

Il ritorno dei pastori

ALBERTO MELLONI

L' «era Bagnasco» è iniziata in modo movimentato, com'era ovvio. Chiamato dal Papa alla testa della Cei è dovuto salire su un treno in corsa, caratterizzato da un orizzonte e da un metodo ben noto, rispetto al quale Bagnasco ha dato qualche segno di discontinuità: giustamente non ha omesso parole di stima per il predecessore e non ha dimenticato le professioni di allineamento, che sono abbastanza ovvie in ogni grande struttura. Ma ha fatto riferimento ai terreni sui quali l'arcivescovo di Genova vuole portare la Cei: un'attenzione alla vita pastorale, un'accentuazione della collegialità, una rinuncia (per la prima volta da decenni) a dipingere il «quadro politico nazionale». Soprattutto s'è sentita l'attenzione a non dividere la chiesa in buoni-cattivi prendendo atto delle ragioni di tutti. Per qualcuno piccoli segni di una Cei più capace di valorizzare le sue diversità; per qualcuno fatue illusioni di un organo cresciuto politico e destinato a restarlo. È su questo sfondo così diafano che si capiscono i due documenti che hanno segnato questi giorni iniziali di Bagnasco e che hanno attirato una diseguale attenzione dell'opinione pubblica. Il primo documento è stata la lettera del cardinale Bertone al nuovo presidente, nella quale ci sono gli auguri del segretario di Stato, ma anche le «regole d'ingaggio» della nuova Cei e un giudizio severo sulla precedente. Il cardinal Bertone dice convinto che Bagnasco saprà «incoraggiare» i pastori a lavorare con spirito collegiale «autentico»: il che dice qualcosa del giudizio sul clima precedente. Inoltre Bertone afferma che il nuovo presidente ha conosciuto come vescovo non solo i processi di secolarizzazione, ma anche «il progressivo indebolimento del tessuto ecclesiale italiano»: una diagnosi severa a fronte della quale indica come «priorità» l'evangelizzazione, la catechesi, la «motivata disciplina» del clero. Infine Bertone assicura al presidente della Cei che nei «rapporti con le istituzioni politiche» egli avrà la collaborazione e «la rispettosa guida della Santa Sede» e della segreteria di Stato per tutti quegli «affari che, sempre per fini pastorali, debbono essere trattati con i Governi civili». Ciò che il Vaticano s'attende dalla nuova Cei e il bilancio che trae del passato è chiaro: e la discussione sviluppatasi nel consiglio permanente di questi giorni dice che anche fra questi scelti vescovi e arcivescovi c'è il desiderio di riattivare un dialogo interno rimasto a lungo anchilosato.
Il secondo documento è la «nota» sulla famiglia e le leggi sulle unioni di fatto: annunciata a febbraio da Ruini come un testo «vincolante», quello che giunge ora in porto è un testo stratificato, serenamente contorto, attenuato e allargato da sensibilità diverse. Si richiama il monito vaticano del 2002 affinché i politici cattolici non votino mai ciò che «compromette» o «attenua» (quanta politica c'è in un verbo?) «le esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società», ma si riconosce che per le «persone» qualcosa deve essere fatto. Alza un muro contro la «legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso» (che legali lo sono già), ma non cede al linguaggio del disprezzo riservato altrove agli omosessuali. Sulla famiglia accenna a ciò che essa può essere per grazia (una unione stabile, fedele, feconda), ma non accenna né al sacramento né alla indissolubilità quasi a riconoscere, anche a quegli sposi o ex sposi che il rigorismo chiamava concubini, una dignità a lungo negata.
Delle due note, com'è ovvio, è il lato politico che ha eccitato i commenti: ma forse essersene «liberati» a marzo eviterà ai vescovi di perdersi nei meandri dell'iter parlamentare della legge e dei cortocircuiti congressuali dei partiti. Però val la pena di ricordare sempre che questo è un Paese dove, oltre a mille parlamentari, venti ministri e cento sottosegretari, ci sono sette milioni di italiani che vivono il rapporto coi pastori nella messa domenicale. Alcuni li amano altri li sopportano, qualcuno li capisce altri meno: ma tutti si aspettano che i pastori si prendano le loro responsabilità pastorali, dicano a chi vogliono bene (in teoria tutti, ma sarebbe bello sentirselo dire), si dimostrino capaci di educare ad abiti virtuosi da cui verranno anche politici cattolici «coerenti» e vertebrati, testimonino che essi sono consapevoli d'avere il dono d'annunciare il vangelo senza mutilarlo e senza esserne il freno. Un dono contro il quale non c'è legge.

Corriere della sera, 30 marzo 2007

Idem, come sopra!


Il prelato difende il testo sulla famiglia approvato dalla Cei: «Non è “conservatore”, ma autenticamente missionario e segue la traccia impostata dal Papa»
«Il no ai Dico è un impegno per i cattolici» Il vescovo di San Marino, Luigi Negri replica al ministro Bindi: «Surreale dire che la Nota non riguardi la legge sulle coppie»

di Andrea Tornielli

«Mi sembra surreale che si dica che la Nota della Cei non riguarda il disegno di legge dei Dico. È un documento dell’episcopato italiano, non di quello australiano...». Sorride, per sdrammatizzare i toni dopo la polemica scatenata dalle parole del ministro Rosy Bindi, il vescovo di San Marino e Montefeltro Luigi Negri. Il prelato non è tra i membri del Consiglio permanente e ha da poco terminato di leggere la versione definitiva della Nota. «Mi piace sottolineare - spiega al Giornale - anche il modo in cui è formulata, con richiami agli interventi corali dei vescovi in questi mesi. È un documento “fermentato” nella reale comunione tra i vescovi e dei vescovi con il Papa».

La Chiesa con questo testo ha «sepolto» l’autonomia dei laici?

«L’autonomia non può essere invocata sui principi fondamentali che reggono l’appartenenza alla Chiesa. La coscienza del laico non matura in modo individualistico, ma si forma dentro l’appartenenza alla Chiesa. Ed è l’autorità della Chiesa a custodire l’oggettività di questa appartenenza. La Nota della Cei è peraltro in continuità perfetta con la costituzione conciliare Gaudium et spes, che spiega come vi siano principi dai quali non si dà autonomia».

Non c’è il rischio di presentare una Chiesa che impone verità e dimentica la carità?

«La Nota non è “conservatrice” né “aggressiva”, ma autenticamente missionaria e segue la traccia impostata dal Papa al recente convegno di Verona. Questa giustapposizione tra verità e carità, tra fede e amore non è però un appunto emerso dal mondo dei politici cattolici, quanto piuttosto dallo stesso mondo ecclesiale. La fede senza carità è una ideologia, ma la carità senza la fede è solo un buonismo».

Che cosa pensa delle reazioni alla Nota? Alcuni cattolici non si sono sentiti chiamati in causa affermando che non si riferisce ai Dico...

«La Nota afferma che è inaccettabile dal punto di vista dottrinale e sociale una legislazione che riconosca le coppie di fatto e c’è un divieto esplicito per i cattolici ad avallare il riconoscimento delle coppie gay. Sostenere che il documento della Cei non riguardi i Dico mi pare un esercizio di ottimismo indebito. Mi sembra surreale che si possa dare questa interpretazione delle parole impegnative e chiarissime pronunciate dai vescovi: è un documento della Conferenza episcopale italiana, non di quella australiana, dunque penso di poter affermare che si riferisce alla situazione del nostro Paese...».

I cattolici devono sentirsi obbligati a non votare i Dico?

«La Chiesa non obbliga nessuno, ma chiede ai fedeli di fare di tutto per immedesimarsi in queste indicazioni. Il fedele che vuole essere coerente con la sua appartenenza ecclesiale è tenuto ad obbedire a questi pronunciamenti del magistero su valori non negoziabili».

C’è chi dice che la Chiesa si batte contro i Dico, ma che questo non salverà certo la famiglia. Come risponde?

«È importante la preoccupazione educativa che emerge dalla Nota. I Dico sono una misura bassa della vita, le leggi creano una mentalità ed è come se si prospettasse ai giovani di avere tutto e subito senza una piena responsabilità. I vescovi non sono spinti da motivazioni politiche, ma dalla grande preoccupazione per la tenuta del tessuto sociale del nostro Paese. La società viene assalita nel suo fattore costitutivo, genetico, che è la famiglia».

È cambiato il presidente della Cei. Cambierà anche la linea «politica» dell’episcopato italiano?

«Mi sembra che la prolusione dell’arcivescovo Bagnasco abbia indicato con sufficiente chiarezza la sostanziale continuità con il prezioso lavoro svolto in questi anni dal cardinale Ruini. Le linee guida sono quelle espresse da Benedetto XVI, al quale la nostra Conferenza episcopale è legata in modo speciale, in quanto il Papa è anche primate d’Italia».

Il Giornale, 30 marzo 2007


MONS FORTE: LA NOTA CEI NON HA FINALITA' POLITICHE (TG1)
"Vogliamo annunciare il bene della famiglia"

Roma, 29 mar. (APCom) - La nota della Cei sui Dico "non ha finalità politiche": lo ribadisce monsignor Bruno Forte, vescovo di Chiesti-Vasto, intervistato dal Tg1.

"Ci rivolgiamo ai credenti perché esprimano nel loro impegno storico la visione cristiana dell'uomo ma anche ai non credenti per offrire ragioni valide e condivisibili al servizio dell'uomo", spiega Forte, uno dei membri del Consiglio permanente che ha stilato la nota. "La nota non è contro nessuno né ha finalità politiche", aggiunge Forte. La Cei, spiega il vescovo, vuole "annunciare il bene della famiglia" e rifiutare "quella legalizzazione di unioni di fatto che in qualche modo le equipari al fatto matrimoniale".


Sempre con riferimento alle polemiche fra cattolici cosiddetti democratici, cattolici papisti, ratzingeriani, martiniani, dossettiani, vorrei leggere con voi questo articolo:


A Bologna si sono confrontate diverse idee ecclesiastiche: quella di Ratzinger e di Bertone e quella del cattolicesimo conciliare
«Il valore della vita» o «le scelte laiche» Le due Chiese al funerale di Andreatta

Il messaggio di Caffarra e l'omelia del cardinale Silvestrini

Aldo Cazzullo


BOLOGNA — Un funerale senza fotografi e senza applausi — solo musica sacra, interrotta dalle trombe degli onori militari che lasciano sbigottiti i celebranti —. Con il presidente del Consiglio e i suoi due vice. E con le due Chiese.
La Chiesa oggi egemone nella cultura e nelle istituzioni ecclesiastiche, di Wojtyla e di Ratzinger, di Ruini, Bertone e Bagnasco, la Chiesa che ha appena richiamato i politici cattolici all'obbedienza e che a Bologna ha uno dei suoi prìncipi, il cardinale Carlo Caffarra. E il mondo cattolico che alle gerarchie riconosce il primato della dottrina e della tradizione, ma coltiva nella vita pubblica sensibilità diverse e rivendica l'autonomia della politica. Non casualmente, due sono state le omelie per Nino Andreatta.
La prima, l'introduzione alla messa che Caffarra (impegnato a Roma con la Cei) ha affidato al vescovo ausiliare Ernesto Vecchi, parla di bioetica e insiste sul lungo sonno di Andreatta in ospedale e sul valore morale della scelta della famiglia; «una lezione esemplare, che ci ha insegnato, sul campo dell'esperienza consumata e contro il benpensare corrente, che la vita è sempre e comunque degna di essere vissuta, anche nelle condizioni più estreme di precarietà; e che pure un solo palpito o respiro, fosse pure inconsapevole, solo che lo accogliamo come un dono è sempre fonte di serenità e di cristiana speranza».
La seconda omelia — quella vera e propria — è del porporato più vicino ai familiari, che è anche il simbolo del cattolicesimo conciliare e montiniano, il cardinale Achille Silvestrini. Anche lui affronta i sette anni di silenzio di Andreatta, scegliendo però un altro approccio, rimarcando «l'amore costante e paziente del coniuge e dei figli». Ma al centro della sua omelia c'è la figura pubblica dell'ex ministro. Silvestrini cita tre antecedenti: Aldo Moro, indicato come il demiurgo del suo percorso politico; Giorgio La Pira e la «Chiesa della povera gente»; Giuseppe Dossetti e la vocazione ad «applicare criteri teologici alla politica, fidando in Dio prima che negli uomini, nella grazia prima che nelle opere», però badando a separare le due sfere; a «evitare, come diceva Nino, la sacrilega intenzione di coinvolgere Dio nelle proprie scelte, e l'opportunismo che pure caratterizza numerosi cristiani».
Silvestrini ha cioè espresso dall'altare concetti analoghi a quelli che don Gianni Baget Bozzo ha scritto ieri sul
Foglio; capovolgendo però il giudizio di valore. Entrambi gli uomini di Chiesa avanzano le stesse osservazioni sul rapporto tra fede e politica; ma ciò che per l'uno è luce per l'altro è ombra. Sospeso, ma implicito, anche l'opposto giudizio sulla fine della Dc e sulla stagione del berlusconismo.
Di Forza Italia non è venuto nessuno, almeno di livello nazionale. Gustavo Selva, cattolico di An. Pier Ferdinando Casini era nel terzo banco, più indietro Guazzaloca. Diessini: Fassino, Visco, Cofferati nel primo banco con fascia tricolore. D'Alema e Rutelli, fianco a fianco nel secondo banco. Subito dietro, Amato. Padoa-Schioppa, con gli occhi rossi. Ma la grande maggioranza dei politici erano uomini della sinistra democristiana. A cominciare da Arturo Parisi, cui è affidato il ministero che nel primo governo Prodi era di Andreatta, la Difesa, ed è andato a prendere il suo maestro nella camera ardente allestita nella caserma sui viali, per poi accompagnarlo in San Domenico. Romano Prodi, sua moglie Flavia, anche lei allieva di Andreatta, suo fratello Paolo. A Enrico Letta, commosso, la famiglia ha affidato la prima lettura, dal libro di Isaia («siate coraggiosi...»). Emilio Colombo, doroteo che oggi sostiene il governo. Gli ultimi tre segretari del Partito popolare: Gerardo Bianco, Marini ora presidente del Senato, Castagnetti. Il sottosegretario Naccarato, anche in rappresentanza di Cossiga. Leopoldo Elia, curvo e lucidissimo. Rosy Bindi. Il ministro dell'Agricoltura De Castro e il garante per la privacy Pizzetti. Pinza, Soro, Bodrato, Mattarella.
Nell'altra fila di banchi, la famiglia — a ciglio asciutto «come avrebbe voluto papà» — e gli amici più stretti. La signora Giana segue la liturgia accanto a Tomaso, il primogenito (impressionante la somiglianza con il padre), ed esce sottobraccio a Filippo, che del padre ha gli occhi. Si tengono sottobraccio le due figlie Erica ed Eleonora, che il padre chiamava Tinny come la principessa indiana. Giovanni Bazoli è con i figli e il genero Gregorio Gitti. Altri eredi di Andreatta: economisti dell'università, del Mulino, dell'Arel, di Prometeia. Molti soldati, e molti preti, a ricordare che la Chiesa, per quanto oggi appaia politicamente divisa, è in realtà una sola, e nella basilica che custodisce l'arca di San Domenico si è riunita dietro la bara di Andreatta. Silvestrini l'ha potuto definire «grande fratello» senza che nessuno facesse riferimenti letterari o televisivi. Ha anche detto che «pare quasi di sentirlo, il germogliare dei semi di giustizia che Nino ha seminato». Il professor Martinelli, il rianimatore del Sant'Orsola che accanto ai familiari ha vegliato il sonno di Andreatta, dice in due parole cos'è accaduto: «Nessun accanimento terapeutico; nessun abbandono». Solo «l'abbandono in Dio», ha detto Silvestrini.

Corriere della sera, 30 marzo 2007

Non esistono due Chiese come non possono esistere due Papi, caro Cazzullo! La Chiesa e' una, come uno e' il corpo mistico di Cristo, o sbaglio?
Attenzione a queste semplificazioni che rischiano di mettere il cattolicesimo democratico ai limiti della comunita' ecclesiale.
Se intuisco bene, secondo Cazzullo, la Chiesa di Ratzinger (che poi e' la Chiesa di Cristo e non del Papa) non e' conciliare?
Permettetemi, poi, di fare una mia personale riflessione.
In questo articolo il messaggio del cardinale Caffarra viene contrapposto all'omelia di Silvestrini. Autogol! Mi pare che l'arcivescovo di Bologna ribadisca la dottrina cattolica, punti l'accento sulla dignita' della persona e della vita che e' tale fino all'ultimo respiro.
Un discorso, quindi, teologico, pastorale e compassionevole.
E l'omelia di Silvestrini? Non e' forse incentrata sul lato politico della vita di Andreatta? Si citano Moro, Dossetti...
Mi chiedo: chi si occupa di politica e presta il fianco ad interpretazioni di parte? Caffarra o Silvestrini?
A voi il giudizio...

Raffaella

Rassegna stampa del 30 marzo 2007


Anche oggi valanghe di articoli sui DICO e la nota della CEI. Faro' una cernita fra i vari giornali al fine di non annoiarvi con le solite, ormai scontate, riflessioni. In un successivo post verranno pubblicati gli editoriali di Melloni ed Alberigo.
Seguira' anche uno speciale sull'inferno.
Mi dispiace moltissimo che nessun quotidiano si sia sentito in dovere di scrivere mezzo articolo sulla celebrazione penitenziale di ieri sera.
Evidentemente 20mila giovani della diocesi di Roma, desiderosi di incontrare ed ascoltare il Papa, non fanno notizia...
Che strano! Eppure altre manifestazioni, che hanno raccolto piu' o meno lo stesso numero di partecipanti, si sono aggiudicate per giorni pagine e pagine di carta stampata.

Raffaella


Il ministro dell'Interno: no a impostazioni unilaterali, da società islamizzate. Critiche di Boselli a Quercia e Dl: silenzio assordante su una vera ingerenza

Dico, critiche ai vescovi da Amato e Fassino
Il segretario diessino: la Nota va oltre il giusto. Monsignor Anfossi: da noi nessuna pressione indebita

ROMA — Monsignor Giuseppe Anfossi, presidente della Commissione Cei per la famiglia, ha spiegato alla Radio Vaticana che il documento dei vescovi sui Dico non intendeva «fare pressioni indebite» sui parlamentari. Ma il mondo politico è rimasto colpito dalla dura presa di posizione della Conferenza episcopale, ribadita ieri dal Sir, l'agenzia ufficiale della Cei, che ha chiesto ai politici cattolici di essere coerenti e di «abbandonare i sofismi». Tanto che aperte critiche alla «Nota» sono arrivate dal leader dei Ds, Piero Fassino, e dal ministro dell'Interno Giuliano Amato. Fassino, pur con un linguaggio prudente, ospite di La Storia siamo noi,
il programma di Giovanni Minoli, ha preso le distanze dalla Nota sostenendo che «è interessante, ma su questo punto va al di là del giusto». Il "punto" in questione è quello del monito ai politici cattolici sulla proposta di legge sui Dico. Amato, appellandosi al filosofo cristiano Maritain, ha addirittura evocato il rischio di islamizzazione della nostra società invitando a realizzare il bene comune tenendo conto di tutte le visioni presenti nel dibattito pubblico, senza imporne unilateralmente una: «perché questo appunto è ciò che viene fatto nelle società che noi critichiamo in quanto islamizzate».
Ad alzo zero i «laici» doc come Enrico Boselli dello Sdi che ha puntato l'indice contro «il silenzio assordante» di Fassino e Rutelli pur in presenza di «una ingerenza vera e propria visto che i vescovi invitano a non votare un disegno di legge del governo». Boselli se l'è presa anche con il Tg1 accusato di essere l'house organ
del nascente Partito democratico che taglia fuori i laici. Contro la Nota Cei anche la rivista
Micromega.
I cattolici della Casa delle Libertà, hanno nuovamente sollecitato quelli del centrosinistra a seguire l'indicazione alla «coerenza» venuta dai vescovi. «La Nota della Cei è vincolante per i politici cattolici — ha dichiarato il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni — lo dice la Nota stessa; l'autonomia di un politico che vuole essere cattolico è ovviamente all'interno della fede che egli dice di professare». Sulla stessa lunghezza i teodem della Margherita e quelli dell'Udeur. Mentre secondo Francesco Cossiga «i «cattolici democratici» sono rimasti delusi dopo aver interpretato la sostituzione di Ruini con Bagnasco come un ammorbidimento di linea.
Quanto al Family day Fassino ha giudicato inopportuna la presenza alla manifestazione dei big politici per evitare «di sovrapporre la nostra immagine».
Ma a differenza del vicepremier Rutelli, che nei giorni scorsi si è più volte espresso contro la presenza in piazza dei ministri Fioroni e Mastella, il segretario ds ha detto che «non c'è nessun problema» se a piazza san Giovanni ci andranno dei rappresentanti del governo.

Corriere della sera, 30 marzo 2007

Trovo gravissimo e pericoloso che un ministro della Repubblica faccia certe affermazioni...
Pensiamo piuttosto a fare il possibile per liberare l'interprete di Mastrogiacomo!



“Anche i politici hanno libertà di coscienza”

«La nota della Cei è una parola chiara e doverosa sul valore sacrale della famiglia, però adesso noi vescovi dobbiamo lasciare la decisione alla coscienza dei singoli parlamentari». Il vescovo di Gubbio Mario Ceccobelli, ex vicario diocesano di Perugia, non ci sta a veder negata l’autonomia dei politici cattolici.
Eppure la nota stabilisce che il cattolico non può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica.
«L’ultima istanza resta sempre la coscienza. La Chiesa non può avere nessun altro tipo di costrizione che fare appello alla coscienza dei singoli. Non possiamo mica mandare l’esercito per far rispettare le nostre indicazioni sui valori. Possiamo solo insegnare, fare appello alla coscienza e ribadire la legge scritta in ogni essere umano. Però, senza forme impositive. Se un politico agisce contro i valori che noi predichiamo, è la sua coscienza che deve farlo sentire in contraddizione, non un’imposizione o una prescrizione. Quello che viene presentato come un pronunciamento contro i Dico è solo un insegnamento autorevole della Chiesa sulla famiglia».
E la comunione ai parlamentari che votano i Dico?
«Non c’è nesso con l’eucarestia. L’eucarestia entra in causa quando il singolo si pone al di fuori della Chiesa con i suoi comportamenti, ma non è il caso dei Dico. E non non sarò certo io vescovo ad escludere qualcuno dalla comunione. Sarebbe una sconfitta se la Chiesa rinunciasse alla sua missione materna di educazione e formazione cristiana delle coscienze. Noi vescovi non condanniamo, ma come maestri della fede ricordiamo i contenuti della legge naturale. La famiglia è fondata sul matrimonio, che sia religioso per i credenti o civile per i non credenti, come dice la Costituzione. E’ un principio laico».
E i conviventi?
«Le convivenze sono un fatto reale, un dato di realtà e lo Stato può certamente tutelarle attraverso il codice civile, senza creare un modello di unione alternativo al matrimonio. Come vescovo mi preoccupo del messaggio: da una parte il matrimonio con diritti e doveri, dall’altra la convivenza con soli diritti. Ovvio che i giovani preferiscano la scorciatoia alla via maestra. Però condannare non serve. Sia per il parlamentare cattolico che vota i Dico, sia per chi sceglie di convivere invece che sposarsi alla fine conta la coscienza».
Senza divieti?
«Io parto dal richiamo ai valori cristiani fatto dal Concilio Vaticano II. Per questo preferisco occuparmi di formare ed educare alla fede le coscienze. Il mio metro è il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa. Oggi c’è bisogno di educazione, non di prescrizioni. A me interessa insegnare, seminare la parola di Dio, i cui tempi di maturazione variano da caso a caso. Poi sta al singolo cattolico impegnato in politica ascoltare o non ascoltare. Certo se non si ascolta la voce della Chiesa poi si fa fatica a dirsi cristiano».
Come si comporterà ora che è stata emesse la nota Cei?
«Intanto io faccio la mia parte e spero che l’insegnamento sia raccolto e dia frutto. Chi semina non pretende il raccolto ma spera di ottenerlo. A me interessa che nel formarsi un libero convincimento sui Dico i parlamentari cattolici tengano presente la pluralità di significati religiosi e laici della famiglia. E il mio compito non è metterli fuori dalla Chiesa o obbligarli ad ubbidire ma aiutarli a scegliere responsabilmente, nell’interesse del bene comune».

La Stampa, 30 marzo 2007


“A chi vota sì non darò più la comunione”

«Se un comportamento contrario al Vangelo è risaputo, se tutti conoscono l’azione di un parlamentare contro la sacralità della famiglia, dargli la comunione diventa un vero scandalo». L’arcivescovo metropolita dell’Aquila, Giuseppe Molinari, membro della commissione episcopale per l’Evangelizzazione, avrebbe voluto che nella nota Cei fosse riportata la restrizione all’accesso ai sacramenti (contenuta nei documenti di Joseph Ratzinger) per i legislatori che «vanno contro i valori fondamentali della natura umana», come il rispetto della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. «Votare i Dico ha chiaramente un “nesso obiettivo con l’Eucarestia”, per usare le parole dei pronunciamenti dell’ex Sant’Uffizio e dell’esortazione post-sinodale “Sacramentum caritatis”».
Niente comunione ai parlamentari che equiparano per legge le unioni di fatto alla famiglia?
«Se io sacerdote so che quel parlamentare si dice cattolico, ma nella sua azione politica si comporta in un modo che è del tutto opposto al Vangelo, allora faccio bene a non dargli la comunione. Se non gliela negassi, l’eucarestia verrebbe tramutata in ostentazione e avallo dell’errore. Il cattolico realmente “adulto” è quello che segue l’insegnamento del Vangelo, della Chiesa e dei vescovi. Appellarsi all’autonomia di coscienza basata su una fede “fai da te” è un’inaccettabile incoerenza. Se non è indirizzata dal Magistero la coscienza del legislatore diventa erronea e lo conduce sulla strada sbagliata. Occorre ripartire dal nesso con l’Eucarestia ribadito dal Papa nel suo ultimo documento. La nota Cei è molto dialogante, fin dove è possibile. L’esortazione papale è più netta ed esplicita».
Cioè?
«Afferma la coerenza eucaristica. Come fa un parlamentare cattolico a calpestare la sacralità della famiglia, poi ad avvicinarsi ai sacramenti e fare la comunione? Il sinodo sull’Eucarestia è il frutto dell’enorme lavoro degli ultimi due papi e dei padri sinodali. Ne scaturisce la coerenza tra eucarestia e comportamenti concreti. Ricevere la comunione significa accettare nella propria vita l’insegnamento morale e dottrinario di Cristo. Non si può prescindere da ciò. E’ una incoerenza tremenda fare la comunione rifiutando ciò che Gesù ha insegnato. Chi vota la legge sui Dico, poi non può fare finta di niente in Chiesa. Noi vescovi siamo tenuti a richiamare il nesso tra testimonianza dei valori ed eucarestia. Abbiamo questa responsabilità nei confronti dei politici cattolici. Operare ai danni della famiglia e dirsi cristiano è il colmo dell’incoerenza e della contraddizione».
Una Chiesa anti-moderna?
«Se si chiede alla Chiesa di adeguarsi al mondo moderno, la si condanna a non avere più niente da dire e a smettere di essere il sale della terra. Oggi difendere la sacralità della famiglia significa andare controcorrente per richiamare i valori autentici. Se il parlamentare sbandiera di ispirarsi al Vangelo, al cristianesimo, allora deve ubbidire al Magistero nella sua azione politica. Se segue il pensiero e il comportamento correnti che cristiano è? Finché si tratta, per esempio, della nazionalizzazione dell’energia elettrica uno può avere tutte le idee che vuole, ma se è in ballo il rispetto dei principi etici fondamentali non si può chiamare in causa il pluralismo. Il politico che vota i Dico deve confessarsi proprio per questo nesso tra azione del legislatore e pratica religiosa. Una fede a proprio comodo è un controsenso: la verità non si decide a maggioranza».

La Stampa, 30 marzo 2007