18 agosto 2008

"Ecco la gioia che non si può taroccare, parola di Papa Benedetto" (Rondoni)


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PAROLA DI PAPA

ECCO LA GIOIA CHE NON SI PUÒ TAROCCARE

DAVIDE RONDONI

Ha parlato, ancora una volta, della gioia.

Lui, il capo della fede che secondo tan­ti che non la conoscono renderebbe tristi. Ha parlato ancora di gioia. Ha avuto il co­raggio che i più non hanno.

Anche coloro che parlano di felicità attraverso mille spot, mille promesse, mille seduzioni, in realtà parlano di una gioia che non dura. Che non sopporta prove serie. Che se ne va come la schiuma delle onde. Loro parlano di una gioia momentanea, cioè illusoria. Lui inve­ce continua a parlare della gioia che non se ne va, che aumenta fino a compiersi. Lo ha fatto da subito e ci torna su spesso. E ieri ha usato una frase strana.

Ricordando la festa della Madonna Assun­ta, cioè di carne e sangue presi in cielo, ha detto che si può «vivere e morire il quoti­diano » rivolti verso la gioia. Ha detto proprio così: vivere e morire il quotidiano. Perché lo sappiamo bene che ogni giorno si vive e si muore.
E dunque il Papa, che non tira a in­gannare la gente, cioè noi, non potrebbe dirci che la gioia riguarda una quotidianità in cui solamente si vive. Perché nella quo­tidianità anche si muore. Lo sappiamo be­ne. Lo vediamo intorno a noi, nelle mille notizie o immagini che ci arrivano. Nella mor­te altrui. E lo vediamo anche nella morte no­stra.
Lo diceva il gran poeta: la morte si sconta vi­vendo. E il Papa parla di gioia a noi che tutti i giorni viviamo e tutti i giorni moriamo. Perché i giorni passano e per­ché nella vita si fa espe­rienza della morte in molti modi. Insomma a noi, mortali, il Papa vie­ne a parlare di gioia. Di quella vera. Che non teme la prova della morte. La gioia vera dei mortali. Non dei finti uomini. Perché la gioia finta è quella che deve dimenticare che si vi­ve e si muore. E si propone come gioia per­ché 'ferma' o 'rallenta' l’attimo di godi­mento, o di piacere. È una gioia taroccata, o meglio che vale solo per vite taroccate. Per vite che fingono di non morire (alla fine e tutti i giorni, nel limite o anche nel dolore per la morte altrui).
Nel suo discorso di Fer­ragosto e in quella frase 'strana' ci sta una sapienza, una esperienza di cosa è la gioia che fa quasi venire i brividi e il magone. Per­ché è come se dicesse: la gioia si può speri­mentare anche se c’è il dolore, anche se c’è la sofferenza, e il limite. La gioia vera è più dura, più profonda, più ricca di futuro di o­gni limite e dolore. In questa nostra società sentimentale e manichea, invece, i più pen­sano che dove c’è dolore non ci può essere gioia. Pensano che dove c’è l’uno non ci può essere l’altra. E dunque sono costretti a pen­sare che la gioia riguarda solo i 'perfetti', i ricchi, i senza problemi, senza vene varico­se, senza difetti, senza peccati, senza dolo­ri. Senza vita insomma. Gioia finta per uo­mini finti. E spacciano per gioia la pura e semplice dimenticanza della vita. Un dro­ghetta passeggera, insapore.

Invece il Papa ha detto di guardare il cielo, che è come dire guardare il Mistero, per co­noscere un gioia che non se ne va. E di con­siderare la vita come un viaggio verso una possibile gioia piena. È la gioia del viaggia­tore avventuroso, quella che qui dà i suoi segni veri, i suoi anticipi. Ha detto di alzare gli occhi. Per gustare veramente le gioie che, nel quotidiano dove si vive e si muore, ci passano e splendono sotto gli occhi.

© Copyright Avvenire, 17 agosto 2008

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