30 settembre 2007

Riflessioni del filosofo Severino su alcuni discorsi del Papa contro il capitalismo senz'anima


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IL PAPA E IL PROFITTO

I PARADOSSI DELL'ECONOMIA CRISTIANA

di EMANUELE SEVERINO

«Il profitto è naturalmente legittimo nella giusta misura, è necessario allo sviluppo economico; ma il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica». Lo ha detto qualche giorno fa Benedetto XVI. Qualcuno potrebbe obiettare che se il profitto, cioè lo scopo dell'agire capitalistico, «è necessario allo sviluppo economico », non si vede perché si debbano indicare altri modelli validi, auspicandone l'attuazione. Ma sarebbe un'obiezione fuori luogo. Il Pontefice trae infatti una conseguenza del tutto corretta, servendosi di una logica su cui vado richiamando l'attenzione da decenni.
Lo scopo di un'azione è l'essenza stessa di tale azione. Già Aristotele lo affermava.
Quindi se un'azione cambia il proprio scopo, l'azione stessa cambia e solo in apparenza può sembrare la stessa. Il mangiare quando si mangia per vivere è diverso dal mangiare quando si vive per mangiare. Lo stesso si dica del vivere.
Il capitalismo è un agire complesso che però, in ogni sua intrapresa, ha come scopo il profitto, non l'amore del prossimo. Da tempo la Chiesa, pur riconoscendo che «il profitto è naturalmente legittimo », lo condanna quando e in quanto esso voglia essere lo scopo della organizzazione economica. Il profitto è «legittimo» se si mantiene «nella giusta misura»: non come scopo di tale organizzazione ma come mezzo con cui questa realizza lo scopo legittimo, ossia il «bene comune». Un mezzo per realizzare la carità cristiana, l'amore del prossimo.
Ma prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il «bene comune» cristianamente inteso, la Chiesa gli prescrive di assumere uno scopo diverso da quello che costituisce l'essenza stessa del capitalismo, ossia di diventare qualcosa di diverso da ciò che esso è. Come ho sempre detto, lo invita ad andare all'altro mondo. Lo stesso invito del comunismo (diversamente motivato). In proposito, i critici, soprattutto di parte cattolica, non mi sono mai mancati. Ma, ora, le surriferite espressioni di Benedetto XVI mi danno ragione.
Infatti, se il capitalismo nella «giusta misura» assume come scopo non più il profitto ma il «bene comune», allora il capitalismo, dice il pontefice, «è necessario allo sviluppo economico» ma è anche diventato un diverso «modello di organizzazione», che, chiosiamo, del capitalismo e del profitto conserva soltanto il nome — come del «vivere» (e del «mangiare») si conserva soltanto il nome quando, invece di vivere per mangiare, si mangia per vivere. E questo diverso modello è qualcosa di «valido», pretende di essere valido oltre alla validità che il capitalismo attribuisce a se stesso. Giusto dire, quindi, che il capitalismo non è l'unico modello valido. Qualcosa, però, è da chiarire. Il capitalismo non va considerato «come l'unico modello valido». Ma — osservo — il capitalismo che la Chiesa riconosce «valido» e «necessario allo sviluppo economico» non può essere quello che assume come scopo il profitto (e che poi è il capitalismo vero e proprio), bensì quello che assume come scopo il «bene comune» e che appunto per questo è un diverso «modello». A quale altro capitalismo «valido» si riferisce allora il pontefice, quando afferma che «il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido»? L'impostazione del suo discorso, cioè, non avrebbe dovuto fargli dir questo, ma fargli concludere che l'unico «modello valido» è quello «necessario allo sviluppo economico» che è necessario solo in quanto ha come scopo il «bene comune». È l'economia cristiana. (Anche l'unica scienza valida è quella cristiana — come il pontefice ha affermato).
Quella conclusione sarebbe stata, certo, molto cruda. Ma non era molto più cruda la sua esortazione, fatta ai politici cattolici il giorno prima, a «far sì che non si diffondano nè si rafforzino le ideologie che possono oscurare e confondere le coscienze, e veicolare una illusoria visione della verità e del bene »? Se il pontefice ritiene (e mi risulta che lo ritenga) che il mio discorso filosofico sia una di quelle «ideologie» e se i cattolici obbedienti alla Chiesa avessero la maggioranza nel Paese, io dovrei smettere di farmi sentire. Poco male. Molto importante invece che, se quella maggioranza si costituisse, anche la libertà di opinione e di parola andrebbe all'altro mondo. Fine anche della democrazia.
Fine di qualcosa, tuttavia, che la Chiesa non intende far finire. Ma si tratta di un'intenzione analoga a quella di non voler far finire il capitalismo ma solo il capitalismo che non si mantiene «nella giusta misura». Anche riguardo alla democrazia il pontefice potrebbe infatti dire che la libertà «è naturalmente legittima nella giusta misura» ed «è necessaria allo sviluppo» politico (dove però la giusta misura è data da una libertà non separata dalla verità cristianamente intesa). Sì che l'unico modello valido di organizzazione politica è la democrazia che non assume come scopo la libertà senza la verità cristiana ma quella il cui scopo è l'unione di libertà e di tale verità (dove il profitto non avente come scopo il «bene comune» sta alla libertà senza verità, così come il profitto avente quello scopo sta alla libertà unita alla verità).
Quanto ho detto non ha in alcun modo l'intento di sostenere che, poiché capitalismo e democrazia sono intoccabili, dunque la Chiesa ha torto. Ha l'intento di mostrare la conflittualità tra le forze che oggi guidano il mondo occidentale e che non sussiste soltanto tra Chiesa e capitalismo o democrazia, ma anche tra capitalismo e democrazia, tra società ricche e l'Islam (che ormai si è posto alla testa di quelle povere), e soprattutto tra tutte queste forze da un lato, e dall'altro quella che è destinata a dominarle tutte: la tecnica. Solo partendo da questo tema si può evitare che le discussioni di questi giorni sull'«antipolitica» abbiano a nascondere il senso autentico della «crisi della politica» — che è crisi di tutte quelle forze e dei loro conflitti.

© Copyright Corriere della sera, 30 settembre 2007

Sara' l'influenza ma non ho capito il punto...
R.

APPELLO DEL PAPA PER IL POPOLO BIRMANO: VIDEO DI SKY

VIDEO DI SKYTG24

Messa tridentina, Enzo Bianchi: la Messa antica era un monumento della fede


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Benedetto latinorum

Tutti andavano in chiesa convinti di credere in Dio salvo qualche «comunista»

“La messa antica era un monumento della fede ma non provo nostalgia: solo pochi capivano”

Enzo Bianchi

Nell’anamnesi del «tempo di un tempo» da me intrapresa nei mesi scorsi non può mancare una rilettura sulla vita cristiana come era vissuta fino agli anni sessanta nei paesi del Monferrato e delle Langhe. Inoltre, la recente liberalizzazione della antica messa - detta di san Pio V - da parte di Benedetto XVI mi ha riportato più volte al mio vissuto nell’infanzia, nell’adolescenza e nella giovinezza, dato che la riforma liturgica del Vaticano II è stata attuata quando ormai avevo quasi trent’anni. Tutta la mia formazione cristiana, spirituale e teologica era avvenuta prima del concilio e questo evento dello Spirito ha accompagnato i mutamenti non solo della vita ecclesiale, ma anche della mia vita interiore più profonda. Ripeto sovente ai più giovani che io a vent’anni ero un cattolico post-tridentino «doc» nella fede, nella morale, nell’impegno che allora non si diceva «ecclesiale» bensì di «apostolato». Del resto, abitavo di fronte alla chiesa e quindi il parroco mi chiamava regolarmente quando c’era bisogno per le messe, i vespri, i funerali, le «cerimonie» per benedire i temporali e scongiurare la grandine... A sette anni mi fu insegnato il latino e questo mi permetteva di recitare sovente il breviario con il parroco o con i preti che venivano a predicare alla domenica: i frati passionisti, che arrivavano in bicicletta dal santuario delle Rocche e dei quali si raccontavano le eroiche penitenze e le flagellazioni nel giorno del venerdì, e i giuseppini di Asti.
A quei tempi si può dire che nei paesi di campagna tutta la vita era innanzitutto vita di una comunità cattolica, nel senso che tutti andavano in chiesa e dicevano convinti di credere in Dio, salvo qualcuno che si diceva «comunista» ma che la gente preferiva chiamare «strano»: non sorprende quindi che la figura centrale fosse quella del parroco. Era lui l’autorità più ascoltata e rispettata del paese: la gente andava da lui per chiedere consigli, soprattutto di morale, ma anche per un parere in merito al matrimonio, in particolare se la futura sposa non era del luogo. Il parroco era dunque il riferimento di tutti, e anche i pochi che gli erano avversi lo rispettavano, pur tenendosene a distanza. Le tensioni, le polemiche dure e a volte anche le lotte avvenivano per esempio quando qualcuno voleva trasformare il «ballo a palchetto», montato per pochi giorni in occasione della festa patronale, in una pista da ballo permanente... Sì, perché allora il ballo era considerato un luogo di perdizione: chi vi andava doveva poi confessarsi e comunque il parroco dal pulpito, con voce a volte minacciosa a volte implorante, non mancava di fustigare i nuovi comportamenti che iniziavano a prendere piede nel dopoguerra, accusandoli di portare alla distruzione della morale, delle famiglie e della fede cristiana.
A quei tempi la domenica era ancora «la domenica»: il week-end era parola e prassi sconosciuta, nessuno andava via per gite o viaggi, ma tutti dalla dispersione delle cascine in campagna e dai luoghi di lavoro cercavano di ritrovarsi, di incontrarsi per «fare due parole» e rinnovare così la conoscenza e l’amicizia. In chiesa entravano solo donne, ragazze e qualche raro anziano devoto e così iniziava la messa cantata con molta convinzione e fervore, anche se quella gente semplice di campagna non capiva né quello che cantava in latino né tanto meno quello che, sempre in latino, diceva il prete.
Il prete, dopo alcune formule recitate ai piedi dell’altare, saliva gli scalini e cominciava a «dire messa», voltandosi solo per qualche «Dominus vobiscum», cui la gente rispondeva «et cum spiritu tuo», ma cosa dicesse il prete negli oremus o cosa leggesse dal messale nessuno lo sapeva o la capiva. Messalini per i fedeli a quell’epoca non ce n’erano, non li avevano nemmeno le suore: quelli famosi del Caronti o del Lefebvre erano merce rarissima e io, conoscendo bene il latino, ero uno dei pochi che poteva seguire ogni parola. Quanto al Vangelo, il prete lo leggeva dapprima in latino sull’altare, con le spalle girate al popolo, poi si voltava e, recatosi alla balaustra, lo leggeva in italiano per la gente: era quello l’unico testo che tutti capivano, seguito dalla predica in cui trovava spazio ogni genere di ammonizione ed esortazione, attinente più alla situazione e alle vicende locali che non al brano appena letto. Al momento dell’offertorio - ero chierichetto sempre presente - il prete mi mandava fuori sulla piazza a chiamare gli uomini perché entrassero a «prendere messa», altrimenti quella non sarebbe stata più «valida» per loro. Così, mentre le donne recitavano il rosario sottovoce e gli uomini continuavano a parlottare, la messa procedeva spedita, con il prete che bisbigliava tutte le formule. Solo al momento dell’elevazione il campanello avvertiva, svegliava e richiamava tutti: mentre il prete innalzava prima l’ostia poi il calice e si genufletteva, il silenzio si faceva totale e assoluto: chi chinava la testa, chi si metteva in ginocchio, tutti vivevano con grande timore il momento culminante di tutta la messa. Prima della comunione del prete - normalmente l’unico a comunicarsi durante la messa - gli uomini uscivano dalla chiesa e riprendevano i loro capannelli, mentre le donne intonavano canti pii e devoti. Era l’ora in cui ciascuno tornava a casa per il pranzo perché ormai «il dovere era stato fatto».
Ma la domenica non finiva a tavola con il pasto abbondante in cui quasi sempre regnava il «bollito»: molti, soprattutto donne, bambini e vecchi tornavano presto in chiesa per i vespri e poi c’era la doverosa visita al cimitero, perché allora si esprimeva soprattutto così l’amore che si provava per i morti. Verso l’imbrunire si rientrava a casa, ci si toglieva «il vestito della festa» e si tornava al vivere quotidiano segnato dal lavoro da mattina a sera.
Che dire oggi di quella messa «antica»? Era senz’altro consona a quel tempo che era davvero il tempo della cristianità e confesso che a me non ha fatto male, anzi, mi ha fornito una robusta spiritualità cristiana. Tuttavia non ne provo nostalgia, anche se è sempre restata per me un inestimabile monumento della fede, e ne vedo anche con lucidità i limiti: solo pochi capivano cos’era la messa, i più ne riempivano il tempo con la recita del rosario o le chiacchiere sul sagrato; le letture bibliche erano scarsissime: un paio di brani dell’Antico Testamento in tutto l’anno, testi quasi unicamente del Vangelo di Matteo e ammonizioni dell’apostolo Paolo. L’unica variante, ma quasi solo «scenografica», erano le messe da morto dei ricchi e dei notabili, nella cosiddetta «prima classe».
Altri tempi, sì. Ma si avvertiva già un’aria di cambiamento: la chiamavano secolarizzazione, e il prete metteva in guardia dalla modernità che avanzava, dai costumi «americani» - in chiesa si parlava addirittura di «americanismo» come eresia cattolica e pericolo incombente! - dal boom economico. L’arguzia dei contadini sapeva però fare dell’ironia. Ricordo mio padre, amicissimo del parroco anche se assolutamente non praticante, che di fronte all’ennesima predica del parroco contro il consumismo dilagante, gli disse: «Ma come! Quando mangiavate solo voi i capponi era Provvidenza, adesso che li mangiamo anche noi è consumismo!». Anche così, in quel tempo, si viveva, si cercava di essere cristiani, si scherzava, riconoscendo tuttavia il dono prezioso che un prete poteva essere per tutto il paese e per una convivenza serena, per una vita segnata da convinzioni etiche condivise dai più.

© Copyright La Stampa, 30 settembre 2007

E' durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla

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Lo storico Giovanni Maria Vian alla guida dell'«Osservatore Romano». Ravasi consacrato vescovo. Il «maestro delle cerimonie» verso l'addio

Il Papa si prepara a celebrare messa in latino

Un Pontefice non usa il vecchio messale da 40 anni: potrebbe avvenire il 2 dicembre

Luigi Accattoli

CITTÀ DEL VATICANO— Nuovo corso della cultura e dei riti in Vaticano: ieri il Papa ha nominato Giovanni Maria Vian direttore dell'Osservatore Romano e ha ordinato vescovo il prete milanese Gianfranco Ravasi che avrà il ruolo di «ministro della cultura »; per i prossimi giorni è attesa la nomina del nuovo «Maestro delle celebrazioni» in sostituzione dell'arcivescovo Piero Marini. Dopo l'arrivo del nuovo cerimoniere è «probabile » che il Papa celebri una messa con il vecchio rito, in San Pietro, ovviamente tutta in latino: potrebbe avvenire il due dicembre, prima domenica di Avvento.
Se davvero quella celebrazione ci sarà, il passaggio delle consegne tra l'attuale e il futuro «maestro delle cerimonie » acquisterà una rilevanza generazionale e simbolica, perché sono più di quarant'anni che un Papa non celebra con il vecchio messale: per una «messa papale» secondo tradizione bisogna risalire a prima del 1965, anno di chiusura del Concilio Vaticano II, quando Paolo VI introdusse i primi cambiamenti.
Il nuovo «maestro» si dice che sia un altro Marini quanto al cognome, Guido di nome, prete genovese finora sconosciuto a Roma. Si dice che sia stato presentato al Papa dal cardinale Bertone, che lo stima avendolo avuto come cerimoniere a Genova. Nulla si sa del suo orientamento quanto al vecchio messale, ma si suppone che sia a esso più favorevole del Marini ancora in carica, che è un appassionato sostenitore della riforma liturgica.

Sull'intenzione del Papa di dare ai vescovi un «esempio» di uso spontaneo del vecchio rito, oltre l'accettazione delle richieste dei fedeli (come prevede il Motu proprio che ha pubblicato in luglio), non si sa nulla di preciso. La voce circola sia sulle bocche di chi spera in quel gesto e dice che «sdoganerebbe» definitivamente il vecchio messale che ancora incontra resistenze nonostante la recente «liberalizzazione »; sia tra chi teme che il Papa compia quel gesto, perché sarebbe «un altro passo di allontanamento dal Concilio».

«Per ora è solo una voce — dice un monsignore che non è né favorevole né contrario — ma qui ne parlano tutti e io credo che lo farà anche se rischia di sollevare polemiche, perché i cattolici che hanno meno di cinquant'anni non hanno mai visto un Papa che celebra dando le spalle al popolo e pronunciando sottovoce la "preghiera eucaristica". Nel frattempo è stata abolita la "corte" che accompagnava il Pontefice nelle celebrazioni e voglio proprio vedere come si svolge oggi la vecchia messa papale!».

Gli addetti ai lavori ricordano che in più di un'occasione il cardinale Ratzinger ebbe a celebrare secondo il vecchio rito, per esempio presso il seminario della Fraternità sacerdotale San Pietro, a Wigratzbad, in Baviera, nell'aprile 1990.
La celebrazione di ieri in San Pietro — per l'ordinazione di cinque nuovi vescovi tra i quali Gianfranco Ravasi — potrebbe essere l'ultima «in sede» diretta dall'attuale cerimoniere Piero Marini che tiene quell'ufficio da vent'anni. Il nuovo Marini e Vian entreranno in funzione dopo il 21 ottobre: quel giorno il Papa sarà in visita a Napoli e quella sarà l'ultima occasione pubblica per Mario Agnes — direttore del quotidiano vaticano da 23 anni, gran sostenitore della predicazione di pace di Papa Wojtyla — e per Marini senior. Quest'uso di annunciare le nomine con anticipo sull'assunzione delle funzioni ha avuto il precedente più illustre l'anno scorso con la successione del cardinale Bertone al cardinale Sodano in Segreteria di Stato: l'annuncio arrivò il 21 giugno ma il passaggio delle consegne si ebbe soltanto il 15 settembre.
Giovanni Maria Vian, 55 anni, storico e collaboratore di giornali, cultore della figura di Paolo VI, è stato scelto per rilanciare l'Osservatore Romano e trovargli una funzione nuova nell'epoca della comunicazione globale: quella — ha detto una volta il cardinale Bertone — di «laboratorio culturale della cattolicità mondiale». Avrà come vicedirettore Carlo Di Cicco, vaticanista tra i più stimati (Agenzia Asca), 63 anni, già alunno dei salesiani e obiettore di coscienza.

© Copyright Corriere della sera, 30 settembre 2007

Ah! E quel Monsignorucolo dalla bocca larga non sarebbe ne' favorevole ne' contrario all'antico Messale con quella battutaccia sulla corte pontificia? Ma dai! :-)
Auspico che il Papa dia in prima persona il "buon esempio" ai vescovi, soprattutto a quelli ostili al motu proprio. Inoltre per molti di noi la Messa papale (se trasmessa in tv e non e' scontato...) potrebbe essere la sola occasione per poter assistere ad una celebrazione secondo l'antico rito. Che cosa c'e' di male se il Papa celebra secondo il Messale rieditato da Giovanni XXIII?
Polemiche? Beh, i giornali hanno gia' preparato gli articoli del 3 dicembre, su questo potrei scommettere senza bisogno di interpellare Maga Maghella e Mago Merlino
:-)
Raffaella

Ordinazioni e nomine: gli articoli della Gazzetta del sud e del Quotidiano Nazionale


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Succede alla direzione a Mario Agnes

Osservatore Romano comincia l'era di Vian

Elisa Pinna
ROMA

Volta pagina l'Osservatore Romano, da 146 anni la voce del Papa e della Santa Sede nel mondo. Benedetto XVI ha nominato il prof. Giovanni Maria Vian, storico del cristianesimo e docente universitario, nuovo direttore del quotidiano vaticano.
Finisce così, dopo 23 anni, l'era di Mario Agnes, che tuttavia manterrà, a testimonianza della stima di Ratzinger, il titolo di direttore emerito del giornale.
Per una coincidenza forse non casuale, la nomina di Vian è arrivata, nel bollettino dalla sala stampa vaticana, proprio a conclusione della cerimonia in San Pietro con cui il Papa ha elevato al rango di vescovo mons.Gianfranco Ravasi, neo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Ravasi e Vian, due stimati e raffinati intellettuali cattolici, sono destinati, nei loro diversi ruoli, a rappresentare le figure chiave di un ampio progetto teso a rilanciare un dialogo franco e rispettoso tra la fede e la cultura di oggi, dopo battute di arresto e incomprensioni anche recenti.
Per il quotidiano vaticano si annuncia, con l'arrivo del nuovo direttore che si insedierà a fine ottobre, un ridefinizione di stile e contenuti: più spazio verrà dato ai grandi eventi internazionali, alla cultura, ai temi della società globale e all'impegno universale della Chiesa. La politica italiana, come anche la cronaca spicciola, avranno con ogni probabilità un ridimensionamento.

© Copyright Gazzetta del sud, 30 settembre 2007


Ravasi, vescovo il biblista della tv

Consacrato da Benedetto XVI assieme ad altri cinque nuovi «pastori»

dall’inviato GIORGIO ACQUAVIVA

— CITTÀ DEL VATICANO —
I VESCOVI come angeli, «uomini di Dio» e «orientati verso Dio», messaggeri di Dio agli uomini, e in quanto tali capaci di «aprire il cielo e la terra». E, dunque, anche vicini all’uomo, al quale «parlano di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella vita tanto spesso è coperto o sepolto». Così parla papa Benedetto XVI ai sei presbiteri che sta per ordinare vescovi.
Il più noto, anche al mondo laico, è certamente monsignor Gianfranco Ravasi, finora prefetto della Biblioteca Ambrosiana, biblista di fama, divulgatore della Parola in televisione e in libri e in conferenze.
Con l’incarico di presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, Ravasi viene anche «eletto» titolare della arcidiocesi africana di Villamagna di Proconsolare, non lontano da Cartagine. Una curiosità: a Cartagine insegnò retorica Agostino, che poi divenne vescovo di Ippona, sempre nella stessa area geografica. Una zona di frontiera fra culture e religioni, che ben si lega alla missione di dialogo che il monsignore brianzolo (Ravasi è nato a Merate, nel Lecchese) si è dato per il prossimo futuro.

MA ACCANTO a lui ci sono anche i milanesi Francesco Giovanni Brugnaro neo arcivescovo di Camerino–San Severino Marche e Vincenzo Di Mauro nuovo segretario della prefettura degli Affari Economici della Santa Sede; e poi Tommaso Caputo, nominato Nunzio Apostolico in Malta e in Libia e Sergio Pagano, che diventa prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano. E soprattutto c’è il polacco Mokrzycki, già segretario di papa Wojtyla, eletto coadiutore di Lviv dei Latini, in Ucraina, al quale il pontefice dedica spazio nella omelia, anche per salutare i vescovi latini di quel Paese, i confratelli greco-cattolici e la Chiesa ortodossa dell’Ucraina, terra di difficile convivenza fra confessioni cristiane in questo tormentato periodo postsovietico: «A tutti auguro le benedizioni del Cielo per le loro fatiche miranti a mantenere operante nella loro Terra e a trasmettere alle future generazioni la forza risanatrice e corroborante del Vangelo».

LA CERIMONIA — in latino — si svolge nella Basilica di San Pietro, alla presenza di moltissimi fedeli, con parecchi cardinali e vescovi che concelebrano e che al momento della imposizione delle mani sul capo, imitano il Vescovo di Roma. In omaggio alla presenza del presule ucraino, la prima lettura viene pronunciata nella sua lingua. Canti e litanie dei santi accompagnano la solenne celebrazione.
Nella omelia papa Ratzinger parla della festività del giorno, dedicata agli arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele, creature che hanno il nome di Dio («El») nel proprio dna a spiegare l’intima consonanza e il loro ruolo di messaggeri. Ciascuno con la propria caratterizzazione, però.
Michele come difensore di Dio contro il drago dell’Apocalisse che vuole «far credere agli uomini che Dio deve scomparire per diventare grandi» e in definitiva «fa spazio a Dio nel mondo contro le negazioni».
Gabriele che annunciò a Maria l’incarnazione, rappresenta Dio che «sta alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore» bussa e aspetta una risposta.
Raffaele, che guarisce l’amore fra uomo e donna («l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato») e guarisce anche dalla «cecità per Dio» che minaccia il mondo d’oggi, e lo fa anche attraverso il sacramento della Penitenza, «sacramento di guarigione».
«Rimanete nell’amicizia di Dio — conclude — e la vostra vita porterà frutto, un frutto che rimane».

© Copyright Quotidiano Nazionale, 30 settembre 2007


IL PROGRAMMA DEL NEO «MINISTRO»

«Dialogo aperto con chi non crede»

di ROSSELLA MARTINA

Vescovo Ravasi, a che cosa in particolare si dedicherà come Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura?

«Credo che avrò una particolare attenzione per le culture con cui immigrazione e globalizzazione ci mettono in contatto molto più di quanto non avvenisse in passato. Penso soprattutto alla Cina e all’India, ma non solo. Un altro percorso che vorrei intraprendere in questo mio nuovo ruolo è all’interno del mondo della non credenza. Un percorso oggi particolarmente difficile poiché ci troviamo in un’epoca dove chi contrasta la religione lo fa con strumenti che sono l’irrisione, la derisione, la banalizzazione, la goliardia. Questo approccio rende molto più difficile il dialogo a meno di non volersi mettere sullo stesso piano, quello della battuta, del gioco da salotto. Era ben diversa la situazione nell’Ottocento, per esempio, quando esisteva un rapporto tra sistemi di pensiero, come quello appunto tra Cristianesimo e marxismo o tra Cristianesimo e pensiero liberale. Preferirei mille volte avere come interlocutore Nietzsche — pensiamo con quale profondità e drammaticità parla del suo anti-Cristo — piuttosto che uno qualunque di quegli autori di libretti, anche recenti, dove si ironizza e banalizza, estrapolando senza criterio frasi della Bibbia o dove ci si fa beffe di alcuni elementi popolari della religione».

Come si concilia la valorizzazione e la difesa della cultura con certe recenti posizioni della Chiesa nei confronti della scienza?

«Dobbiamo riconoscere che vi sono momenti in cui si introduce, al posto del dialogo, la paura, l’incubo, addirittura, che la scienza, meglio ancora la tecnica, divenga incontrollabile. Bisogna allora affermare con vigore e con rigore che la scienza di sua natura non può permettersi di immaginare di sostituirsi alla natura. L’illusione di poter dominare tutto l’essere e il mondo, senza rispettare le sue ultime strutture, è qualcosa che fa paura e contro cui ci mettono in guardia non soltanto la religione ma anche, da un punto di vista laico, la filosofia, la storia, la stessa storia della scienza».

In una sua recente lezione al FestivalFilosofia di Modena è tornato a parlare di Qohelt, il libro ‘ateo’ del Vecchio Testamento dove tra l’altro si dice: chi più sa più soffre. Ma lo studio è anche piacere…

«Se si pratica il percorso della conoscenza non con la freddezza dell’erudito ma per amore del sapere che ha la sua radice in sapore, gusto, vi è indubbiamente una componente di godimento. Quando si studia, partecipi di ciò che si studia, si è attraversati da una felicità segreta, simile a quella del bambino che sperimenta il mondo. Ma c’è l’altro aspetto che è quello di chi scoprendo il reale trova la dimensione di oscurità, di drammaticità, dolore, colpa, peccato e quindi sofferenza. Lo stolto, colui che si ferma alla superficie delle cose, vede solo il grigio, non trova il bianco e il nero, la luce e la tenebra. In questo senso la sapienza è un grande tormento perché alla fine il sapiente è colui che sa capire il dolore degli altri».

© Copyright Quotidiano Nazionale, 30 settembre 2007

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A Roma si celebra il «rito ambrosiano» Tre i vescovi milanesi, c’è anche Ravasi

di Andrea Tornielli

Il rito è stato rigorosamente romano, ma ieri mattina, nella lunga e suggestiva cerimonia per la consacrazione di sei vescovi celebrata in San Pietro da Benedetto XVI, si respirava un’atmosfera molto «ambrosiana»: ben tre dei nuovi presuli, infatti, appartengono al clero milanese. C’erano migliaia di fedeli a far festa al nuovo presidente del Pontificio consiglio per la Cultura, Gianfranco Ravasi, illustre biblista e volto noto della televisione per i suoi apprezzati commenti al Vangelo della domenica; al nuovo arcivescovo di Camerino-San Severino Marche, Giovanni Brugnaro, che già da anni aveva lasciato Milano per il servizio alla Santa Sede; e a Vincenzo di Mauro, che assume l’incarico di segretario della Prefettura degli affari economici della Santa Sede.
Si rafforza di molto, dunque, la compagine milanese in Vaticano, già ben rappresentata dal cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede), dal vescovo Coccopalmerio (presidente del Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi), dal nuovo Prefetto della Biblioteca vaticana Pasini e dall’assessore in Segreteria di Stato Gabriele Caccia.
Oltre ai tre milanesi, Papa Ratzinger ha consacrato vescovi l’ex segretario di Giovanni Paolo II e suo, Mieczyslaw Mokrzycki, nominato coadiutore del cardinale di Leopoli dei latini, in Ucraina, il Prefetto dell’Archivio segreto vaticano padre Sergio Pagano e monsignor Tommaso Caputo, già capo del protocollo della Santa Sede ora inviato come nunzio a Malta e in Libia.
Nell’omelia, Benedetto XVI ha parlato delle figure dei tre arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, di cui proprio ieri si celebrava la festa. Il Papa ha ricordato come nei tempi antichi i vescovi venissero qualificati come «angeli» delle loro rispettive Chiese e ha spiegato che l’angelo «è una creatura orientata con tutto l’intero suo essere verso Dio» e «proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini» agli uomini presso i quali sono «messaggeri di Dio». Ratzinger ha quindi citato le caratteristiche di Michele, che lotta contro il drago, il «serpente antico», il diavolo.
Quest’ultimo – ha spiegato il pontefice – tenta «di far credere agli uomini che Dio debba scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di lui». Ma, ha aggiunto il Papa, «chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione». Mentre «la fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze e insufficienze». È dunque «compito del vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo». Poi, parlando dell’arcangelo Raffaele, che ha il compito di guarire, Benedetto XVI ha parlato dell’uomo «ferito, bisognoso di essere guarito» e ha accennato particolarmente a un ambito necessario di guarigione, quello del matrimonio, «minacciato in modo molteplice dal peccato», ma che da Cristo ottiene la «forza risanatrice che in tutte le confusioni dona la capacità della riconciliazione».
Dopo l’omelia, il Papa, che concelebrava con i cardinali Tarcisio Bertone e Marian Jaworski, ha imposto le mani sui sei nuovi vescovi, seguito nel medesimo gesto da decine e decine tra cardinali e vescovi presenti in San Pietro. Tra di loro anche l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi.

© Copyright Il Giornale, 30 settembre 2007


L’«Osservatore Romano» cambia direttore

di Andrea Tornielli

Cambio della guardia alla guida dell’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede: Mario Agnes, che lo guidava da ventitré anni ed è stato un fedele interprete del pontificato di Giovanni Paolo II e dei primi passi di quello di Ratzinger, lascia l’incarico diventando «direttore emerito».
Al suo posto arriva Giovanni Maria Vian, romano, classe 1952, storico del cristianesimo, è professore ordinario di Filologia patristica all’Università di Roma «La Sapienza», membro del Pontificio Comitato di Scienze Storiche nonché editorialista del quotidiano «Avvenire». Ha studiato il giudaismo e il cristianesimo antichi, la storia della tradizione cristiana e il papato contemporaneo; ha pubblicato un’ottantina di studi specialistici, e tra i suoi volumi più recenti c’è «Bibliotheca divina. Filologia e storia dei testi cristiani» e «La donazione di Costantino».
Insieme al nuovo direttore è stato pubblicata anche la nomina del suo vice, Carlo Di Cicco, vaticanista dell’agenzia Asca e autore di un libro sugli inizi del pontificato di Benedetto XVI. Sia il nuovo numero uno che il numero due sono ben conosciuti dal cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato.

Con questa nomina, il Papa e Bertone intendono rilanciare l’Osservatore Romano, rendendolo più presente sulla piazza mediatica (anche attraverso internet) e con tutta probabilità anche più interventista nel dibattito culturale.

Vian, che è figlio di Nello, che fu amico e collaboratore di Paolo VI, è infatti uno studioso che non ha mai rinunciato al confronto anche polemico dalle colonne del quotidiano «Avvenire» e ha ricostruito, ad esempio, l’origine della leggenda nera contro Pio XII. Il cambio della guardia sarà effettivo dal 27 ottobre, dopo la visita del Papa a Napoli.

© Copyright Il Giornale, 30 settembre 2007


Ravasi e il dibattito su Milano

LA CULTURA DI QUALITA'

di MARCO GARZONIO

La polemica esplosa dopo le provocazioni di monsignor Ravasi su Milano «capitale dell'effimero più che della cultura » mostra la vivacità del momento, ma rischia di essere sterile se limitata a numero e varietà di iniziative. È indubbio: si fan tante cose, in campi diversi (musica, teatro, mostre), vi sono centri d'eccellenza (Scala, Triennale, Piccolo, musei, atenei), si organizzano eventi (letture di Dante e Virgilio), operano editrici e media, imprenditoria e creatività vanno a braccetto. Ma la dovizia di calendari e cartelloni ha efficacia se ruota attorno a un'idea di città, portando ciascuno il suo apporto a una visione condivisa di crescita e sviluppo, che punta a mete comuni. Altrimenti il pericolo è di far parlare di singole realizzazioni, ma di non lasciare tracce significative nel contesto, di accentuare smagliature nel tessuto urbano, di mancare in cittadinanza e socialità. Ognuno tende a procedere per conto proprio, ignora il vicino nel quale vede un concorrente che gli dà ombra più che un'opportunità di sinergie. Se poi riscuote successo, ne mena vanto. In caso di flop, sotto accusa è la città e una regia che non c'è.
Non di eventi da «consumare» per suggestione di marketing (altra eccellenza della città, peraltro), ma di iniziative che facciano sistema ha bisogno Milano. Ciò vuol dire parlarsi tra protagonisti (con considerazione e rispetto reciproci!), tra essi e il pubblico e, insieme, con il mecenatismo che in passato fu il valore aggiunto. Significa cercare la «sezione aurea», la proporzione, il punto di incontro fra espressioni artistico/creative, iniziative di divulgazione, passione civile. Grande assente, questa, oggi, mentre è la realtà che anima e contagia, coinvolge e sprona a cambiare, a trovare occasioni di una buona convivenza.
Milano è viva più di quanto masochismo meneghino e latitanza della politica fanno credere. Ma non riesce a coordinare forze per progettare, guardare insieme lontano, sognare. Le realizzazioni sono importanti; più essenziale è però investire in un fermento reciproco fra preoccupazioni e istanze diverse, dove ogni iniziativa, piccola o grande, sia pensata per far crescere, dibattere, ritrovare la gente attorno a qualcosa che merita, a valori. Figli e generazioni future non ci chiederanno conto di quante manifestazioni abbiamo fatto, ma della qualità della vita e della speranza che gli avremo trasmesso. Questa è cultura.

© Copyright Corriere della sera (Milano), 30 settembre 2007

29 settembre 2007

ORDINAZIONI EPISCOPALI E NOMINE ALL'OSSERVATORE: VIDEO DI SKY

VIDEO DI SKYTG24

Osservatore Romano: i "consigli di lettura" di Paolo VI e Giovanni Maria Vian (di S. Magister)


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"L'Osservatore Romano" cambia direttore. Piccola guida alla lettura

Il nuovo responsabile è Giovanni Maria Vian, filologo e storico della Chiesa. Ecco che cosa ha scritto del quotidiano che si appresta a dirigere. Ed ecco come un grande intenditore, Montini, il futuro Paolo VI, insegnò a leggere questo strano giornale

di Sandro Magister

ROMA, 29 settembre 2007 – Da oggi "L'Osservatore Romano" ha un nuovo direttore. È Giovanni Maria Vian, 55 anni, professore di filologia della letteratura cristiana antica all’università “La Sapienza” di Roma e membro del pontificio comitato di scienze storiche. Firmerà il "quotidiano del papa" a partire dal numero con la data del 28 ottobre.

Il professor Vian è già noto ai lettori di www.chiesa. Questo sito pubblicò un suo profilo lo scorso 9 agosto, anticipandone la nomina. E prima ancora presentò due suoi libri: "La donazione di Costantino", del 2004, e "Bibliotheca divina. Filologia e storia dei testi cristiani", del 2001, quest'ultimo pubblicato anche in Spagna.

Ma che dire del quotidiano che egli si appresta a dirigere? "L'Osservatore Romano" è un giornale davvero specialissimo. Per alcuni aspetti unico al mondo.

Oggi non attraversa una delle sue stagioni più brillanti. Diffuso in poche migliaia di copie e praticamente assente su internet, svolge in modo ridottissimo il compito precipuo a cui è deputato, quello di far giungere al grande pubblico l'insegnamento del papa.

Ma anche in altre fasi della sua storia "L'Osservatore" ha attraversato momenti di opacità. Eppure ogni volta ha saputo risorgere, assumendo ruoli anche di grande rilevanza.

Curiosamente, proprio il suo nuovo direttore, Vian, è l'autore dell'unica, concisa storia fin qui scritta di questo giornale.
È uscita nel "Dizionario storico del papato" diretto da Philippe Levillain, edito a Milano da Bompiani nel 1996, alle pagine 1057-1060, sotto la voce: "L'Osservatore Romano".
È integralmente riprodotta più sotto.
Ma prima di essa, in questa stessa pagina, è riportato un altro testo di eccezionale interesse, sempre a riguardo de "L'Osservatore Romano".
Ne è autore Giovanni Battista Montini ed è apparso su "L'Osservatore Romano" del 1 luglio 1961, nel supplemento speciale per i cento anni dalla nascita del giornale. L'edizione critica dell'articolo – qui riprodotta tale quale – è reperibile in G. B. Montini, "Discorsi e scritti milanesi (1954-1963)", Istituto Paolo VI, Brescia,1997, pp. 4471-4475.
Nel 1961 Montini – il futuro papa Paolo VI – era arcivescovo di Milano. Ma prima ancora, nella curia romana, come sostituto segretario di stato, era stato per molti anni il supervisore de "L'Osservatore Romano".
Conosceva quindi a fondo le caratteristiche uniche di questo giornale "in parte ufficiale e in parte no".
Lo scritto di Montini è assolutamente da leggere, per imparare a leggere "L'Osservatore Romano". Lui che non scrisse mai diari e che raramente raccontò qualcosa della propria vita, in questo caso fece un'eccezione. È sua, personalissima, anche la fine ironia con cui tratteggia taluni aspetti del giornale.
Aspetti che da allora sono cambiati di poco. Certo, oggi non c'è più lo "spettacolo aulico" della pagina della cronaca vaticana, spogliata dalle sue pomposità proprio durante il pontificato di Montini. Ma la sostanza è rimasta. Non per nulla continua a essere considerato "il giornale del papa".
Ecco dunque due testi chiave per capire che cosa è "L''Osservatore Romano". Del quale oggi – col cambio di direzione – è cominciato un nuovo capitolo di storia.

1. Le difficoltà dell’«Osservatore Romano»

di Giovanni Battista Montini

Un giornale, ognuno lo sa, è sempre difficile a farsi; difficilissimo l’«Osservatore Romano»; ma questo pochi lo intuiscono. Ricordo che al tempo in cui io prestavo servizio alla Segreteria di Stato, dalla quale il giornale vaticano in certa misura dipende, mi capitava spesso di raccogliere critiche in proposito, e non delle solite concesse ad ogni lettore su la stampa ch’egli legge (perché oltre la libertà di stampa esiste, ed in grado ben più alto e non mai contestato, la libertà di critica alla stampa; salvo che questa rimane ordinariamente silenziosa, e quella invece rumorosa); le critiche riguardavano la sproporzione fra il vastissimo campo, di cui il giornale avrebbe dovuto essere specchio, il campo cattolico, e la relativa esiguità delle sue notizie, anzi, per vero dire, della stessa capacità a darvi voce e risalto; non diciamo poi della ristrettezza del suo raggio di diffusione.
Mancanza di servizî, pensavo; e così era, perché, al contrario di quanto crede ordinariamente la gente, non esclusa la romana, il Vaticano (parola grossa) è sempre stato, possiamo dire dalla burrasca napoleonica in poi, assai limitato nei suoi mezzi; potremmo anche aggiungere, dal settanta ad oggi, alla conciliazione almeno, povero. Chi vive di obolo, sia pure di San Pietro, non può concedersi di fare del lusso. Sotto questo aspetto il Vaticano, dignitoso nobile decaduto, visse in questi ultimi tempi di economia, talora manto regale, un po’ consunto, sopra una onorevole indigenza.
Ma non era questa la vera difficoltà, di cui soffriva «l’Osservatore Romano», perché, alla fine, i mezzi, non larghi, ma sufficienti, si trovavano: redattori, corrispondenti, macchinario, ecc. Poca roba, in confronto di quanto dispongono i grandi giornali, ma buona; anzi, per qualche verso, ottima (basti pensare alle persone che componevano la redazione e che a quella, col Conte Dalla Torre al centro, facevano allora corona). La difficoltà, o meglio le difficoltà, erano meno apparenti, ma più reali, in altri settori. Pensate, ad esempio, al paragone tra gli argomenti, ai quali la stampa dedica comunemente pagine e colonne, e gli argomenti ai quali questo giornale offre la sua nobile voce. Si noterà subito che su «l’Osservatore» non si parla, ex professo, ad esempio, di teatro, di sport, di finanza, di mode, di processi, di fumetti, di enigmistica,... o di quant’altro sembra fare l’attrattiva, se non sempre l’interesse del così detto gran pubblico. Anche per la pubblicità, quanti giusti, giustissimi castighi! Poi guardate le notizie: anche queste così composte, così ripulite, così dignitose da togliere al lettore ogni brivido, ogni sussulto, nei titoli e nel testo, quasi lo si volesse educare alla calma e alla buona educazione mentale. Giornale serio, giornale grave, chi mai lo leggerebbe sul tram o al bar; chi mai vi farebbe crocchio d’intorno?
Non è che un foglio di tanta importanza manchi di titoli su otto colonne, e di pagine dalla composizione impressionante; ma l’occhio, avido di scorgere che cosa mai sia scoppiato nel mondo, subito si fa scrutatore, poi si ritrae senza nulla lasciar apparire della sua segreta delusione: la pagina, la grande pagina, è in latino! Bene; tutti lo conosciamo il latino; ma lo leggeremo meglio stasera, o domani; capite bene: è buon latino, non si può prendere troppo alla leggera.
E anche quando la pagina dai grandi titoli non è in latino, non si può sempre dire ch’essa sia di dilettevole lettura. Edificante, sì; ma nessuno fa torto al venerando giornale se esso non può servire da passatempo, come invece tant’altra stampa, conciliatrice di svago e di riposo. E non diciamo nulla della pagina, appariscente quanto volete, ma piena della consueta cronaca degli avvenimenti vaticani, che ci procura, sì, il piacere d’uno spettacolo aulico incomparabile, ma non senza qualche dubbio d’averlo già provato eguale tant’altre volte.
Questo «Osservatore Romano», tanto importante, tanto accurato e tanto caro, come si fa a renderlo quanto esso avrebbe diritto e quanto noi avremmo dovere, un «grande giornale»? Quella accorata esperienza mi istruì, sopra un altro capitolo di difficoltà a cui il foglio vaticano non può sottrarsi, e che tornano tutte a suo onore; esso è un «giornale di idee». Non è, come moltissimi altri, un semplice organo d’informazione; vuol essere e credo principalmente di formazione. Non vuole soltanto dare notizie; vuole creare pensieri. Non gli basta riferire i fatti come avvengono: vuole commentarli per indicare come avrebbero dovuto avvenire, o non avvenire. Non tiene soltanto colloquio con i suoi lettori; lo tiene col mondo: commenta, discute, polemizza. E se questo aspetto può destare interesse nel lettore, esige fatica enorme nello scrittore. Non basta al redattore usare telefoni, telescriventi, comunicati, agenzie, forbici e colla; egli deve usare il suo giudizio, la sua valutazione; deve cavare dalla sua esperienza e ancor più dalla sua anima una parola; una parola sua, viva, nuova, geniale. E soprattutto vera. Soprattutto buona. Qui il giornalista è interprete, è maestro, è guida, è talvolta poeta e profeta. Arte difficile. Sublime, sì; ma difficile. Provare per credere. Ogni vero giornalista la conosce; ma qui, all’«Osservatore», quest’arte è quanto mai delicata ed esigente. Non le bastano le risorse soggettive, di chi ha spirito, e sa improvvisare, e dare alle parole la scintilla felice dell’intuizione e dell’umore; qui occorre anche il rispetto ad un dottrinale ampio e solenne, qual è quello della mentalità cattolica, sempre presente, sempre impegnativo. Anzi questa obbiettività, cioè questa continua testimonianza al panorama di verità morale e religiosa, nel quale ogni cosa dev’essere inquadrata, domanda in chi scrive una convinzione, un’affezione, un entusiasmo, personali e vivaci, sempre vigilanti, sempre operanti.
Ecco perché l’arte del giornalista è difficile, come si diceva, all’«Osservatore»; e, quasi non bastasse, essa si aggrava per un’altra considerazione; che questo giornale non è soltanto un giornale di idee (e di quali idee, vicino a San Pietro!); ma è anche un giornale d’ambiente; dell’ambiente vaticano. È, sì, il giornale vaticano. E questo che cosa significa? Si stampa in Vaticano; e ciò gli vale prestigio e libertà. Ma si diffonde all’Italia e all’estero; e ciò gli impone limiti e riguardi non pochi. Si stampa in Vaticano; ed è perciò in parte ufficiale, e in parte no: è responsabile, per un verso, come un oracolo della Gerarchia; è discutibile, per un altro verso, come espressione del pensiero di chi vi scrive di propria autorità. La distinzione è chiara, ma la realtà è delicata e complessa, per il fatto che i lembi della sacra stola arrivano spesso al di là dei confini ufficiali; o si crede che arrivino; e allora sorge, ad ogni passo, la questione, o il dubbio sul peso da dare alle notizie e agli articoli dell’illustre e venerabile quotidiano. È questa incertezza, che crea intorno all’«Osservatore» un alone di riverenza per alcuni, di diffidenza per altri; raccomanda il foglio agli esperti, ai politici, agli studiosi, ai diplomatici, ai devoti, ma non alla folla dei lettori comuni.
Difficoltà gravi e molteplici dunque, che spiegano in gran parte la fatica di questo singolarissimo giornale nella sua composizione e nella sua diffusione. Ma, a bene esaminare le cose, sono queste stesse difficoltà che gli conferiscono tanta dignità nella funzione propria della stampa periodica, tanta autorità e tanta forza.
Ne feci io stesso l’esperimento nel triste e drammatico periodo dell’ultima guerra, quando la stampa italiana era imbavagliata da una spietata censura e imbevuta di materiale artefatto. «L’Osservatore» ebbe allora una funzione meravigliosa, non già perché si fosse arrogato compiti nuovi e profittatori, ma perché continuò impavido il suo ufficio d’informatore onesto e libero. Avvenne come quando in una sala si spengono tutte le luci, e ne rimane accesa una sola: tutti gli sguardi si dirigono verso quella rimasta accesa; e per fortuna questa era la luce vaticana, la luce tranquilla e fiammante, alimentata da quella apostolica di Pietro. «L’Osservatore» apparve allora quello che, in sostanza, è sempre: un faro orientatore.
E fu allora che rinacque la fiducia nel giornale vaticano: la sua sede, la sua funzione, la sua rete d’informatori e di collaboratori, la sua autorità e la sua libertà, la stessa anzianità ed esperienza possono farne un organo di stampa di primissimo ordine.
Perché quelle che qui sono state indicate come difficoltà possono essere, con più sagace giudizio e più abile impiego, considerate peculiarità, e come tali costituire un’interessantissima originalità del giornale.
Nessun altro può avere orizzonte più ampio di osservazione; nessun altro può avere più ricche sorgenti d’informazione; nessun altro più importanti e più vari argomenti di trattazione; come nessun altro più autorevole giudizio di orientazione e più benefica funzione di educazione alla verità e alla carità. Non per nulla, come si dice, è «il giornale del Papa».
Ed è certo verso questo relativo primato nella missione giornalistica, che, pur con modestia di mezzi e con fraternità di linguaggio e di rapporti «l’Osservatore Romano», sempre più giovane e fresco, orienta il suo programma e raccoglie il voto comune al compiersi del centenario della sua fedele e invitta pubblicazione.


2. "L'Osservatore Romano", dalle origini a oggi

di Giovanni Maria Vian

Quotidiano della Santa Sede fondato nel 1861, "L'Osservatore Romano" viene pubblicato tutti i giorni (eccetto le domeniche e le feste religiose del calendario vaticano) nel pomeriggio, con la data del giorno successivo.
II giornale è redatto in italiano, ma i testi pontifici vi si trovano anche in latino (come nel caso delle encicliche e di altri importanti documenti) e nelle diverse lingue in cui sono pronunciati o pubblicati, eventualmente tradotti in italiano.
Del quotidiano sono pubblicate sei edizioni settimanali (in inglese il lunedì, in francese il martedì, in italiano il giovedì, in spagnolo e in tedesco il venerdì, in portoghese il sabato) e un’edizione mensile (in polacco), che raccolgono soprattutto i testi pontifici e l’informazione concernente la Santa Sede.
Unico giornale vaticano, ha carattere ufficiale per la rubrica intitolata espressivamente “Nostre informazioni”, cioè quella parte della prima pagina preparata dalla segreteria di stato e contenente l’elenco delle udienze, delle nomine pontificie e dei comunicati riguardanti l’attività del papa e della Santa Sede.
Oltre a queste notizie, pubblica subito e nella loro integralità i testi pontifici, quindi informazioni relative alla Santa Sede e alla Chiesa cattolica nel mondo, notizie internazionali essenziali ma secondo un’ottica molto ampia, una sezione culturale, altre notizie dall’Italia e una cronaca di Roma.
Tra i giornali più famosi e citati nel mondo è senza dubbio il più esile (di norma è costituito di sole dieci pagine) e quello che tira meno copie (nel 1994, in media, meno di dodicimila il quotidiano, circa cinquantamila complessivamente le edizioni settimanali, intorno alle quarantamila il mensile), ma le sue caratteristiche, sicuramente uniche, ne fanno una fonte di primaria importanza, soprattutto per la storia della Chiesa in età moderna e contemporanea.
Le origini del quotidiano si collocano non a caso nell’ultimo periodo del potere temporale del papato: da una parte, infatti, in quel periodo vanno nascendo e moltiplicandosi in tutta Europa i primi giornali in senso moderno (e tra questi quelli cattolici in un clima spesso di acceso confronto con organi di stampa violentemente anticlericali), dall’altra si delinea sempre più chiara la tendenza che porterà alla fine della sovranità temporale del papa e all’inizio della "questione romana".
Così al celebre “Diario di Roma” (1716-1848) si succedono, sulla stessa linea ufficiale, la “Gazzetta di Roma” (1848-1849), il “Monitore romano” (1849) e il “Giornale di Roma” (1849-1870), ai quali s’affiancano su posizioni reazionarie e clericali “Il costituzionale romano” (1848-1849), di proprietà francese, e quindi un periodico (poi quotidiano) denominato per la prima volta “L’Osservatore Romano” (1849-1852).
In questo contesto, ma senza legami diretti con le testate precedenti (al di là del nome, nemmemo con l’omonima), nasce “L’Osservatore Romano”, su richiesta di un avvocato di Forlì, Nicola Zanchini, e di un giornalista di Bologna, Giuseppe Bastia, trasferitisi a Roma dopo l’annessione al regno d’Italia della maggior parte dello stato pontificio.
L’idea dei due rifugiati politici può comunque realizzarsi soltanto perché s’incrocia con il progetto del governo pontificio (nella persona di Marcantonio Pacelli, dal 1851 al 1870 sostituto del ministro dell’interno e nonno del futuro Pio XII) di fondare un giornale politico da affiancare all’ufficiale “Giornale di Roma”, e ottiene finanziamenti privati.
Così il 1 luglio 1861 esce il primo numero de “L’Osservatore Romano” (in un primo tempo s’era pensato da parte del governo pontificio di chiamarlo “L’amico della verità”), che programmaticamente reca sotto la testata la dicitura “giornale politico-morale” (divenuta poi, e tuttora mantenuta, “giornale quotidiano politico religioso”), a ricordare il doppio obiettivo insito nelle sue origini.
E a sottolineare ulteriormente il carattere polemico del nuovo giornale, insieme alla sua ispirazione di fede, nel primo numero del 1862 s’affiancano alla testata le due espressioni (che vi figurano ancora oggi) “unicuique suum”, a ciascuno il suo, e l’evangelico “non praevalebunt”, non prevarranno, con allusione alle porte dell’inferno, cioè le potenze del male.
I due iniziatori del giornale (finanziato privatamente ma sostenuto da Pio IX con diverse misure fin dall’inizio) ne furono anche i primi direttori (1861-1866). A costoro successe il marchese Augusto Baviera.
Figlioccio di Pio IX, ufficiale della guardia nobile e giornalista, Baviera già nel 1863 era entrato nella comproprietà del giornale, di cui divenne unico proprietario nel 1865 e che diresse dagli inizi del 1866 fino al 1884.
Direttore in senso moderno ed eccellente conoscitore del mondo romano, Baviera seppe imprimere al giornale un carattere proprio, in certa misura anche autonomo rispetto alle direttive governative (per questo più di una volta la direzione del giornale fu richiamata e sanzionata anche severamente), e fu il primo giornalista a seguire i lavori di un Concilio.
Del Vaticano I infatti “L’Osservatore Romano” seguì tutte le fasi fin dal suo annuncio nel 1867, mentre fu proprio il suo direttore a stenografare nella basilica vaticana gli interventi dei padri durante le sedute conciliari per le cronache da lui pubblicate sul giornale, spesso nella rubrica speciale “Cose interne”.
Subito dopo la presa di Roma (20 settembre 1870), spariva definitivamente l’ufficiale “Giornale di Roma” e “L’Osservatore Romano” era costretto a sospendere le pubblicazioni, che riprendeva tuttavia già il 17 ottobre successivo con l’assorbimento delle funzioni del “Giornale di Roma” e il conseguente spostamento su posizioni più ufficiali.
Questa tendenza venne ulteriormente accentuata in seguito alle vicende degli ultimi anni della direzione di Baviera. Questi cedette “L’Osservatore Romano” alla Societé Générale des Publications Internationales di Parigi, gruppo di tendenza cattolica intransigente che possedeva giornali in diverse capitali europee e a Roma aveva fondato il “Journal de Rome” (1881-1885), inizialmente sostenuto da Leone XIII ma divenuto in seguito polemico verso la linea moderata del papa e diretto per qualche tempo dallo stesso Baviera (che contemporaneamente continuava a dirigere anche “L’Osservatore Romano”).
Ma già nel 1884 divenne direttore e proprietario de “L’Osservatore Romano” il marchese Cesare Crispolti, finché dopo la cessazione del “Journal de Rome” Leone XIII acquistò definitivamente per la Santa Sede la proprietà de “L’Osservatore Romano”, che tuttavia nemmeno allora assunse formalmente il carattere di giornale ufficiale.
Nell’ultimo quindicennio del secolo il giornale iniziò ad aumentare la sua diffusione, mentre cresceva in parallelo anche il suo prestigio.
Alla direzione di Crispolti (1884-1890) seguirono quelle di Giovanni Battista Casoni (1890-1900), avvocato e giornalista bolognese chiamato da Leone XIII con l’intenzione di un controllo diretto del giornale, e di Giuseppe Angelini (1900-1920), altro giornalista che vide accentuarsi l’interesse diretto dei papi (in particolare Benedetto XV) per “L’Osservatore Romano” e sotto la cui direzione il giornale, dal 1911, passò dalle quattro pagine iniziali a sei, mentre s’arricchiva il suo contenuto (comprendente per alcuni periodi anche racconti d’appendice e già dal 1909 una rubrica dedicata ad arte, sport e teatri) con la quarta pagina per vari anni quasi interamente riservata alla pubblicità.
La linea del giornale seguiva naturalmente quella adottata dalla Santa Sede. Così, oltre alla diffusione degli interventi pontifici, le pagine de “L’Osservatore Romano” restano in quel periodo ancora dominate, ma certo non esaurite, dalla "questione romana", con un’attenzione tutta particolare per le vicende italiane.
Per quanto riguarda la politica internazionale è da ricordare per esempio la freddezza con cui fin dal 1911 viene commentata l’impresa coloniale italiana che portò all’occupazione della Libia ma soprattutto la scelta di imparzialità che caratterizzò durante la prima guerra mondiale l’informazione del giornale.
Su “L’Osservatore Romano” questa linea fu illustrata con una settantina di articoli scritti dallo stesso cardinale segretario di stato Pietro Gasparri e con moltissimi altri da lui ispirati e fu realizzata attraverso un notiziario internazionale confezionato con i dispacci dell’agenzia di stampa Stefani, pubblicati, specificava ogni volta il giornale, secondo un “programma di stretta imparzialità” e “a semplice titolo d’informazione per i suoi lettori e senza assumere menomamente la responsabilità delle notizie in essi contenute o farle in alcun modo proprie”.
Nel 1920 fu chiamato alla direzione del giornale il conte Giuseppe Dalla Torre, giornalista ed esponente di primo piano delle organizzazioni cattoliche, che vi sarebbe rimasto per un intero quarantennio, fino al 1960, coadiuvato da redattori e collaboratori di rilievo che in parte provenivano dalle organizzazioni intellettuali cattoliche estranee al fascismo (tra questi, Federico Alessandrini e Guido Gonella).
Durante la direzione di Dalla Torre, dopo la costituzione dello Stato della Città del Vaticano in seguito al trattato del Laterano, “L’Osservatore Romano” si trasferì, verso la fine del 1929, all’interno del Vaticano, dopo essere stato dalla fondazione in nove sedi successive nel centro di Roma.
L’entrata del giornale in Vaticano coincise con un’ulteriore crescita del suo prestigio e della sua diffusione, favorita anche dal parallelo restringersi degli spazi di libertà nell’Italia fascista. A questo periodo (che coincide anche con quello della massima tiratura media del giornale, oltre le sessantamila copie, con punte al di là delle centomila) risale la rubrica forse più famosa del giornale vaticano, quella degli “Acta diurna” di Gonella (ripresa da altri nel dopoguerra e quindi dal 1984 in forma diversa e anonimamente), attenta rassegna critica della politica internazionale, che tra il 1933 e il 1940 comprese oltre un migliaio di articoli, basati su fonti d’informazione che in quel periodo solo l’indipendenza vaticana poteva assicurare e che ebbero un successo e una risonanza notevoli.
E proprio la linea d’indipendenza scelta da “L’Osservatore Romano” fu la causa dei sempre maggiori ostacoli che, soprattutto dopo l’entrata in guerra dell’Italia, vennero frapposti dal regime fascista al quotidiano vaticano, costretto a riduzioni anche notevoli della tiratura e persino a non pubblicare le notizie relative alla guerra.
Nel frattempo, mentre Dalla Torre dirigeva tra il 1930 e il 1938 “L’illustrazione vaticana” (un periodico molto bene illustrato al quale collaborò con pseudonimi Alcide De Gasperi, allora in Biblioteca Vaticana, e che fu pubblicato anche in francese, spagnolo, tedesco e nederlandese), iniziò a uscire nel 1934 il settimanale illustrato “L’Osservatore Romano della Domenica” (dal 1951 con il nome “L’Osservatore della Domenica”, ridotto dal 1979 a sole otto pagine di formato tabloid inserite nel numero domenicale del quotidiano che viene pubblicato il sabato pomeriggio).
Poco prima (nel 1931 in Argentina) si era ideato un progetto di edizione non italiana de “L’Osservatore Romano” che tuttavia non ebbe esito. Nel 1939 il sostituto della segreteria di stato Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) istituì il primo ufficio informazioni della Santa Sede affidandolo al quotidiano vaticano, mentre per sua iniziativa nel 1942 cominciò a essere pubblicata in Vaticano una nuova rivista illustrata, il mensile “Ecclesia”, che sarebbe durata fino al 1960.
Il dopoguerra vide succedersi la realizzazione delle prime edizioni settimanali del quotidiano: dal 1949 l’italiana, dalla fine dello stesso anno quella francese (dapprima pubblicata in Francia e dal 1951 in Vaticano), dal 1951 quella in spagnolo (ma stampata su iniziativa privata a Buenos Aires e solo dal 1969 in Vaticano); seguirono dal 1968 l’edizione inglese, dal 1970 quella in portoghese, dal 1971 quella tedesca (che dal 1986 è stampata in Germania) e dal 1980 l’edizione mensile polacca.
Quando nel 1960 Dalla Torre si dimise, venne chiamato a succedergli Raimondo Manzini, membro in gioventù della Compagnia di San Paolo (istituto secolare fondato nel 1920 a Milano), giornalista di grandi capacità e prestigio (aveva tra l’altro diretto per oltre un trentennio il quotidiano cattolico bolognese “L’avvenire d’Italia”) e politico di rilievo (era stato deputato all’assemblea costituente e sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri), che diresse “L’Osservatore Romano” durante il periodo di preparazione e svolgimento del Concilio Vaticano II e per quasi tutto il pontificato di Paolo VI, continuando l’apertura del giornale (che tirava circa trentamila copie) a collaborazioni anche illustri (tra questa fu valorizzata, con la rubrica “Bailamme”, un’antica firma del giornale, quella di Giuseppe De Luca).
Agli inizi del 1978 a Manzini successe Valerio Volpini, intellettuale e scrittore, che tra l’altro rinnovò con gusto la grafica del giornale (un esempio furono le prime pagine delle edizioni straordinarie che nel 1978 annunciarono le elezioni papali dei cardinali Albino Luciani e Karol Wojtyla e uscirono incorniciate con fregi disegnati da Giacomo Manzù).
Dal 1984 dirige il quotidiano Mario Agnes, già presidente dell’Azione Cattolica italiana. Sotto la sua direzione il giornale, che soprattutto a partire dagli anni del pontificato di Paolo VI aveva assunto una linea di prudente e significativo disimpegno dalle vicende politiche italiane, è stato protagonista di nuove polemiche, anche all’interno del mondo cattolico, e ha dovuto subire ulteriori cambiamenti grafici, connessi anche con l’introduzione di nuove tecnologie e la ristrutturazione della tipografia vaticana.
I redattori sono una trentina, quasi tutti laici come buona parte dei collaboratori (tra questi ultimi anche alcune donne), mentre il personale amministrativo e tecnico (dal 1937 sotto la direzione dei salesiani) si aggira intorno alla settantina di persone (uomini e donne), e il deficit annuale si è avvicinato nel 1993 ai sei miliardi e mezzo di lire [nel 2006 4,4 milioni di euro], a cui bisogna aggiungere un miliardo per l’edizione in tedesco, che tuttavia è economicamente autonoma.
Nel 1961, per il centenario del quotidiano, il cardinale Montini vi scrisse un celebre articolo, non privo d’ironia, per più di un aspetto interessante.
Sensibile per tradizione familiare e inclinazione personale ai problemi dell’informazione e conoscitore come pochi del giornale vaticano e dei suoi meccanismi, il futuro Paolo VI rilevava come esso fosse un organo di stampa difficilissimo, con pochi mezzi ed esigenze del tutto speciali, in quanto giornale d’idee in un ambiente particolare come il Vaticano.
E tuttavia Montini di fronte ai problemi ricordava l’esperienza positiva e il ruolo unico svolto da “L’Osservatore Romano” nel periodo della seconda guerra mondiale, concludendo (con considerazioni intenzionalmente espresse al presente e valide di certo anche oggi) che sede, funzione, rete d’informatori e collaboratori, autorità e libertà, anzianità ed esperienza possono fare del quotidiano vaticano un organo di stampa di primissimo ordine.


BIBLIOGRAFIA

Tra le fonti, numeri speciali de “L’Osservatore Romano” sono stati pubblicati come supplementi, in occasione di anniversari del giornale, ai numeri del 31 maggio 1936 (per il settantacinquesimo), dell’1 luglio 1961 (per il centenario), del 13 dicembre 1981 (per il centoventesimo) e dell’1 luglio 1986 (per il centoventicinquesimo).

L’articolo di G. B. Montini, "Le difficoltà dell’Osservatore Romano”, pubblicato nel supplemento al numero dell’1 luglio 1961, è riprodotto, con un commento di N. Vian, nel “Notiziario” 17 (novembre 1988) dell’Istituto Paolo VI, pp. 17-20 (nello stesso numero alle pagine 7-10 è riprodotta e ugualmente commentata la presentazione dello stesso Montini al mensile “Ecclesia”). [Successivamente, l'edizione critica dell'articolo è uscita in G. B. Montini, "Discorsi e scritti milanesi (1954-1963)". Prefazione di Carlo Maria Martini. Introduzione di Giuseppe Colombo. Edizione coordinata da Xenio Toscani. Testo critico a cura di Gian Enrico Manzoni. Direzione redazionale di Renato Papetti. Con la collaborazione di Lino Albertelli - Rodolfo Rossi - Caterina Vianelli, Brescia, Istituto Paolo VI, 1997, pp. 4471-4475.]

Alcune lettere di Montini e poi di Paolo VI al responsabile de “L’osservatore della domenica” sono pubblicate da N. Vian, "Lettere a un giornalista vaticano. A Enrico Zuppi", nel “Notiziario” 28 (novembre 1994) dell’Istituto Paolo VI, pp. 7-17.

Notizie sul giornale sono pubblicate annualmente in "L’attività della Santa Sede" (a partire dal volume relativo al 1973).

Tra le numerose raccolte di articoli pubblicati sul quotidiano vaticano meritano di essere menzionate: G. Dalla Torre, "Azione cattolica e fascismo", Roma, 1964 (Minima, 2), G. De Luca, "Bailamme ovverosia pensieri del sabato sera", Brescia, 1963, e l’antologia di centocinquanta “Acta diurna”, che include il loro elenco completo, in G. Gonella, "Verso la II guerra mondiale. Cronache politiche. Acta diurna 1933-1940", Roma - Bari, 1979.

Dal 1985, altri testi e articoli pubblicati sul giornale sono riuniti tematicamente nei volumi della collana “Quaderni de ‘L’Osservatore Romano’” pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana. Raccolte della nuova serie degli “Acta diurna” (anonimi ma attribuibili a vari autori) sono in "Acta diurna 1984-87". Presentazione di R. Manzini, Città del Vaticano, 1987 (Quaderni de “L’Osservatore Romano”, 4) e in M. Agnes, "Acta diurna. Dieci anni di avvenimenti visti da Oltretevere", Torino, 1995.

Manca una storia complessiva e attendibile de “L’Osservatore Romano”. Relativamente abbondante è invece la bibliografia:

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