13 dicembre 2007

"Spe salvi", la Speranza e le speranze (Bandinelli per "Il Foglio")


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Speranze

Perché il pensiero laico preferisce declinare al plurale il portato del cristianesimo nella storia

Angiolo Bandinelli

Non v’è dubbio che la speranza, nel senso alto con cui la evoca Benedetto XVI, sia figlia del cristianesimo. Il mondo classico non aveva l’orizzonte esistenziale della speranza perché, per esso, il tempo andava a ritroso, dall’età dell’oro verso quella del ferro, della grigia fatica imposta all’uomo. L’Ade dei classici è un luogo buio, le anime che lo popolano hanno un’unica, triste speranza, quella di esserne fatte uscire, sia pure fuggevolmente, grazie all’offerta, da parte dei viventi, di un po’ di sangue schiumante, bevendo il quale le infelici possano recuperare qualcosa della vitalità perduta. Il cristianesimo rovescia il tempo. Dal peccato originale si può ascendere alla conoscenza e partecipazione di Dio dopo una vita e una morte piena di grazia: la speranza non è più l’ultima dea, ma salvifica virtù teologale.
Le parole paoline sulla fede in Cristo come matrice di speranza hanno avuto un ruolo formidabile nell’indicare la direzione antropologica, il “fine” dell’uomo; al progetto provvidenziale paolino possiamo anche aggiungere il tremendo grido tertullianeo, il “credo quia absurdum” che alla fede è prodromo necessario. Questa concezione della storia come percorso verso un domani più alto (non solo migliore) ha informato di sé il pensiero occidentale fino – per dire – a Fourier o a Hegel e Marx. Anche il capitalismo deve molto alla speranza cristiana: il profitto capitalistico si fonda sulla scommessa del buon esito dell’iniziativa sulla quale il denaro è stato investito; è insomma figlio della speranza-previsione del domani (a differenza dell’agricoltura, che punta sulla ripetizione ciclica e immutabile
del tempo). Per questo, arrestarsi alla mera analisi fenomenologica, mettendo il cristianesimo sullo steso piano con altre forme di religiosità, è un errore teorico e storiografico.

Un pizzico dell’occidente precristiano

Non so però se il cristianesimo abbia accompagnato lo sviluppo dell’occidente più dando che non assorbendo. Un pizzico dell’occidente precristiano ha sicuramente contribuito a plasmare la speranza cristiana: Ulisse viene interpretato da Dante come l’eroe della conoscenza che sfida l’ignoto, con lo sguardo fisso sulla luce di una speranza da guadagnare con sforzo e rischio sublime. E, non solo per incidens: quando si parla di un occidente che si incardina sull’incontro tra logos greco e fede cristiana, ci si dimentica del grande ineliminabile mediatore tra i due valori, lo jus romano incarnato in quell’Impero universale che aspira ad un unico Dio, capace di dar vita a ogni cosa così come il sole illumina tutti gli dei accolti sotto la volta del cielo rappresentata dal Pantheon di Roma: l’idea di governo universale attraverso il diritto è estranea all’impero greco-ellenistico, ma senza di essa il cristianesimo non sarebbe stato quello che è (san Paolo teneva a dirsi cittadino romano). Torniamo ora alla speranza. L’idea di un finalismo storico (o metastorico/teologico) viene rigettata dal pensiero laico moderno, da Croce come da Popper, credo. Questi (ma non solo loro) hanno denunciato la falsità, gnoseologica innanzitutto, delle grandi elaborazioni fideistico-mondane di ieri e di oggi, il marxismo in primo luogo, e hanno affidato la salvezza (salvezza=salute) dell’uomo all’operato del singolo, individuo o persona che sia. Il laico non laicista vede tralucere la speranza in ogni atto dell’uomo, del suo
quotidiano, non ha bisogno di ipostatizzarla, e dunque di reificarla. Pertanto seconderà e difenderà – attraverso diritto e leggi, innanzitutto – la possibilità che ciascuno possa tenere accesa, inseguire la speranza custodita gelosamente nel fondo del suo animo. Nel dizionario del laico, la parola speranza non ha più la “s”maiuscola, perché lui sa che la “speranza”, nella finità dell’uomo, non può presentarsi che al plurale, come “speranze”. Apparentemente meno attraenti e gratificanti, appartengono però e anzi nobilitano il patrimonio di opportunità/dignità che è proprio dell’uomo, delle sue “opere e giorni”. Come dire, la speranza non è patrimonio esclusivo di nessuno: sarebbe, direbbero i logici, una “contradictio in adiecto”. Ma di speranza e di enciclica torneremo sicuramente a parlare: almeno, così speriamo.

© Copyright Il Foglio, 13 dicembre 2007

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