6 giugno 2007

Aggiornamento della rassegna stampa del 6 giugno 2007 (3)


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Rassegna stampa del 6 giugno 2007

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Bush va dal papa a chieder lumi su Ratisbona

di Paolo Rodari

La doppia richiesta è stata avanzata, tramite l’ambasciata degli Stati Uniti in Italia, direttamente dall’entourage del presidente George W. Bush.
E così, sabato prossimo, durante la tappa romana del suo tour europeo, il presidente degli Usa incontrerà prima il papa e poi, a meno di cambiamenti dell’ultima ora (l’appuntamento pare sia ancora in bilico), i vertici della comunità di Sant’Egidio, a Trastevere.
Secondo autorevoli fonti, sul piatto dell’incontro a porte chiuse col papa dovrebbe esserci innanzitutto la lectio che Benedetto XVI tenne lo scorso settembre a Ratisbona durante il viaggio apostolico in terra di Baviera.
Proprio quella. Proprio l’ampio discorso del 12 settembre 2006 dedicato al rapporto tra fede e ragione e nel quale il papa, per mostrare l’irragionevolezza della diffusione della fede mediante la violenza, prese spunto da un dialogo intercorso nel 1391 tra l’allora imperatore di Costantinopoli, Manuele II Paleologo, e un dotto musulmano della Persia.
Un dialogo in cui Manuele II si chiedeva cosa di buono avesse mai portato Maometto se non «cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».
Parole, queste ultime, che scatenarono violente reazione in gran parte del mondo islamico connesse a esplicite minacce di morte rivolte allo stesso pontefice.
Benedetto XVI più volte, dopo il bailamme seguito a Ratisbona, ha spiegato quello che lui ha definito «il senso autentico» del discorso ratisboniano.
Un «senso» che, evidentemente, Bush intende approfondire meglio se è vero che è anche - e soprattutto - sul confronto-scontro col mondo islamico che egli ha caratterizzato il suo doppio mandato alla casa Bianca.
Certo, la politica nei confronti dell’islam tenuta da Bush e dal Vaticano (Wojtyla prima, Ratzinger oggi) è corsa - e corre - su due binari dissimili. La Santa Sede ha da sempre tenuto un atteggiamento di distanza dal piano di lotta al terrorismo di Bush e, di conseguenza, dall’intervento americano in Iraq. La distanza è sostanziale e, probabilmente, Benedetto XVI approfitterà del vis a vis col presidente per sottolinearla e, insieme, per rimarcare come, a conti fatti, chi oggi sta uscendo più malconcio dal conflitto sia il popolo iracheno, cristiani compresi.
Tra l’altro, se c’è una cosa che Ratisbona insegna a tutti - anche a Bush -, è che per Benedetto XVI la pace si ottiene sì senza rinunciare alla propria identità ma pur dentro un’ottica di dialogo e di confronto che deve avere sempre la meglio sulla violenza e su ogni giustificazione all’uso della violenza.
All’incontro col papa seguirà, per Bush, quello con i responsabili diretti della diplomazia vaticana: il segretario di Stato Tarcisio Bertone e il “ministro degli esteri” della Santa Sede, monsignor Dominique Mamberti. Quest’ultimo è stato portato da Ratzinger in segreteria di Stato proprio pochi giorni dopo la lectio di Ratisbona.
Navigato diplomatico esperto di islam e di rapporti multilaterali e, per un periodo inviato per il Vaticano a New York alla sede dell’Onu, a Mamberti il pontefice ha chiesto di avere un particolare occhio di riguardo nei rapporti diplomatici col mondo islamico. Rapporti che oggi il papa vuole intensi e continuativi se è vero - come pare sia vero - che le sue prossime mosse saranno quelle di far rivivere quale dicastero autonomo il pontificio consiglio per il Dialogo Interreligioso (era stato unito al dicastero della Cultura) e, insieme, di portare in segreteria di Stato a fianco di Bertone e di Mamberti, monsignor Ferdinando Filoni, al posto attualmente occupato da monsignor Leonardo Sandri.
Filoni, oggi nunzio apostolico nelle Filippine, era dal 2001 nunzio in Medio Oriente e precisamente - guarda caso - in Iraq e in Giordania.
Ovviamente, al centro del colloquio privato Ratzinger-Bush vi saranno anche altri temi che segnano ulteriori distanze, ma anche vicinanze, tra i due. Tra le vicinanze, soprattutto le iniziative di Bush in difesa della vita, in particolare nella lotta all’aborto.
Quanto all’incontro con la comunità di Sant’Egidio, i dettagli restano tutti da decifrare. Dalla sede trasteverina della comunità nulla trapela. Anche perché, la visita a Trastevere resta complicata sotto il profilo della sicurezza, a causa dei diversi cortei anti Bush. La comunità di Sant’Egidio è conosciuta negli ambienti della Casa Bianca per il notevole impegno nel sociale. Un impegno noto anche all’ambasciata statunitense in Italia, che per prima si è mossa per organizzare l’incontro romano. Certo, anche nei confronti della comunità di Sant’Egidio l’amministrazione Bush sconta differenze rilevanti dal punto di vista politico e diplomatico. Ma, forse, sul piano della lotta globale all’aids - Sant’Egidio vi lavora da anni soprattutto grazie al progetto “Dream” - e alle malattie e alle povertà nel Sud del mondo i punti di contatto possono essere diversi. E poi, un incontro non si nega a nessuno, soprattutto se a chiederlo è direttamente il presidente degli Stati Uniti.

Il Riformista, 5 giugno 2007


LA FEDE DEI POPOLI

Dall’Università Europea di Roma laurea honoris causa in giurisprudenza al porporato che ha tenuto una «Lectio magistralis» sulla Santa Sede nel quadro istituzionale del vecchio continente

Sodano: l’Europa non trascuri le sue radici

Dal cardinale il richiamo al ruolo del cristiani nell’edificare la casa comune e l’invito a «lavorare nel solco tracciato dal Papa per un futuro di rinnovata speranza»

Da Roma Mimmo Muolo

«L'Europa non è solo una geografia. È anche una storia, una cultura, un'eredità di valori condivisi». Perciò deve ascoltare l'appello di Benedetto XVI. Non si può pensare, infatti, «di edificare un'autentica casa comune» a livello continentale, «trascurando l'identità dei popoli» che la compongono. Un'identità che «il cristianesimo ha contribuito a forgiare», acquisendo così «un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti del continente». Il neodottore in giurisprudenza, cardinale Angelo Sodano, termina così la sua lezione magistrale, subito dopo aver ricevuto dall'Università Europea di Roma la laurea ad honorem nelle scienze giuridiche, la prima conferita dall'Ateneo fondato nel 2005. E il lungo applauso della platea - composta da cardinali, vescovi, docenti universitari, studenti e seminaristi dell'Ateneo promosso dalla Congregazione dei Legionari di Cristo - fa intendere che l'auspicio conclusivo del discorso («Se ci impegneremo a lavorare nel solco tracciato dal Papa, potremo guardare al futuro con rinnovata speranza») è ampiamente condiviso.
Il solenne atto accademico si svolge in una cornice festosa, scandita da alcuni brani di musica e dai discorsi ufficiali. Il rettore dell'Università Europea, padre Paolo Scarafoni, legge il messaggio inviato, a nome del Papa, dal cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Vi si ricordano i «lunghi anni di generoso e competente servizio alla Sede Apostolica» e gli «interventi di alto profilo anche nell'ambito del diritto internazionale» del cardinale già segretario di Stato e ora decano del collegio cardinalizio. «Il riconoscimento che a lui viene attribuito - ricorda, dunque, il messaggio - è un gesto di gratitudine per la dedizione con cui Sodano ha servito la Chiesa». Infine i «fervidi rallegramenti» del Pontefice «a chi gli è stato prezioso primo collaboratore» (ai quali Bertone aggiunge i propri) concludono il telegramma che si può considerare un condensato delle motivazioni della laurea ad honorem.
Quelle ufficiali, lette dal coordinatore della Facoltà di giurisprudenza, Giuseppe Valditara, ricordano che Sodano ha «ripristinato l'istituto della mediazione, inteso in senso giuridico, specialmente per la realizzazione dell'accordo di pace tra Cile e Argentina, firmato a Roma, presso la Santa Sede come ente sovrano»; che ha contribuito «a concludere a nome della Santa Sede, alcuni concordati e ad aggiornarne altri»; che l'ex segretario di Stato «è intervenuto presso le organizzazioni internazionali (come l'Onu) per la promozione e l'affermazione del diritto umanitario in tempo di guerra, per il diritto di famiglia e per i diritti dei bambini»; e infine che «ha seguito con particolare interesse, a nome della Santa Sede, l'evoluzione del Consiglio d'Europa, dell'Unione Europea e dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa)».
La grande esperienza di Sodano nell'ambito del diritto internazionale viene sottolineata anche da Cesare Mirabelli (docente del corso di laurea in Giurisprudenza), che pronuncia la «laudatio». Il giurista ne ricostruisce la personalità e l'opera, la inquadra sullo scenario più vasto di una famiglia da sempre attenta ai problemi del sociale (il padre del cardinale, Giovanni Sodano, fu deputato per tre legislature) e soprattutto la mette in rapporto con l'incessante e preziosa attività diplomatica vaticana.
Un'attività alla quale non può non fare riferimento lo stesso porporato nella sua lectio magistralis su La Santa Sede nel quadro istituzionale europeo («ho avuto la gioia di vedere stabiliti rapporti diplomatici ufficiali tra la Santa Sede e 20 stati europei»). Ma il suo sguardo è anche proiettato sul futuro. Dopo la «delusione per il mancato riconoscimento nel Trattato costituzionale delle radici cristiane del nostro continente» (soprattutto a causa della «ideologia laicista di alcuni politici»), la prossima presidenza portoghese dell'Unione «cercherà un possibile rimedio, proponendo un nuovo testo del Trattato», afferma. «È innegabile - conclude infatti - che il processo di integrazione tra stati omogenei europei ha bisogno di essere perfezionato». E la Santa Sede «confida nella saggezza dei Legislatori, chiamati a riconoscere i dati inconfutabili della storia europea».

Avvenire, 6 giugno 2007


Perché la chiesa viene ritenuta arrogante quando parla di sesso e innocua quando parla di povertà

I poveri ci sono sempre stati, da che mondo è mondo. Con la loro pervicace, inopportuna, fastidiosa presenza non hanno mai smesso di corrodere la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità ma al tempo stesso sono sempre stati indispensabili, hegelianamente, alla dialettica del potere: la commedia umana funziona con padroni e servi. A sparigliare il gioco una volta per tutte interviene il messaggio evangelico dove ha luogo un ribaltamento: vi si annuncia un Dio povero, bestemmia inaudita per quelli che benpensano, che smitizza il potere e toglie sacralità alla violenza.
Gesù di Nazaret identifica la sua sorte con i pitocchi, i reietti della società, e invita i suoi sbalorditi seguaci a fare altrettanto. Eredi di questa eresia, i credenti da duemila anni a questa parte ci stanno provando con risultati alterni e sempre discutibili (la cura verso i poveri resta il termometro della salute
del corpo ecclesiale). Ma con un punto fermo: “La chiesa non può mai essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d’altra parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore” (Benedetto XVI, enciclica “Deus caritas est”).

L’elogio della precarietà

La pretesa dei credenti in questo campo viene sottovalutata. Tanto vengono tacciati di arroganza quando parlano di sesso e dintorni quanto sono ritenuti innocui quando si tratta di carità. Generalmente si pensa che essi vogliano sì fare del bene, organizzare la solidarietà, prestare assistenza, ma senza che ciò implichi una critica dell’ordine mondano, a maggior ragione oggi che i furori ideologici degli anni Sessanta e Settanta (chiesa dei poveri, teologia della liberazione) sono sbandierati da soggetti poco più che folkloristici e la beneficenza è un dogma mediatico.
Quando però si presta attenzione al fatto che il vero obiettivo della carità è quello di rendersi degni dei poveri, e non viceversa,
e che il modello di riferimento è il discorso della montagna, allora si percepisce una carica eversiva sulla quale le solite etichette ermeneutiche (destra/sinistra, progressisti/conservatori) non fanno presa. “Beati i poveri” è una promessa tutta da decifrare. Ripeterla oggi suona addirittura come un’offesa. I dati Istat e Caritas dipingono un quadro fosco: la divaricazione tra nuovi ricchi e masse impoverite, con il contestuale assottigliamento dei ceti medi, rende sempre più evanescente un discorso sul bene comune. Un attento osservatore come Giorgio Ruffolo vede il formarsi di “una società terribilmente più diseguale” non più secondo la suddivisione classista descritta da Marx, ma per lo “sgranamento di una maratona sociale”, una corsa sfiancante che vede in testa i super- ricchi (grandi azionisti, manager, speculatori) seguiti da una teoria sfilacciata di gruppi intermedi, quindi dai lavoratori e impiegati “minori”, infine da “disoccupati, emarginati e reietti”. Il povero, osserva Zygmunt Bauman, è ormai l’“homo sacer”, nel senso letterale rigorosamente separato dall’“homo consumens”; un uomo sacro di cui si ha terrore, da confinare.
Ecco, poveri ed esclusi, termini evangelici comuni nel lessico ecclesiale, sono diventati “parole tossiche” nell’attuale ipermodernità economica, sociale e politica (Serge Latouche). Per questo parlare di povertà, vangelo alla mano, è un’eresia. Da
non prendere alla leggera. Lo spiega bene Dietrich Bonhoeffer in “Sequela”Novecento: “I discepoli vivono in ristrettezze in ogni campo. Sono semplicemente ‘poveri’.
Nessuna sicurezza, nessun possesso, da poter rivendicare, nessun pezzo di terra, da poter chiamare patria, nessuna comunità terrena, di cui far parte integralmente.
E neppure una propria forza spirituale, una propria esperienza o conoscenza a cui richiamarsi, con cui confrontarsi. Per amor suo hanno perduto tutto ciò. Ponendosi alla sua sequela, hanno perduto anzi anche sé stessi, e di conseguenza tutto ciò che poteva arricchirli”. Ma chi oggi fa un simile elogio della precarietà non è forse un arrogante? O un idiota?

Critica dell’affanno e disciplina degli affetti

La contraddizione è palese: per il cristiano i poveri sono i destinatari del messaggio di salvezza, ma tale messaggio chiede che i suoi destinatari siano strappati dalla condizione di indigenza. Il problema è che il legame carità/povertà ha un’evidenza teologica immediata, proprio per questo impossibile da sciogliere se non personalmente. Solo sulla propria pelle si risolve il dilemma tra sfamare i poveri o imitarli. D’altronde il dilemma non è fittizio:
diventare uno di loro mentre si prova a sfamarli, e viceversa, mette a nudo il nodo antropologico di fondo, il possesso, che spesso e volentieri – radicali (carisma) o realisti (istituzione) è lo stesso – si fa di tutto per non affrontare confidando proprio in quella disgiunzione: se sfamo i poveri ma li tengo a debita distanza faccio della beneficenza che non mette in discussione il mio stile di vita, se li imito e vendo ogni cosa ho sgomberato il campo derisioma mi trovo davanti a un bivio: fanatico o discepolo? Il primo disprezza i beni perché li teme, il secondo li usa per quello che servono, impara insomma a vivere alla giornata. Che è ciò che conta: “Non affannatevi per il domani, a ciascun giorno basta la sua pena”. Invece il pensiero del domani mi espone a un affanno infinito, a un’ansia insaziabile. La povertà è in fondo una questione affettiva: “Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. Si peccherebbe di superficialità a rubricare come sentimentalistiche queste considerazioni che hanno una robusta valenza politica.
Lo dimostra la riflessione di Martha Nussbaum sulle emozioni come luogo del pensiero dove si costruisce una cittadinanza fondata sulle relazioni. Un approccio inedito che ha bisogno di un linguaggio nuovo della politica e del sociale.

Nella società dello spettacolo

Oggi dal discorso pubblico non è rimossa tanto la povertà, di cui si disquisisce fin troppo in termini sociologici, quanto la domanda
di senso che sottintende. Un appello che si perde facilmente nel rumore bianco della comunicazione. In effetti non ha torto un teologo come Pierangelo Sequeri quando osserva che “il tema della
povertà sta nel modo in cui la chiesa affronta oggi l’ossessione della comunicazione, che è la forma tipica dell’economia moderna, globale, la forma contemporanea del potere propriamente economico.
Chi non comunica, non esiste e anche se ha dei beni non può farne niente”. Una certa ingenua fiducia nelle virtù evangelizzatrici dei mass media è palpabile: della beneficenza come simulacro della società dello spettacolo s’è già detto, ma una riflessione analoga si potrebbe fare a proposito del volontariato, ovvero la solidarietà
militante alternativa alla politica – quando invece la carità (o il servizio, per chi non s’impegna sulla fede) è la forma più nobile della politica. Di conseguenza anche la chiesa è vista – e non di rado vede se stessa – come un’agenzia assistenziale erogatrice di eccellenti servizi per il consumatore, spesso in supplenza di una
macchina statale ottusa e inerte e di un privato avido e indifferente. D’altronde sottrarsi alla logica mercantile non è facile – e non sempre opportuno – se la metafora economica, l’investimento, è la lingua della speranza cristiana (“Accumulate tesori in cielo”). Resta il fatto che la retorica del dialogo e della prossimità è troppo simile alle strategie del marketing:
se non comunichi non esisti, ma la comunicazione tende a esaltare la beneficenza e a evacuare la carità (“Quando fai l’elemosina,non suonare la tromba davanti a te”). I poveri sono ben altro, una spina nel fianco, uno specchio sempre torbido, una domanda insostenibile. C’è una dimensione escatologica che non va sottaciuta (anche se la penuria di figure carismatiche, Luigi Di Liegro, Tonino Bello, si fa sentire): l’uomo a pancia piena non capisce, è come le bestie che crepano.

Carità nell’epoca del neoproletariato

Osare un discorso pubblico sulla carità, dunque. Ma qui viene il bello, perché il paesaggio umano è irriconoscibile. Nessuno vuole più dirsi del popolo, nasce quel neoproletariato magistralmente descritto da Tommaso Labranca che sogna fitness, fashion e fiction, mentre “povero” è sinonimo di colui che non è “cool”. Detto altrimenti, i poveri si indebitano per ottenere i beni di lusso e proteggersi dalla derisione, come nota Zygmunt Bauman nel suo saggio “Homo consumens”. Perché il mistero della povertà non evapori nella nebbiolina dei palinsesti e dei rotocalchi, mentre i poveri continuano a esserci, c’è bisogno che qualcuno risvegli le coscienze raccontando quello che vede intorno a sé, come osservava Flannery O’Connor: “Kipling diceva di non scacciare i poveri dalla
soglia di casa, se vuoi scrivere racconti.
Credo intendesse che, siccome i poveri hanno meno bambagia a proteggerli dalla brutalità della vita, per il romanziere è fonte di soddisfazione sapere che li avremo sempre con noi. Ma tanto il romanziere li avrà sempre con sé, perché riesce a trovarli ovunque. Proprio come agli occhi di Dio siamo tutti bambini, agli occhi del romanziere siamo tutti poveri, e il povero vero e proprio è per lui soltanto simbolo della condizione di tutti gli uomini. Chiunque scriva dei poveri per metterne in luce semplicemente l’indigenza materiale, ecco che si comporta da sociologo, non da artista.
La povertà descritta da quest’ultimo è tanto essenziale da non aver nulla a che fare col denaro”. Piuttosto è in gioco la democrazia chiamata a raccogliere la sfida decisiva: “Tradurre le sofferenze private in questioni pubbliche” (Bauman). E’ lo sprone del poeta: “Voi vivete invece dispersi su strisce di strada, e nessuno sa né si cura di sapere chi sia il suo vicino, a meno che lo disturbi troppo. Quando lo straniero dirà: qual è il significato di questa città? Vi ammassate, o vivete insieme perché vi amate l’un l’altro? Cosa risponderete?
Siamo insieme per cavare denari l’uno dall’altro o risponderete: questa è una comunità?” (Thomas Stearns Eliot, “Assassinio nella cattedrale”).

Marco Burini

Il Foglio, 5 giugno 2007

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