21 marzo 2007

Papa Ratzinger, due anni nel segno dell’essenzialità


Il sito Korazym segnala questa importante analisi sui due anni di Pontificato di Papa Benedetto.

Alle scelte di governo di Benedetto XVI è dedicato un articolo sul primo numero di “Vita e Pensiero” del 2007 (pp. 20-26). Ecco il testo di Gian Maria Vian.

Papa Ratzinger, due anni nel segno dell’essenzialità
di Gian Maria Vian

Semplificazione, decentramento, servizio, esemplarità: sulla scia del Vaticano II non separato dalla tradizione sembrano queste le linee ispiratrici delle trasformazioni che Benedetto XVI vuole imprimere alla curia e al volto del papato

Quali le scelte – e soprattutto le scelte di governo – di Benedetto XVI mentre si avvicinano il suo ottantesimo compleanno e l’inizio del terzo anno di pontificato, i prossimi 16 e 19 aprile? Nel primo messaggio papale del 20 aprile 2005 il neoeletto ha delineato il compito del nuovo vescovo di Roma: “far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo”. E nell’omelia durante la messa “per l’inizio del ministero petrino”, il pontefice non ha presentato un “programma di governo” perché il “vero programma”, ha spiegato, “è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui”.
E questo ha fatto sinora papa Ratzinger, muovendosi nell’ambito del governo con cautela e discrezione, davanti a osservatori e a professionisti dell’informazione religiosa e vaticana piuttosto sconcertati dall’assenza di indiscrezioni attendibili. E che in più di un’occasione hanno mostrato scarse possibilità (o volontà) di comprensione – clamoroso è stato in questo senso lo stravolgimento della lezione di Ratisbona – di fronte a un magistero della parola tanto eccellente quanto incisivo: insegnamenti e interventi normalmente di qualità molto alta, contrassegnati tuttavia da trasparente chiarezza e seguiti da un crescente numero di fedeli, ascoltatori e lettori.

In un abbozzo di periodizzazione due sono apparse le date importanti nel corso del 2006. La prima è stata segnata dalla pubblicazione, il 25 gennaio, dell’enciclica “programmatica” sull’amore di Dio, mentre la seconda, in maggio, ha simbolicamente chiuso l’esordio del pontificato con il viaggio in Polonia, la terra amatissima del suo predecessore. Ma già a febbraio papa Ratzinger ha di fatto intrapreso il rimodellamento dell’organo del governo papale, all’insegna della semplificazione e del ritorno all’essenziale: con lo scopo appunto di lasciare risplendere “non la propria luce, ma quella di Cristo”. Sisto V riformò la curia nel terzo anno di regno, Pio X e Paolo VI nel quinto di pontificato e nel decimo Giovanni Paolo II, ma è molto difficile ipotizzare se e quando Benedetto XVI provvederà a una riforma generale, come invece probabilmente farà per le norme che regolano l’elezione del vescovo di Roma, modificate da quasi tutti i pontefici del Novecento.

I primi provvedimenti curiali del nuovo papa risalgono però già al 2005, non a caso in due ambiti che gli stanno molto a cuore, quello dottrinale e quello liturgico: dapprima con la nomina del suo successore alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, William J. Levada, e quindi del segretario per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Albert M. R. Patabendige Don. Per questi ruoli Benedetto XVI ha scelto ecclesiastici accomunati da due caratteristiche importanti. Entrambi sono infatti non europei – il primo statunitense, il secondo cingalese – ed entrambi sono stati vescovi residenziali (anche se l’itinerario del prelato asiatico ha compreso poi brevi tappe in curia e nella diplomazia).

Preceduta da queste nomine, la riforma curiale è stata avviata con una decisione inattesa (e una coincidenza forse non casuale). Nel febbraio 2006 – proprio nel giorno in cui ha concluso il ciclo delle catechesi durante le udienze generali del mercoledì già predisposto per Giovanni Paolo II e che con delicatezza ha voluto portare a termine – Benedetto XVI ha infatti nominato nunzio apostolico in Egitto e presso l’Organizzazione della Lega degli Stati Arabi il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. E poco più tardi il papa ha affidato temporaneamente questo organismo – istituito nel 1964 da Paolo VI come Segretariato per i non Cristiani – al presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

Una misura analoga è stata nello stesso tempo adottata per il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, guidato da un cardinale giapponese, la cui rinuncia per limiti di età è stata accettata (e i cui commenti critici, in un’intervista, nei confronti di questa decisione papale – che avrebbe mostrato, secondo l’anziano porporato nipponico, scarsa considerazione per il continente asiatico – hanno suscitato sorpresa). Al suo posto è stato chiamato il presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. In entrambi i casi è stato specificato che i provvedimenti hanno carattere temporaneo, e l’interpretazione più probabile di questa precisazione è che i due organismi saranno ristrutturati. Allo stesso modo altri “consigli” – dicasteri minori introdotti nella curia romana a partire dal 1960 e consolidati soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II fino a raggiungere il numero di undici – potrebbero essere raggruppati.

La successiva importante scelta di papa Ratzinger relativa alla curia ha riguardato una congregazione di prima grandezza, l’antica Propaganda. Al compimento del quinquennio (scadenza introdotta da Paolo VI e confermata da papa Wojtyła), il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli è stato infatti nominato alla guida della diocesi di Napoli. Il trasferimento del “papa rosso” – così è chiamato nel gergo curiale il prefetto di Propaganda per sottolinearne gli ampi poteri – in una diocesi residenziale, sia pure di prestigio, è stato inconsueto ma significativo, anche perché per sostituirlo Benedetto XVI ha chiamato in maggio un terzo extraeuropeo (e un secondo asiatico) dopo le nomine del 2005, il cardinale arcivescovo di Bombay, Ivan Dias, diplomatico di lunga esperienza ed ecclesiastico di sicuro indirizzo dottrinale.

In giugno poi sono state annunciate le nomine del nuovo segretario di Stato e del presidente del governatorato vaticano, avvenute in settembre: il primo è il salesiano Tarcisio Bertone, arcivescovo di Genova, e in precedenza principale collaboratore del cardinale Ratzinger come segretario della Congregazione per la dottrina della fede; il secondo è Giovanni Lajolo, diplomatico, amministratore e segretario per i rapporti con gli Stati, sostituito in questa carica dal nunzio in Sudan, il francese Dominique Mamberti, grande conoscitore del mondo islamico. Uomo di assoluta fiducia del pontefice, il cardinale Bertone è estraneo alla formazione e alla carriera diplomatica, comuni invece alla quasi totalità dei segretari di Stato (con l’eccezione rilevante, tra il 1969 e il 1979, del francese Jean Villot, vescovo residenziale e poi cardinale di curia prima che Paolo VI lo nominasse suo primo collaboratore). Alla fine di ottobre è poi arrivata la chiamata in curia di un altro vescovo residenziale extraeuropeo, il francescano Cláudio Hummes, cardinale arcivescovo di São Paulo, come prefetto della Congregazione per il Clero.

Al segretario di Stato è affidata l’esecuzione delle grandi scelte del pontificato: l’attuazione del concilio Vaticano II in continuità con la tradizione, secondo linee spiegate dal papa il 22 dicembre 2005; l’impegno per l’unità dei cristiani, con particolare attenzione alle Chiese ortodosse; infine, il dialogo con i credenti delle altre religioni e le diverse civiltà, soprattutto con il mondo islamico. E funzionale alla messa in opera di queste linee sarà la trasformazione della curia, già avviata e segnata dallo stile fermo e mite caratteristico di un papa che è teologo e pastore: Benedetto XVI ha infatti dimostrato, con la parola e i gesti, l’inconsistenza dell’artificiosa invenzione che, non per caso già a partire dall’ultima sede vacante, contrapponeva sui media il profilo severo del teologo (se non addirittura del “grande inquisitore”) a quello di non meglio precisati modelli di pastori.

La semplificazione sembra essere la parola chiave delle scelte del governo di papa Ratzinger. Con uno scopo evidente: quello di “nulla anteporre a Cristo”, secondo le parole di san Benedetto fatte programmaticamente proprie dal pontefice che ne ha assunto il nome. Senza strappi o innovazioni, ma piuttosto valorizzando alcuni elementi della riforma paolina del 1967, confermati nel 1988: tra i principali, la collaborazione di vescovi residenziali con gli organismi curiali (auspicata dal Vaticano II e sancita nel 1967 dal motuproprio Pro comperto sane), l’internazionalizzazione – che venne preceduta da quella del collegio cardinalizio, avviata da Pio XII con il grande concistoro del 1946, appena concluso lo spaventoso conflitto mondiale – e l’avvicendamento dei curiali grazie all’introduzione del limite temporale di un quinquennio (sia pure rinnovabile).

E positive saranno certo le conseguenze sul piano ecclesiologico, e anche ecumenico, derivanti da una semplificazione, o meglio da una “essenzializzazione” – per usare un termine di Romano Guardini, caro al teologo Ratzinger – della curia romana. Benedetto XVI sembra essere specialmente attrezzato per porre mano a questa essenzializzazione della curia. Se infatti come teologo Ratzinger ha più volte mostrato di non attribuire un’eccessiva importanza alle strutture della Chiesa, inevitabilmente legate alle contingenze storiche, come responsabile per oltre ventitré anni della più importante congregazione curiale è stato testimone diretto della crescita recente della curia romana, che l’ha portata anche a un appesantimento attraverso la moltiplicazione degli organismi.

A una sobria e più tradizionale essenzialità come tratto distintivo della curia del vescovo di Roma rimandano anche la riduzione delle udienze e delle celebrazioni pontificie e le scelte della prima creazione cardinalizia, tenuta nel marzo 2005: l’elenco dei nuovi porporati – dodici con diritto di elettorato attivo in conclave, più tre ultraottantenni, nel rispetto del limite di 120 elettori introdotto da Paolo VI e più volte superato da Giovanni Paolo II – comprende tre curiali e nove vescovi residenziali. Non sono invece stati creati cardinali i presidenti di due consigli, mentre l’unico diplomatico ha più di ottant’anni. La presenza della curia (e della diplomazia pontificia) appare dunque qualificata ma contenuta.

Chiamato a Roma da Giovanni Paolo II nel 1981, Ratzinger conosce come pochi la curia di Wojtyła e la sua evoluzione. Non è quindi un caso se appena un mese dopo l’elezione, il 21 maggio 2005, Benedetto XVI ha visitato la Segreteria di Stato, improvvisando un discorso che presenta in filigrana anche la sua concezione del governo centrale della Chiesa: “Alla competenza e alla professionalità del lavoro che viene fatto qui, si aggiunge anche un aspetto particolare, una professionalità particolare: fa parte della nostra professionalità l’amore per Cristo, per la Chiesa, per le anime. Noi non lavoriamo – come dicono molti del lavoro – per difendere un potere. Non abbiamo un potere mondano, secolare. Non lavoriamo per il prestigio, non lavoriamo per far crescere una ditta o qualcosa di simile. Noi lavoriamo realmente perché le strade del mondo siano aperte a Cristo. E tutto il nostro lavoro, con tutte le sue ramificazioni, alla fine serve proprio perché il suo Vangelo, e così la gioia della Redenzione, possa arrivare nel mondo”. Così, ha concluso, siamo “collaboratori della Verità, cioè di Cristo, nel suo operare nel mondo, affinché realmente il mondo divenga il Regno di Dio”.

In senso analogo Paolo VI aveva parlato della curia nel discorso del 21 settembre 1963, paradigma di riferimento per ogni riforma dell’organismo centrale della cattolicità. Nella visione montiniana la curia papale ha la funzione “d’essere custode o eco delle divine verità e di farsi linguaggio e dialogo con gli spiriti umani”, poi “di ascoltare e di interpretare la voce del Papa e al tempo stesso di non lasciar a Lui mancare ogni utile ed obbiettiva informazione”. Secondo il papa, poi, l’intenzione riformatrice trovava “la Curia stessa all’avanguardia di quella perenne riforma, di cui la Chiesa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha perpetuo bisogno”, perché proprio da Roma “in questi ultimi cento anni è venuto quel governo regolare, indefesso, coerente, stimolatore che ha portato la Chiesa intera al grado non solo di espansione esteriore, che tutti devono riconoscere, ma di sensibilità e di vitalità interiore”. E constatava: “Oggi, per fortuna, S. Bernardo non scriverebbe più le sue pagine brucianti sul mondo ecclesiastico romano, nè le loro i riformatori del secolo decimosesto. Roma papale oggi è ben altra, e, per grazia di Dio, tanto più degna e più saggia e più santa; tanto più cosciente della sua vocazione evangelica, tanto più impegnata nella sua missione cristiana, tanto più desiderosa, suscettibile, perciò, di perenne rinnovamento”.

Di fronte ai curiali Paolo VI si schierava con i riformatori e delineava la trasformazione poi decisa nel 1967. Queste riforme, rassicurava, “saranno dalla Curia stessa formulate e promulgate! Non avrà perciò timore, ad esempio, la Curia Romana, d’essere reclutata con più larga visione sopranazionale, nè d’essere educata da più accurata preparazione ecumenica”, ed essa non sarà “avara di sue facoltà che, senza ledere l’ordine ecclesiastico universale, oggi l’Episcopato può da sè e localmente meglio esercitare”, perché “non è un corpo anonimo, insensibile ai grandi problemi spirituali”, e nemmeno “una burocrazia, come a torto qualcuno la giudica, pretenziosa ed apatica, solo canonista e ritualista, una palestra di nascoste ambizioni e di sordi antagonismi, come altri la accusano”, ma “una vera comunità di fede e di carità, di preghiera e di azione”. In questo modo, concludeva Paolo VI ricorrendo a un’immagine evangelica a lui cara, “come lucerna sul candelabro questa antica e sempre nuova Curia Romana” farà luce a quanti sono nella Chiesa intera.

Semplificazione, decentramento, servizio, esemplarità. Sulla scia del Vaticano II non separato dalla tradizione e della riforma montiniana sembrano queste le linee ispiratrici delle trasformazioni che Benedetto XVI vuole imprimere alla curia e al volto del papato: semplificando, decentrando, valorizzando le competenze dei singoli organismi (coordinati con efficacia ma non sostituiti dalla Segreteria di Stato), promuovendo una comunione rinnovata tra Roma e le Chiese locali. Grazie al metodo del confronto e della collegialità, adottato per esempio nell’incontro del gennaio 2007 sulla Cina. Un metodo a cui Joseph Ratzinger – da teologo, da vescovo, da cardinale di curia – è rimasto costantemente fedele. Per guardare sempre all’essenziale e al servizio della verità, senza nulla anteporre a Cristo.

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