13 gennaio 2008

La “provocazione” dei Dialoghi tra Manuele II Paleologo e l’anonimo Persiano (prefazione di Mons. Fisichella al libro “Dialoghi con un Persiano”)


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La “provocazione” dei Dialoghi tra Manuele II Paleologo e l’anonimo Persiano

Rino Fisichella

ROMA, sabato, 12 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'introduzione di monsignor Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, al volume “Dialoghi con un Persiano” di Manuele II Paleologo (Rubbettino Editore), contenente la versione integrale del controverso testo citato da Benedetto XVI a Ratisbona.

La lectio accademica di Benedetto XVI nella sua antica università di Regensburg il 12 settembre del 2006 ha riportato in auge, malgré lui, un testo antico di notevole significato. Dimenticato da molti, conosciuto a tanti, i Dialoghi con un Persiano di Manuele Paleologo rappresentano un tentativo di apologetica del tardo medioevo che solo pochi esperti della materia conoscono. Se ai tanti commentatori della lezione di Regensburg fosse stato spiegato almeno il contesto storico e teologico di quelle pagine, probabilmente non si sarebbe assistito al gioco degli equivoci che ha dominato per settimane la scena internazionale con punte di violenza del tutto gratuite e ingiustificate.

La pubblicazione dei Dialoghi, da questa prospettiva, si presenta come una risposta intelligente che, lontano dalle polemiche, permette di accostarsi al testo nella sua traduzione originale e completa. Esso costituisce un contributo di valore per verificare direttamente quanto i due protagonisti dell’opera avessero reciproco rispetto e profonda stima l’uno dell’altro, tanto da far arrossire quanti hanno voluto speculare sulla vicenda con argomentazioni deboli e richieste pretestuose.

Va dato il meritato riconoscimento a Francesco Colafemmina non solo per aver avuto l’idea di pubblicare i brani in questione, ma soprattutto per la fatica compiuta di averne fornito una sua traduzione fedele al testo greco originale sia nel genere che nella terminologia, non sempre facilmente traducibile per gli inevitabili riflessi del sentire contemporaneo. La sua Introduzione ai Dialoghi permette di conoscere la personalità dell’ultimo grande imperatore romano e familiarizzare con la sua profonda fede e spiritualità. Bisogna dare atto a Colafemmina di essere riuscito bene nell’impresa non facile, soprattutto per aver creato uno scenario storico e contenutistico che favorisce la ricostruzione di un contesto necessario e inevitabile per la più coerente comprensione dei personaggi coinvolti nel dialogo e delle loro rispettive considerazioni.

I Dialoghi tra Manuele II Paleologo e l’anonimo Persiano – di cui sappiamo solo essere un “muteriz”, cioè un uomo sapiente a cui tutti portavano rispetto – non sono molto conosciuti nella storia dell’Apologetica. Come spesso avviene, la ricostruzione storica preferisce muoversi tra i più facili viali dei famosi maestri e delle scuole di pensiero, piuttosto che addentrarsi nei complicati meandri di opere secondarie e autori sconosciuti. La dimenticanza di questi, tuttavia, non permette di avere una visione completa della problematica e la stessa ricostruzione storica lascia il fianco scoperto. D’altronde, anche alla luce dei fatti recenti, chi potrebbe dire con assoluta certezza che il Liber creaturarum del catalano Raimondo da Sebunda (1385-1436), rettore della prestigiosa scuola di Toulouse abbia avuto più fortuna dei Dialoghi dell’imperatore Paleologo? O, forse, il Dialogion de fide cattolica e il Contra perfidiam Mahumeti del certosino Dionigi di Ryckel (1402-1471) hanno argomentazioni più delicate di quelle contenute delle pagine dei Dialoghi con il Persiano? Se, probabilmente, il De pace seu concordantia fidei del cardinale Nicolò Cusano (1401- 1464) ebbe maggior eco dei Dialoghi, chi può attestare che l’Adversus Iudaeos et Gentes dell’umanista fiorentino Giannozzo Manetti (1396-1459) abbia avuto maggior influsso dello scritto di Manuele II? Gli autori citati sono contemporanei dell’ultimo imperatore romano, morto come monaco, e trovano più o meno spazio nelle diverse storie dell’apologetica, mentre nessuna di queste fa menzione dei Dialoghi.

La storia, come si sa, percorre spesso sentieri che gli stessi storici non possono determinare. Con ragione osserva Colafemmina nella sua Introduzione: «Attraverso le contorte vie della storia, possiamo attingere al significato autentico di quest’opera soltanto dopo esserci stupiti di una dimensione spirituale tanto sublime quanto aliena dalla nostra tradizione». A dispetto di tanti maestri di apologetica, Manuele II sembra essersi preso la rivincita, lui che proprio agli inizi dei Dialoghi diceva al Persiano avrebbe dovuto rivolgersi a «coloro che per mestiere insegnano la nostra religione» (I, 3), ai teologi! Caduti nel silenzio i grandi nomi di apologisti che nei loro scritti – come usuale all’epoca sia da parte cristiana che reciprocamente ebrea e mussulmana – hanno spesso espressioni che fanno impallidire quelle che si trovano nei Dialoghi, torna alla ribalta uno scritto privato, stilato per informare il fratello di come si passavano le noiose giornate alla corte, che presenta tratti di genuina riflessione e con elementi di metodologia che hanno grande valore per il dialogo contemporaneo.

Il primo tratto che merita di essere considerato, infatti, è proprio la metodologia che i due interlocutori adottano. Emerge in maniera impressionante, ad esempio, che i due non si interrompono mai. Il loro linguaggio, pur fermo e preciso nelle argomentazioni non è mai sguaiato e nessuno intende mai mettere l’altro in uno stato di imbarazzo per quanto viene dicendo. È interessante, invece, osservare che si danno spazi di silenzio – elemento fondamentale per l’ascolto e la riflessione – per favorire l’accoglienza del discorso e trovare una risposta adeguata, frutto non dell’emotività del momento, ma della riflessione prolungata.

Sul piano del rapporto interpersonale, inoltre, i due interlocutori mostrano di avere la consapevolezza del rango e del potere che possiedono; questo, tuttavia, non impedisce loro di entrare nel merito dei contenuti del dibattito, in alcuni momenti, con espressioni che oggi troveremmo certamente estranee al politically correct. In effetti, i Dialoghi sono un vero dibattito.

Abituati come siamo ad avere una visione parziale del dialogo, il testo del Paleologo mostra con chiara evidenza che quando due interlocutori intendono intraprendere la via del dialogo devono avere chiara la loro identità e, in nome della verità a cui aderiscono, non hanno alcuna intenzione di abbandonare le proprie posizioni per accettare immediatamente quelle dell’altro. Al contrario. Qui emerge in modo chiaro che tanto il Persiano quanto Manuele II sono ben consapevoli della verità delle loro rispettive posizioni e nell’esporre i contenuti della loro fede hanno in cuore di convincere l’altro della bontà della loro scelta. Lo fanno in maniera diversa: con passione e convinzione l’imperatore; con distacco e quasi indifferenza il Persiano.

Ambedue, comunque, entrano nel vivo dei rispettivi contenuti e pur rispettandosi non negano quanto li divide. Ciò che spinge il Muteriz a mettersi in ascolto dell’imperatore è detto da lui stesso in maniera diretta: «Ho sempre avuto il desiderio di imparare a conoscere la vostra religione. E non mi sono mai imbattuto in alcun Cristiano che avesse una cultura e un’esperienza religiosa tale da potermi spiegare alcunché in maniera chiara e proprio come lo desideravo» (I, 2). Si nota che il desiderio di conoscere trova corrispondenza solo là dove viene riconosciuta non solo la competenza, ma anche la coerenza della vita. Si pongono insieme, infatti, “cultura” ed “esperienza”, come dire: la vera forma di comunicazione non si esprime nella sola conoscenza dei dogmi, ma anche nella testimonianza di vita che ne segue.

Manuele II, da parte sua, esprime nei confronti del Persiano un’attenzione degna di nota: «Egli aveva, come è naturale per queste ragioni, una mente non in grado di poter attingere adeguatamente al pensiero divino nascosto nelle Scritture; sicché discorremmo non come sarebbe stato opportuno, ma nella maniera in cui per lui sarebbe stato possibile comprendere ciò che si diceva» (Proemio, 4). Dalla prospettiva cristiana, questo ha un grande valore simbolico soprattutto se confrontato con i testi dell’epoca dove l’argomentazione si fondava sull’autorità della Sacra Scrittura.

L’imperatore, a differenza del teologo, comprende con maggior lucidità che non può argomentare con il mussulmano sulla base dei vangeli ma deve trovare una strada diversa che gli permetta sia di essere compreso nella sua esposizione sia di contraddire la verità dell’interlocutore. Non so se il Paleologo avesse mai letto il Monologion di Anselmo, ma certamente la sua argomentazione trova riscontro in quanto il santo vescovo scriveva: «Remoto Christo quasi nulla sciatur de Christo […] necessariis rationibus sine Scripturae auctoritate». La ragione, non la fede, è la vera protagonista dei Dialoghi. Un passo esplicito conferma questa nostra lettura: «Se tu credessi alle Scritture, io non avrei molto da dirti […] Visto che al momento non vuoi credere alle Scritture, facciamo che se quando uno di noi cita un passo della Scrittura l’altro lo accetta, allora ci serviremo giustamente delle Scritture nel nostro dialogo, per quanto possibile. E qualora avvenga diversamente, non ci resta che servirci delle argomentazioni e cercare con verosimiglianza, per quanto ci è concesso, dove sia possibile trovare la verità» (I,7).

Insomma, riscontriamo le tracce della genuina apologia che riconosce la sua magna charta nel testo di Pietro: «Sempre pronti a dare ragione (apolog…a) della speranza che è in voi» (1 PT 3,15). Per entrare ancora più direttamente nel merito dei contenuti è necessaria un’ulteriore considerazione che possiede un valore rilevante. Probabilmente, il culmine dell’argomentare di Manuele II si trova nell’espressione: «Il non agire secondo ragione è alieno da Dio» (VII, 3). Questa convinzione accompagna certamente l’intera tradizione cristiana da sempre; la sua concettualizzazione, comunque, trova terreno fecondo ai tempi di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Non è il caso di far riferimento ai testi di Agostino o di Anselmo in proposito. La loro posizione è ben conosciuta e trova riscontro in quella sintesi agostiniana del credo ut intelligam e intelligo ut credam che sfocerà nella felice intuizione anselmiana della fides quaerens intellectum. Per secoli questa posizione fu il fondamento del pensare cristiano.

Il cambiamento comincia a verificarsi con il sorgere delle università all’inizio del XIII secolo. Questo porta con sé la scoperta di un’altra autorità che si affianca a quella della Scrittura, la ratio. La scoperta di Aristotele fatta in un primo momento dai commentari di Averroè (1126-1198) è, da questo punto, di importanza decisiva. Si sa che il maestro professava l’Islam e, comunque, i suoi scritti furono visti con sospetto e lui stesso morì in disgrazia come eretico. La sua opera, comunque, penetrava nel pensiero occidentale e andava ad intaccare diversi contenuti della fede a cui anche i nostri Dialoghi fanno eco: la libertà della creazione, l’origine e la fine del mondo, la divina provvidenza, la risurrezione e l’immortalità, l’incarnazione e la redenzione, la Chiesa e i suoi sacramenti… in una parola, l’uso dell’aristotelismo metteva in crisi il pensiero cristiano.

Una prima reazione si ebbe con lo scritto di Alberto Magno voluto da papa Alessandro IV, Sull’unità dell’intelletto contro Averroè, ma la vera sfida doveva venire in maniera più positiva e profonda attraverso l’intelligenza di Tommaso d’Aquino. Gli scritti di Aristotele cominceranno ad essere accessibili a partire dal 1230, Tommaso ne aveva ormai diretta conoscenza e comprendeva come, in primo piano, il vero problema che stava sul tappeto era la quaestio de veritate. I suoi commentari ad Aristotele mostravano che gli scritti del filosofo erano molto più coerenti con la dottrina cristiana di quanto non pensasse Averroè; anzi, la fede veniva a porsi come completamento e correzione di quanto il filosofo aveva scritto a tal punto da diventare un riferimento decisivo per l’intero pensiero cristiano. Nel suo Summa contra Gentiles seu De veritate catholicae fidei, Tommaso, fin dalle prime battute, pone la questione del metodo apologetico: il sapiente è tale se considera tutte le cose alla luce della verità; quindi, alla luce del principio primo da cui tutto deriva.

La stessa rilevazione degli errori appartiene al desiderio che ognuno possiede per raggiungere la verità e, pertanto, questa fase è necessaria tanto quanto la scoperta della verità stessa. «Lo studio della sapienza – scrive il Dottore Angelico – è il più perfetto, sublime, utile e giocondo, fra tutti gli studi dell’uomo [...] Avendo dunque assunto l’ufficio del sapiente, per divina bontà, sebbene sorpassi le nostre forze, ci proponiamo di chiarire, secondo la nostra debolezza, quella verità che professa la fede cattolica, eliminando gli errori opposti [...] Però è difficile combattere contro ogni errore singolo, per due motivi. Primo, perché non ci sono completamente noti i detti sacrileghi di tutti, in modo da ricavare da ciò che dicono gli argomenti contro gli stessi loro errori [...] Secondo, perché alcuni di loro, come i maomettani e i pagani, non accettano come noi l’autorità di qualche Scrittura, con la quale possano essere persuasi; mentre contro i Giudei possiamo disputare per mezzo dell’Antico Testamento, e con gli Eretici per mezzo del Nuovo; ma i primi non accettano né l’Antico né il Nuovo Testamento e, quindi, si rende necessario ricorrere alla ragione naturale a cui tutti devono per forza assentire; però essa è manchevole nelle cose che riguardano Dio» (I, 2). Per Tommaso, la conclusione è una sola: la fede con la sua verità, pur eccedendo la verità della ratio, non sarà mai contraria alle verità che la ratio raggiunge da sé; essa, pertanto, ha un valore universale.

Ritornando ai nostri Dialoghi, si legge con una nota di amarezza l’osservazione dell’imperatore: «Non avendo mai gustato la libertà della Verità, non la desiderava quanto avrebbe dovuto» (Proemio, 2). Se si vuole, qui si riscontra il nodo ligneo della questione: l’esperienza della libertà come frutto della conoscenza e della scoperta della verità. Una verità che non può essere solamente dimostrata, ma mostrata come offerta di senso che apre spazi fino a quel momento inimmaginabili.

Il Muteriz era curioso di conoscerla, ritorna spesso come un ritornello la sua richiesta: «Dobbiamo trovare la verità [...] bisogna permettere, per quanto ci è concesso, che la verità venga cercata, così, ovunque essa sia» (I, 10); tuttavia, non sembra disposto a immergersi in una verità che giorno dopo giorno apre sempre nuovi spazi di conoscenza e di libertà. È qui che si gioca uno dei temi fondamentali della peculiarità del cristianesimo nel complesso delle religioni. L’imperatore se ne fa interprete quando dice: «Noi cerchiamo l’approdo con la fede piuttosto che con il metodo, l’arte e il raziocinio. Tuttavia, per quanto possibile, ci serviamo di quelle argomentazioni che sono probabilmente giuste. Laddove la fede non persuade, abbiamo bisogno di una dimostrazione inconfutabile generale e concorde» (I, 13).

La fatica del credente è spesso quella di mostrare la ragionevolezza dei suoi contenuti e delle proposte che ne derivano, evidenziando che non sono primariamente frutto della fede, ma della ragione che cerca la verità e in essa trova la libertà corrispondente. Quanto avviene tra Manuele II e il Persiano è chiaro: davanti alle argomentazioni stringenti dell’imperatore, il Muteriz si convince, ma non riesce a credere. La sua richiesta di verità è certamente sincera, ma non è in grado di far compiere alla ratio tutto il suo percorso, quello di abbandonarsi al credere. Più volte nel corso del dibattito emerge questa dimensione fideistica del saggio persiano che gli impedisce di oltrepassare la soglia per raggiungere la piena verità che la stessa ragione intuisce; è il rimprovero che gli muove l’imperatore: «Ciò lo dici sempre e mai lo dimostri» (VII, 22).

Fede e ragione per il Muteriz vanno separate e non possono camminare insieme; quando c’è una non deve esserci l’altra. Per l’imperatore, al contrario, l’una richiede l’altra e non può esserci forza della fede senza la ragione, così come non può esserci forte ragione senza la certezza della fede. Al fondo si trova la radicale differenza tra le due religioni: una pensa di possedere la verità data una volta per sempre nel Corano, mentre il Cristianesimo sa che la sua verità è una Persona, Gesù di Nazareth, Dio che entra nella storia e, pertanto, rimarrà sempre come una indagine e ricerca che troverà riposo solo alla fine dei tempi.

Se si vuole, i Dialoghi manifestano il desiderio profondo di conoscere la verità che anima da sempre l’uomo. Manuele II, in questo dibattito, emerge come una figura carica di passione e convinzione; in lui si nota una motivazione teologica, forse inaspettata ma non per questo meno reale e convincente. Si potrà non seguire l’imperatore nel momento in cui esprime giudizi che appartengono al contesto storico di un’interminabile guerra che lo aveva perseguitato lungo il corso dei quasi quarant’anni di impero. Il suo argomentare, comunque, rimane forte, lineare e carico di ciò che oggi chiamiamo la “logica dell’incarnazione”.

Seguire il suo ragionamento riporta al dilemma che da sempre segue il cristianesimo: cur Deus homo? Perché Dio si è fatto uomo rimarrà come l’interrogativo che trova riscontro solo se si accoglie l’evento di Gesù di Nazareth come il rivelatore e la rivelazione ultima del Padre. Il perché dell’incarnazione non è una domanda retorica, ma immette in quella problematica che pone domande all’antropologia e alla religione nel loro mutuo rapportarsi, chiedendo di dare risposte cariche di senso e definitiva pena il rimanere nell’incertezza e nel dubbio esistenziali. Il perché dell’incarnazione permette a Manuele II di andare diritto al cuore del mistero cristiano per far emergere la sua originalità dinanzi alla legge mosaica e all’universo delle religioni. In particolare, comunque, la cosa si imponeva nei confronti dell’Islam verso il quale l’imperatore si muoveva con argomentazioni di una logica stringente. Paleologo viveva sulla sua pelle la perenne conquista di nuove terre e imperi che veniva fatta con la violenza della spada da parte dei sultani.

Questo poneva certamente degli interrogativi a un uomo di fede come lui che aveva esperienza del cristianesimo come un processo di evangelizzazione che vantava dei martiri, ma non ne faceva. Nonostante questo, il suo era il tentativo di comprendere una religione che avrebbe distrutto il suo stesso Impero e dominato il cuore del cristianesimo, Aghia Sophia. Questo non avveniva come un fatto post eventum, al contrario. Ciò che spingeva Paleologo al dialogo con l’Islam era il desiderio di conoscere e dare ragione della sua fede al Persiano che lo interrogava. Era chiamato a dare una ragione a qualcosa di nuovo, di diverso e lontano dal suo credo, ma doveva farlo in nome della verità.

Non si va lontano se si pensa che questi Dialoghi sono caratterizzati da una antesignana “teologia della storia”, con la quale si tenta di dare senso e risposta all’interrogativo impresso dalla dinamica della storia. Non poteva essere estraneo a Manuele II l’interrogativo di come fosse che l’Islam mettesse a repentaglio la cultura e la conquista del cristianesimo. La domanda diventava provocazione quando pensava che la storia della salvezza in cui credeva, quella che progressivamente si era sviluppata dal villaggio di Nazareth fino a diventare un impero che oltrepassava la grandezza di quello antico romano, veniva messa in discussione e perfino distrutta dall’Islam. Una religione che pur onorando Gesù, tuttavia negava il suo vangelo come Parola di Dio offerta agli uomini per la salvezza di tutta l’umanità e impediva al suo regno di estendersi.

Rileggere queste pagine in un periodo come il nostro che soprattutto a livello politico vede aperta la questione sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea non è privo di attualità. La vicenda di Manuele II potrebbe aiutare non poco per addentrarsi nei meandri di una questione certamente complessa per il peso storico e culturale che possiede. Soprassedere su questa dimensione, tuttavia, potrebbe rendere più facile il faticoso lavoro del politico, ma non aiuterebbe a trovare la via più coerente da percorrere per guardare al futuro con maggior lungimiranza e intelligenza. I tempi dell’imperatore Paleologo furono segnati, come si sa, dai particolarismi nazionali che vedevano Bisanzio ormai lontana e non meritevole di essere difesa. Eppure, Costantinopoli era stata il centro e il cuore pulsante dell’Impero. Da là proveniva la tradizione che univa l’oriente e l’occidente in una sintesi tanto unica quanto feconda che aveva permesso a diversi regni e culture di fondersi insieme per diventare “Europa”.

A distanza di più di cinque secoli la storia sembra ripetersi. L’Europa di oggi vede l’antica Bisanzio distante, lontana e ha paura per la sua diversità culturale che i secoli hanno imposto. Le radici di quella terra, tuttavia, anche se rare e secche sono cristiane. Santa Sofia potrà anche essere stata trasformata in un museo, ma il volto del Pantocrator non ha potuto essere tolto. È stato coperto, non distrutto. Efeso, Antiochia, Tarso, la Cappadocia… con i loro segni permangono nel ricordare la fecondità della presenza cristiana e la ricchezza intellettuale che ne è scaturita.

La figura di Manuele II è segno anche di questo. Da una parte egli ricorda l’attenzione che si deve a questa terra e a ciò che ha prodotto; dall’altra, invita a non sottovalutare le provocazioni presenti che dovrebbero scuotere non poco la generale indifferenza dei paesi europei. Ragione e fede devono riprendere inevitabilmente il loro cammino comune. Benedetto XVI, a più riprese, ha ribadito che questa strada non solo permette al cristianesimo di essere fecondo nella via dell’evangelizzazione, ma consente anche ai non credenti di accogliere il messaggio di Gesù Cristo come ipotesi carica di senso e decisiva per l’esistenza.

Riprendere tra le mani il dialogo tra un imperatore cristiano e un Muteriz mussulmano del XV secolo potrebbe essere un’efficace provocazione, soprattutto nell’attuale complesso mutamento culturale in cui siamo inseriti, per comprendere quanto sia decisiva la conoscenza corretta dei fenomeni, l’importanza del saper dare ragione della propria fede e la necessità di raggiungere la verità come porto sicuro per dare alla vita la certezza definitiva di cui ha bisogno.

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