27 marzo 2007

La misericordia e la responsabilita'


Di seguito possiamo leggere alcuni articoli di commento alla bellissima omelia tenuta dal Papa domenica scorsa, presso la parrocchia di Santa Felicita e Figli Martiri, presso la borgata di Fidene.
Vedi anche:

Ratzinger, con quel volto da fanciullo ottantenne...

Nell'omelia di ieri il "segreto" della Chiesa

Commenti e riflessioni...




ATTORNO A PIETRO

«L'Inferno esiste per chi rifiuta Dio»

Durante la visita alla parrocchia romana di Santa Felicita, domenica Benedetto XVI ha ricordato la necessità di saper accogliere il perdono divino

Di Matteo Liut

Se ne parla poco nel nostro tempo eppure l'Inferno esiste ed è eterno «per quanti chiudono il cuore all'amore di Dio». A ricordarlo è stato il Papa che domenica ha visitato la parrocchia romana di Santa Felicita e figli martiri nel quartiere Fidene.
Accolto dal vicario di Roma, il cardinale Camillo Ruini, dal vescovo ausiliario di settore monsignor Enzo Dieci, dal superiore dei Vocazionisti Ludovico Caputo e dal parroco don Eusebio Mosca, Benedetto XVI prima di entrare in chiesa si è rivolto «a braccio» ai fedeli presenti: «Saluto tutti voi, il cardinale vicario ma soprattutto voi fedeli: avete questa bella chiesa parrocchiale, segno visibile che Dio abita con noi. È sempre importante costruire la Chiesa viva e voi, con la vostra fede, con il vostro impegno, giorno per giorno costruite la chiesa viva che dà poi vita anche all'edificio». Sempre prima della celebrazione il Papa ha ricordato la festa dell'Annunciazione «che ci ricorda il sì di Maria che ha aperto i cieli così che Dio è diventato uno di noi».
Durante l'omelia, poi, il Pontefice si è soffermato sul brano evangelico della liturgia domenicale tratto dal Vangelo di Giovanni sull'adultera (capitolo 8), al cui centro si colloca la frase di Gesù «chi è senza peccato scagli la prima pietra». «Gesù non intavola con i suoi interlocutori una discussione teorica - ha sottolineato Ratzinger -: il suo obiettivo è salvare un'anima e rivelare che la salvezza si trova solo nell'amore di Dio». È questo il significato della sua missione, ha ricordato il Papa: «Gesù è venuto per dirci che ci vuole tutti in Paradiso - ha aggiunto - e che l'inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore». Da qui si comprende che «il vero nostro nemico è l'attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza». In questo brano, ha proseguito il Papa, «si pone in evidenza che solo il perdono divino e il suo amore ricevuto con cuore aperto e sincero ci danno la forza di resistere al male e di "non peccare più". L'atteggiamento di Gesù diviene in tal modo un modello da seguire per ogni comunità, chiamata a fare dell'amore e del perdono il cuore pulsante della sua vita».
È l'amore, quindi, la chiave di lettura della pagina evangelica che «ci aiuta a capire che solo l'amore di Dio può cambiare dal di dentro l'esistenza dell'uomo e conseguentemente di ogni società, perché solo il suo amore infinito lo libera dal peccato, che è la radice di ogni male. Se è vero che Dio è giustizia - ha ricordato Benedetto XVI -, non bisogna dimenticare che egli è soprattutto amore: se odia il peccato, è perché ama infinitamente ogni persona umana».
Dopo l'Eucaristia il Pontefice ha incontrato il consiglio pastorale parrocchiale, davanti al quale ha ricordato che «una società nella quale la coscienza cristiana non vive più, perde la direzione, non sa più dove andare, finisce nel vuoto, fallisce». Il Papa ha quindi spiegato il ruolo del Magistero rispetto alla formazione delle coscienze. «Non è il Magistero che impone - ha detto - ma indica elementi di riflessione alla coscienza perché questa stessa possa ascoltare e comprendere Dio; il Magistero è solo un aiuto perché la responsabilità personale maturi in una coscienza formata». La coscienza cristiana, ha commentato il Papa, è necessaria «perché sia presente la giustizia nel mondo di oggi: non c'è solo la globalizzazione - ha proseguito - ma anche questa universalità per cui tutti siamo responsabili di tutti».
Per Benedetto XVI si tratta della quinta visita a una parrocchia romana, mentre per la comunità di Santa Felicita e figli martiri si tratta del secondo incontro con il Vescovo di Roma: il nuovo edificio, infatti, è stato inaugurato il 14 dicembre 2003, ma la parrocchia esiste dal 16 luglio 1958 ed è stata visitata nel Natale del 1965 da Paolo VI.

Avvenire, 27 marzo 2007


L’INTERVISTA
Il biblista Bruno Maggioni: «Dietro le parole di Ratzinger una delle più belle catechesi su misericordia e responsabilità»

«Così ci viene offerto un amore che lascia liberi»

«Il giudizio nasce dalla consapevolezza che non tutte le scelte sono uguali:spetta a noi decidere se accettare davvero il perdono o meno»

Matteo Liut

Parla dell’inferno ma in realtà offre una delle più belle catechesi sull’amore di Dio. Mostra il volto infinito della misericordia ma la affianca a uno dei temi antropologici più delicati: quello della libertà dell’uomo. Domenica Benedetto XVI, commentando il passo evangelico dell’adultera, è riuscito ancora una volta a riportare in primo piano una delle questioni oggi più scomode, ricordandoci che «non tutte le scelte sono uguali» e che «Dio rispetta l’uomo fino in fondo anche quando lo rifiuta e lo allontana». Così, il biblista monsignor Bruno Maggioni, sintetizza il significato dell’omelia tenuta domenica dal Papa nella parrocchia di Santa Felicita.

Monsignor Maggioni, perché parlare dell’inferno a partire da questo brano?

«Intanto va sottolineato come Ratzinger eviti il solito fraseggio per descrivere l’inferno e lo inquadri, invece, all’interno del tema più appropriato: solo in riferimento alla misericordia di Dio si può parlare della condanna. E questa, in realtà, è un segno di rispetto, perché Dio ama infinitamente l’uomo ma ne rispetta la libertà e la responsabilità. Mostra il suo amore sempre disponibile al perdono, ma non si impone all’uomo».

Sembra un paradosso: la condanna è un segno di rispetto...

«Questo è il volto più autentico dell’amore, e non solo divino: ce lo ricorda il Vangelo che colloca la condanna sempre in questa prospettiva. L’uomo è libero di rifiutare Dio ma dev’essere consapevole che la sua scelta porta con sé delle conseguenze, un giudizio».

Perché il Papa afferma che oggi si parla poco dell’inferno?

«Perché è vero: oggi preoccupa non tanto che non si usi più la parola inferno e le solite immagini come quelle del "fuoco" e del "pianto", ma che si eviti il tema del giudizio. Questo, infatti, è un tema ben più scomodo e impegnativo delle immagini "popolari" legate all’inferno. Perché ci parla in realtà di un amore che si mostra e ci provoca, ci spinge a prendere posizione. E soprattutto ci insegna un amore che rispetta l’altro: lo accoglie ma non lo obbliga, si mostra con tutta la sua chiarezza ma non si impone. Una lezione insostituibile per l’uomo di oggi».

Dietro allora c’è una «pedagogia dell’amore»?

«È di certo un percorso pedagogico che attraverso tutto il testo biblico e si compie sulla Croce: Gesù muore con un gesto di amore libero che, ancora una volta, non si impone all’uomo. Eppure non è un amore "indifferenziato", che porta a un perdono senza impegno. Un padre che dice a un figlio "va bene qualsiasi cosa tu faccia", in realtà non lo ama».

C’è un passo biblico in cui questo è più evidente?

«Su questo tema mi piace citare il Vangelo di Giovanni: ci dice che Dio non ci condanna, siamo noi che ci auto-condanniamo. Se ci abituiamo al buio non potremo mai accogliere la luce: è questo il significato dell’attaccamento al peccato di cui ha parlato il Papa domenica. Da notare la contrapposizione tra "chiusura", determinata dal peccato, e "apertura", come caratteristiche dell’amore. Si pensi alla parabola del Padre e dei due figli in Luca 15: quando il minore se ne va il Padre non lo condanna, ma lo aspetta, pur lasciando la decisione al figlio stesso, che dimostra così una propria maturità. Ecco perché l’immagine dell’inferno ci pone di fronte alle due realtà: da una parte un amore che perdona, dall’altra la necessità di impegnarsi in un rapporto basato sul rispetto delle reciproche libertà e sulla consapevolezza che non tutte le scelte sono uguali».

Avvenire, 27 marzo 2007


Altro che «luogo simbolo» per fortuna l’Inferno esiste

di Alessandro Maggiolini*

Il santo Padre ieri l’altro ha parlato in una parrocchia romana dell’Inferno. E qui si potrebbe aprire tutto un capitolo sulle battute umoristiche che con rassegnata monotonia si vanno ripetendo lungo le stantie barzellette pie e blasfeme.

Forse non c’è nulla che susciti più umorismo di ciò che mette veramente paura. Si glissa sull’orrore per immunizzare il terrore. Ed è noto che non c’è nulla di più umoristico - e di tragico - dello sdrammatizzare il dramma. Così un certo terrore di fronte al destino umano diviene ridanciano: ridanciano per coprire il brivido della paura.

Il tema dell’Inferno è tra i più evitati nella predicazione e perfino nella liturgia. Sembra che se ne debba accennare soltanto quando si ha voglia di sganasciarsi dalle risa. Anzi, quando si tocca questo argomento, pare ci si debba preparare a sguaiataggini che suscitano il solletico più che mettere di fronte al proprio destino ultimo.

Macché Inferno. Macché Paradiso. Si tratta di miti, di simboli costruiti per suscitare qualche spavento qualche illusione. E la libertà umana si lascia prendere dalla angoscia che blocca ogni serenità e ogni gioia. Una riga sopra queste favole nere, e uno inizia a divertirsi in una esistenza senza senso.

Già, una esistenza senza senso. Il fatto è che se non esistesse l’Inferno, non vi sarebbe nemmeno il Paradiso, e tutta la terra sarebbe come una landa desolata e insignificante. Se non esistesse il Paradiso, l’intero universo sarebbe un gioco da ragazzi un po’ incoscienti, poiché non ci sarebbe un fine da raggiungere e una paura da evitare.

Il bene e il male sarebbero la stessa cosa. Il premio e il castigo sarebbero intercambiabili senza batter ciglio. La vita non avrebbe più significato. La gioia e il pianto si sovrapporrebbero indifferentemente. Qualche teologo affrettato ha sostenuto che non esiste né Inferno né Paradiso come stati di vita e non come luoghi. Ma allora che significato potrebbe avere l’obbedire o trasgredire i comandamenti? Amare od odiare il Signore? E se ci fosse anche un solo beato o un solo dannato, non meriterebbe l’architettura ciclopica del Paradiso e dell’Inferno? E se tutto fosse identico al tutto, che significato avrebbe il premio o il castigo? Castigo. Che poi non è l’ira di Dio che si esprime contro qualcuno, ma la chiusura della libertà che non si lascia raggiungere dall’amore di Dio? E un Inferno e un Paradiso vuoto non potrebbero iniziare a essere occupati da me, da te, per il peccato e per la grazia? Meglio, molto meglio l’Inferno e il Paradiso per raggiungere uno scopo e dare un significato alla vita. Se no, meglio mandare all’aria tutto e dire che nulla ha uno scopo. Ma allora, a che serve un giorno dopo l’altro, senza spararsi un colpo alla tempia.

*Vescovo emerito di Como

Il Giornale, 27 marzo 2007


L'inferno esiste ma solo per i politici

di ANTONIO SOCCI

Se ne parla poco, come ha detto il Papa domenica scorsa, tuttavia l'Inferno fa egualmente paura. E di fronte alla possibilità di un destino di sofferenza eterna tremano tutti, perfino i politici nostrani. Nei giorni scorsi era stata la cattolica Rosy Bindi ad ammettere di averne sentito l'agghiacciante brivido dopo aver varato la legge sui Dico, condannata dalla Chiesa. Ha confidato a un giornalista del Corriere: «Ho avuto paura di dannarmi l'anima...». Il pensiero di una sofferenza orrenda ed eterna non fa dormire sonni tranquilli nemmeno a chi si proclama ateo. Come il super comunista Oliviero Diliberto che con onestà intellettuale ha ammesso in una intervista all'Espresso: «No, non sono credente come Fassino e non sono nemmeno "alla ricerca" come Bertinotti e Ingrao. Però...non sono neanche ipocrita e non posso giurare di non cambiare idea sul letto di morte. Che ne so che effetto fa la fine. Spero soltanto che arrivi tra un bel po' di tempo». Questa intervista - riportata nel sito internet del suo Partito - è citata (negativamente) anche nel sito della Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti). In quel sito abbondano i commenti negativi. Una certa Maria scrive: «Bah, Diliberto ha paura di finire all'inferno! Questa propria non me la sarei mai immaginata!». In realtà faccia a faccia con la morte capita molto spesso che personaggi pubblici i quali nella vita hanno fatto professione di ateismo o anticlericalismo, si riconcilino con santa madre Chiesa per scongiurare un viaggio di andata senza ritorno nell'orrore senza fine e senza limite. Proprio in questi giorni ricorre il ventennale della morte di Renato Guttuso che tante polemiche scatenò proprio perché perfettamente lucido (per dirla con Natalino Sapegno) - si riavvicinò alla Chiesa e ricevette i sacramenti prima di morire. Essendo l'uomo considerato uno dei maggiori intellettuali comunisti e atei sulla scena pubblica, scoppiò un caso clamoroso. Meno conosciuto, ma altrettanto significativo anche il caso di Leonardo Sciascia che alla fine volle stringere tra le mani quel crocifisso d'argento che tutti poterono vedere nella bara e che per l'imbarazzo - alcuni attribuirono alla pietà dei familiari. In realtà "l'illuminista" Sciascia, in vita, paradossalmente invitava la Chiesa a non degradarsi ad agenzia umanitaria, ma a parlare agli uomini della loro sorte eterna che è ciò che più importa a tutti noi: «Senza l'annuncio chiaro e centrale della Trascendenza, senza speranza di non morire, la religione diventa un club umanitario, un sindacato, un circolo di specialisti in etica, ma non un messaggio che appaghi i bisogni profondi del cuore umano». Evidentemente nelle sue ultime ore lui stesso fece i conti con la domanda suprema, quella sulla scelta definitiva. I convertiti storici
La casistica è immensa, anche Oscar Wilde si convertì al cattolicesimo in punto di morte, il 30 novembre 1900, a 46 anni, dopo una vita sregolata e provocatoria. Mario Pannunzio, il mitico fondatore e direttore del "Mondo", sempre evocato da Eugenio Scalfari come suo maestro, pur essendo stato il suo giornale la «bandiera del laicismo militante» scrive Messori «volle morire chiedendo in extremis i sacramenti: cosa che si cercò poi di tenere nascosta». Ma - per tornare alla politica italiana - l'aspetto più singolare è scroprire che questo "fil rouge" forse, in modi e circostanze diverse, lega le ultime ore dei maggiori leader laici della storia nazionale. A cominciare da Camillo Benso conte di Cavour, primo presidente del Consiglio italiano. Sappiamo che da giovane professò un acceso ateismo, c'è poi un'ampia letteratura che dibatte sulla sua presunta affiliazione massonica. Di fatto la sua politica fu molto dura con la Chiesa di Pio IX che subì persecuzioni e reagì con le scomuniche, ma nel 1861, venuta l'ultima ora, il conte volle morire con i conforti religiosi amministratigli da un frate francescano. Volle morire fra le braccia della Chiesa che aveva perseguitato. L'altro presidente del Consiglio ultralaico fu Benito Mussolini che da giovane percorreva le piazze romagnole sfidando Dio a fulminarlo in un minuto. Da Capo del governo fascista firmò il Concordato con la Chiesa e dopo la deposizione del 25 luglio 1943 - arrestato e chiuso a Ponza chiese che gli venisse portata "La Vita di Gesù Cristo" del Riccioti, lettura che appassionò i suoi ultimi giorni disperati. E prendiamo i due leader laici della storia repubblicana. Di Giovanni Spadolini laico e ateo si vocifera che abbia chiesto i sacramenti prima di morire, tuttavia non ci sono conferme a queste voci. Mentre Bettino Craxi, il premier laico firmatario del secondo Concordato, ebbe i fune rali religiosi nella cattedrale cattolica di Tunisi celebrati dal vescovo Fouat Twal. Si ricorda l'affettuosissimo messaggio del Papa che «si unisce alle preghiere, invoca la Divina Bontà e chiede a Dio pace eterna per l'anima» di questo uomo di Stato. Del resto anche il laicissimo Napoleone, che nell'età moderna è stato il primo grande persecutore della Chiesa e personalmente del Papa, nei suoi ultimi giorni di esilio si convertì, appassionandosi alla figura di Gesù su cui ha lasciato pagine commoventi. «Chiese al Papa - proprio quel Papa che aveva perseguitato ferocemente - di poter avere un confessore corso, della sua terra» racconta Messori «e il Papa, pietosamente, gli inviò un sacerdote corso con una nave, fino a S.Elena, dove l'ex dittatore ricevette i sacramenti». C'è infatti nella memoria di tutti la consapevolezza di quanto misericordioso sia il Padre che Gesù ci ha fatto conoscere. Al Bonconte dantesco bastò «una lacrimetta» in punto di morte per impedire a Satana in extremis di impossessarsi per sempre della sua anima e legarlo al tormento eterno. Quel Padre misericordioso che tutto e sempre perdona, fino all'ultimo istante, è la speranza a cui tutti si aggrappano. Meglio tardi che mai

Quando Francois Mauriac sull'Express ne parlò a proposito della morte di Gide vi fu una sollevazione dei "benpensanti", sarcastici e irritati per l'eventualità del cedimento finale, anche oggi da noi qualificato da molti come "debolezza" o ipocrisia opportunista. Mauriac osservò amaramente: «Che odio della speranza in questi nostri contemporanei! Quanta paura di essere consolati! Che orrore per la possibilità che gli ultimi istanti della vita di un incredulo non siano di oscuramento, ma di luce imprevista! Perché temere più di ogni altro pericolo che l'Amore ci sia, che ci venga incontro, che ci accolga, malgrado tutti i nostri errori e le nostre colpe?». Kierkegaard scrisse: «La maggior parte degli uomini vive dalla culla alla tomba, trascinata dal vortice della vita, senza tregua... Poi quando viene la morte e li ferma, fanno attenzione al cristianesimo e rimpiangono di non esserselo appropriato prima». Agostino d'Ippona si convertì per la scoperta della felicità, non per la paura dell'inferno di fronte alla morte. Dopo la sua giovinezza dissipata, aprì gli occhi sulla Bellezza di Cristo e scrisse: «Tardi ti ho amato, o Bellezza sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te. Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità. Tu hai emanato la tua fragranza e io ho sentito il tuo profumo e ora ti bramo. Ho gustato e ora ho fame e sete. Tu mi hai toccato e io bramo la tua pace".

Libero, 27 marzo 2007

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