20 agosto 2007

Chiesa e tasse: il commento di Messori e Del Debbio


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SE CESARE SUPERA LA MISURA

di VITTORIO MESSORI

Prima che dai principii val forse meglio partire dall'esperienza. Se sto alla mia, so di non violare privacy ricordando quanto ho visto praticare sovente da parroci, da religiosi, da suore. E non soltanto in Italia ma, ad esempio in Francia e in Spagna, da economi di istituti e da rettori di santuari. E ho qualche ragione per credere che la prassi non valga solo per i Paesi latini.
Spesso, cioè, ho constatato che — dovendo regolare conti con muratori, artigiani, fornitori vari — uomini (e donne) di Chiesa non si comportano diversamente dal cittadino comune. Dunque, per quanto possibile, praticano un principio di «legittima difesa», ricorrendo a sistemi che non sottopongano tutto l'importo a tutta la tassazione prevista. Non, intendiamoci, con metodi truffaldini, da professionisti dell'evasione, ma limitandosi alla forma più semplice: il pagamento in contanti di parte di quanto dovuto o una fatturazione inferiore al reale.
Ora: la vita spirituale di ciascuno è inviolabile, ma oso pensare che nessuno di quegli amministratori ecclesiali aggiunga le elusioni fiscali alla lista dei peccati di cui accusarsi nelle periodiche confessioni. Una supposizione, la mia, che si fonda anche sul fatto che nessun confessore mi ha mai chiesto conto del comportamento quanto a tasse, imposte, tributi.
Malcostume clericale, mancanza di senso civico in preti e suore che non solo non predicano dal pulpito l'obbligo morale di pagare le tasse sino all'ultimo cent (come depreca il «cattolico adulto» Prodi) ma cercano essi stessi di sfuggire almeno un poco alla pressione fiscale? Ma no: semplicemente, come si diceva, un istinto di «legittima difesa». Non a caso l'aggettivo usato dal cardinal Bertone riferendosi alle imposte meritevoli di essere pagate è «giuste». Così come di «giusti tributi» parla il Nuovo Catechismo cattolico e di «giustizia» nel carico fiscale parlano tutti i trattati di morale.
In effetti, è scontato ricordare che norma basilare del cristiano è il «dare a Cesare quel che è di Cesare»; e il Segretario di Stato non poteva non citarlo. Ma, per usare giustappunto il latino della Chiesa, est modus in rebus: che fare se Cesare supera, e di molto, il modus, cioè la misura? L'Ancien Régime dava poco ma chiedeva anche poco, la tassazione era per lo più irrisoria se confrontata a quanto sarebbe poi avvenuto. È, nella teoria, con i dottrinari illuministi e poi, nella pratica, con giacobini e girondini rivoluzionari, che lo Stato si fa «etico», si fa «sociale», si fa «totalitario», assume per sé tutti i diritti e tutti i poteri, affermando che farà fronte a tutti i doveri e a tutte le necessità. Nascono e si sviluppano sino all'ipertrofia le burocrazie, si creano smisurati eserciti permanenti, si confiscano i beni con cui la Chiesa e i corpi sociali intermedi facevano fronte alle esigenze sociali, basandosi non sul torchio dell'esattore ma sulla volontarietà dell'elemosina. Cesare, insomma, pretende sempre di più, sino a casi come quello italiano dove ogni anno, sino a fine luglio, il cittadino lavora per uno Stato di fantasia inesauribile quanto a tasse e balzelli diretti e indiretti e — bontà sua — lascia al suddito il reddito di cinque mesi su dodici del suo lavoro. Siamo in chiaro contrasto, dunque, con la «giustizia » chiesta dalla Chiesa, i cui moralisti — quelli moderni, non quelli antichi che si accontentavano delle «decime» — giudicano, in maggioranza, equa una tassazione che, nei casi più severi, non superi un terzo del reddito. Non sorprende, dunque, che anche in gente di Chiesa scatti un istinto di autodifesa, un bisogno di equità davanti a uno Stato che sembra configurarsi non come un padre ma come un padrone e un predone.
Dopo avere detto che è «dovere del cittadino pagare le tasse» ma «secondo leggi giuste» (e tali spesso non sono, secondo il giudizio comune), il cardinal Bertone ha aggiunto che lo Stato ha il dovere «di destinare i proventi di esse ad opere giuste e all'aiuto ai più poveri e ai più deboli». E qui c'è tutto lo spazio per un'ironia amara, tutti sapendo in quali «opere» siano dissipate somme enormi prelevate dai redditi di chi lavora. Tutti sanno, ad esempio, che stando alle impietose statistiche, buona parte delle «istituzioni sociali» statali hanno sì un fine assistenziale: ma, in massima parte, a favore delle burocrazie che le gestiscono. Tutti sanno — o almeno intuiscono — che sprechi, ruberie, privilegi, demagogie, incurie inghiottono tanta parte non del «tesoretto» casuale ma dell'immenso, sempre rinnovato «tesoro» fiscale.
Giustizia, dunque, nel prelievo ed impiego virtuoso di esso: queste le basi della prospettiva cattolica a proposito di tributi. Basi che sono ben lontane dall'essere rispettate. Per cui non sembra ingiustificato il commento di Rocco Buttiglione: «Non pagare le tasse è una colpa. Indurre i cittadini nella tentazione di non pagare, pretendendo tributi esosi ed ingiustificabili, è colpa ancora più grave».

© Copyright Corriere della sera, 20 agosto 2007


LA LEZIONE DI SAGGEZZA DEI PADRI DELLA CHIESA

di Paolo Del Debbio

«Tutti devono pagare le tasse» perché «è un nostro dovere che va osservato secondo leggi giuste». Lo ha detto ieri il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. C'è chi vi ha visto la benedizione della rivolta fiscale. C'è chi vi ha visto la benedizione del governo Prodi che di tasse se ne intende.

Non vogliamo partecipare al tiro della talare. Il cardinale, se lo vorrà fare, si spiegherà da solo. Vorremmo scrivere qualcosa su quello che ha detto Bertone facendo parlare qualche testo di teologi che si sono occupati di tasse e che, certamente, appartengono alla biblioteca del segretario di Stato. Dire che le tasse vanno pagate secondo leggi giuste vuol dire che il metro di misura per valutare se le tasse sono giuste o no non sono le leggi finanziarie ma un criterio di giustizia che non è nelle mani del governo. Insomma non è il governo che decide se le tasse da lui stesso imposte sono giuste o no.

E allora chi lo stabilisce? Se ne occuparono tra il 1350 e il 1500 filosofi e teologi appartenenti alla Scuola di Salamanca. Per loro il governo può legittimamente appropriarsi dei beni della gente sotto forma di tasse. Ma, stabilito questo, stabilirono anche quando una legge che impone le tasse possa dirsi giusta perché, come diceva sant'Agostino «quella che non è giusta non sembra affatto una legge». San Tommaso sosteneva che le leggi ingiuste impongono «pesi alla comunità in modo ineguale, sebbene in vista del bene comune». Proseguiva San Tommaso: «Atti simili sono atti di violenza piuttosto che leggi».

Secondo alcuni di questi salmaticensi (ad esempio Henrique de Villalobos, Pedro de Navarra, Juan de Mariana, Pedro Fernández de Navarrete, Domingo de Soto) per essere giusta una legge tributaria deve rispondere ad alcuni requisiti: ce n'è bisogno (c'è una necessità di nuove tasse)?, è opportuna (è il momento appropriato per imporla)?, la forma è quella giusta (le tasse imposte sono proporzionate)?, il livello è equo (sono moderate o eccessive)?

Sentite cosa scrive Villalobos: «I consiglieri del re debbono capire che le tasse indeboliscono le città e impoveriscono gli agricoltori in grave misura. È possibile vedere luoghi che ieri prosperavano e avevano molti abitanti giacere ora prostrati e incolti perché gli agricoltori non possono far fronte alle alte tasse». Sembrano parole scritte per la piccola e media impresa italiana o per le famiglie italiane dopo la cura Prodi-Visco. Secondo Pedro de Navarra, poi, quando le tasse sono tiranniche «in casi di estrema necessità il popolo non è, in coscienza, obbligato a pagare».

Prodi strigliò i parroci che non parlano nelle prediche dell'evasione fiscale. Si vantò con Visco di avere messo paura ai contribuenti italiani. Navarrete sosteneva che «il solo paese piacevole è quello in cui nessuno teme gli esattori». Certamente non l'Italia.

© Copyright Il Giornale, 20 agosto 2007

3 commenti:

Francesco ha detto...

Sinceramente penso che se tutti pagassero le proprie tasse, il fisco sarebbe più giusto. Allora il problema è: "il fisco è ingiusto e quindi non paghiamo" oppure "alcuni di noi (i più danarosi, in genere) non pagano e quindi il fisco è ingiusto?" Ritengo che il problema sia tutto qui.

Anonimo ha detto...

Giusta affermazione (don?) Francesco! Purtroppo, ho sperimentato di persona cosa significhi pagare tutte le tasse: lavorare più di 15 ore al giorno - anche durante certe festività - e con infinite preoccupazioni…, per poi trovarsi a fine anno con un 30% di quanto hai dichiarato! Ma non solo, vivere sempre con il terrore che arrivi la Guardia di Finanza per la quale ogni imprenditore - anche se onesto contribuente – è sempre un presunto evasore e come tale va trattato, ragion per cui ti ritrovi magari a sborsare ulteriori somme, rimettendoci anche quello che hai onestamente guadagnato!!! Bella soddisfazione vero?!? Finché non sarà capovolto questo perverso presupposto e si partirà dal concetto che il cittadino è una persona onesta – salvo prova contraria – credo non potremo mai sperare in un fisco giusto ed equo!!!

Anonimo ha detto...

Vegas: la tregua fiscale è solo un bluff"
Questo il titolo dell'intervista rilasciata dall'ex viceministro per l'economia al nostro quotidiano on line: www.loccidentale.it

Invitiamo lettori e curatori di questo blog a leggere (e magari commentare) l'articolo, in quanto l'esponente di FI ha espresso posizioni interessanti anche sul tema "Chiesa e fisco".

La Redazione