12 gennaio 2008

Anche il Beato Angelico era un astrattista (Timothy Verdon per "L'Osservatore Romano")


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Un'arte sacra contemporanea è possibile

Anche il Beato Angelico era un astrattista

Timothy Verdon

Nella storia dell'arte sacra, particolare fascino rivestono i periodi segnati da uno sforzo di sintesi e perfino di sintesi complessa: i secoli IV-VI, ad esempio, corrispondenti alla trasformazione cristiana dell'arte greco-romana, e i secoli XIV-XVII, in cui l'arte classica fu ripristinata al servizio di una Chiesa in dinamica evoluzione. Del resto questi sono periodi chiave di tutta la storia culturale europea: dal primo è dipeso il medioevo, dal secondo l'era moderna.
Oggi l'arte sacra ha di nuovo bisogno di sintesi: deve assimilare e trasformare linguaggi stilistici forgiati lontano dall'esperienza cristiana, per mettere a disposizione dei fedeli le straordinarie intuizioni dei maestri del Novecento. Finora questo compito è stato affrontato in modo solo parziale, con adattamenti spesso maldestri di stili contemporanei e risultati quasi sempre deludenti, come ha ricordato quasi dieci anni fa un articolo sul Corriere della Sera intitolato "Religione e modernità. L'arte sacra contemporanea? Che orrore" (3 aprile 1998).
L'autore del pezzo, Gillo Dorfles, poneva due domande scomode: "È sufficiente la fede per far accettare la mediocrità di tanta arte sacra contemporanea? E, d'altra parte, è possibile un'arte veramente attuale che sia anche sacra?". Impressionato dall'infima qualità di molte opere adibite a luogo di culto, nonché dalla perdurante nostalgia per gli stili di altri tempi e dalla facile accettazione del kitsch nelle chiese, Dorfles chiedeva come spiegare il fatto che "l'arte religiosa, che pure dominò (almeno nell'Occidente cattolico) un'ininterrotta serie di secoli, abbia perso oggi quasi ogni diritto di cittadinanza e abbia dato ben poche prove di sé se non in qualche opera architettonica". Va precisato che per "veramente attuale", Dorfles intendeva un'arte radicata nella cultura del secondo Novecento, eloquente nei linguaggi tipici del periodo tra cui l'astrattismo e l'informale: punto di vista, questo, che andrebbe forse modificato oggi nel contesto del ritrovato interesse per il figurativo.

La domanda di questo critico rimane tuttavia pertinente e perfino urgente, data l'importanza che la Chiesa torna ora ad attribuire all'immagine sacra, definita da Benedetto XVI come una forma privilegiata di "predicazione evangelica".

Proprio questa frase viene usata nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, dove l'allora Cardinale Ratzinger affermava nell'introduzione che oggi più che mai, nella civiltà visiva, l'immagine sacra può "esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico".
Se non altro come atto di fede, a chi s'interroga sulla possibilità di attuare un'arte sacra "veramente contemporanea" bisogna rispondere che sì, è possibile. Ma dobbiamo anche aggiungere che è difficile. Possibile per forza, dal momento che "la Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l'indole e le condizioni dei popoli, e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca" (Sacrosanctum concilium 123). Possibile poi anche perché la tradizione cristiana offre esempi eccelsi di arte astratta oltre che figurativa, e questo non solo nel periodo paleocristiano ma anche nel cuore del figurativismo rinascimentale; gli studi di Georges Didi-Huberman, sul significato simbolico-astratto degli sfondi a finto marmo del Beato Angelico, ad esempio, aprono tutto un nuovo capitolo di ricerca sul Quattrocento fiorentino.
Sbaglia invece chi ritiene che i linguaggi dell'arte contemporanea non siano adatti al sacro solo perché l'astrattismo e l'informalismo, come l'atonalismo musicale, in qualche modo mettano una "salvezza artistica" al posto di quella storica - un colto art pour l'art al posto dell'umile fede nel Verbo fattosi carne. Sbaglia, dico, perché il cristianesimo non è manicheo: all'aut-aut preferisce l'et-et, così che ogni autentica esperienza estetica può rientrare nel piano provvidenziale di Dio. Il grido di Cristo sulla croce, certamente "atonale", è parte della nostra historia salutis, come lo è l'ordine sparso - quasi "informale" - dei fiori del campo, più belli di Salomone in tutto il suo splendore.
Nel contesto del dibattito sollevato dall'articolo di Dorfles nel 1998, mi sembrava felice un'osservazione di Paolo Biscottini, direttore del Museo Diocesano di Milano, secondo cui "sacro" non è solo ciò che può porsi in letterale riferimento alla storia sacra, ma ciò che esprime la verità dell'uomo. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli artisti del 1999, sviluppò un'analoga idea, affermando che "ogni forma autentica di arte è, a suo modo, una via di accesso alla realtà più profonda dell'uomo e del mondo" (numero 6). Il Papa drammaturgo insistette che, pur nell'odierno distacco tra il mondo dell'arte e il mondo della fede, la Chiesa continua a nutrire grande apprezzamento per il valore dell'arte, "anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose", perché "quando è autentica, [l'arte] ha un'intima affinità con il mondo della fede" (numero 10). A scanso di equivoci, aggiunse che "persino quando scruta le profondità più oscure dell'anima, o gli aspetti più sconvolgenti del male, l'artista si fa in qualche modo voce dell'universale attesa di redenzione" (numero 10).
Così un'arte veramente attuale e nel contempo sacra dovrebbe essere possibile. Ma sarà anche difficile, perché sin dagli inizi la tradizione ecclesiastica ha privilegiato la figurazione, e questo per l'ovvio motivo che Cristo stesso, Verbo incarnato di Dio, ha narrato il Padre con i gesti della propria vita corporea e psicologica nonché in parabole che parlano di uomini e donne. Di conseguenza l'idioma visivo narrativo per eccellenza, la figurazione con componenti di naturalismo e di indagine psicologica, sembra quasi imporsi alla Chiesa, sebbene ciò non escluda idonei ammodernamenti o l'uso simultaneo di altri linguaggi; soprattutto la funzione catechetica delle immagini cristiane sembra richiedere chiarezza e specificità che solo la figurazione può garantire.
Sembra. Ma in verità l'arte serve alla Chiesa non solo come strumento didattico. Nel contesto liturgico, ad esempio, essa è chiamata a diventare segno capace di introdurre nell'ambito del mistero, e questo a prescindere da eventuali elementi narrativi del rito. L'uso di immagini nel contesto della liturgia serve infatti a manifestare il particolare rapporto che, grazie all'Incarnazione di Cristo, sussiste tra segno e realtà all'interno dell'economia sacramentale - un rapporto che traspare poi non solo in raffigurazioni narrative ma in tutte le opere che l'uomo associa al culto divino, dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche. L'uso stesso delle cose nella liturgia rivela ed attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato assieme all'uomo e per mezzo dell'uomo a rendere gloria a Dio. Per un processo misterioso e nel contempo semplice, questa "rivelazione" diventa poi parte della fede vissuta, specialmente nell'ambito della celebrazione e del culto eucaristico: trovando Dio presente nella materia, il credente è portato a cogliere la nuova dignità di ogni cosa materiale, diventata ormai (almeno tendenzialmente) "ostensorio", come ogni "vedere" umano è ormai chiamato a diventare contemplazione adorante.
È in questo senso che alcuni recenti esperimenti con l'astrazione, ispiratisi alle Scritture e di notevole impatto materico, s'inseriscono efficacemente nell'ambito del sacro: penso ad esempio alla serie di opere in tecniche miste create tra il 1997-1998 da Armanda Negri col titolo Materia come realtà spirituale. Esposte nel 2000 nel complesso monumentale dell'antico ospedale Santo Spirito in Sassia a Roma, queste immagini composte di tessuti con inserti di foglio d'oro, caratterizzate allora come "icone astratte dello Spirito", definivano nell'insieme un contesto adatto alla celebrazione liturgica. Nello stesso spirito sono opere di Filippo Rossi in legno e carta quali la pala d'altare per la Cappella del reparto di maternità all'Ospedale Careggi, a Firenze, e la grande croce attualmente in preparazione per la cappella cattolica dell'Ospedale Meyer, sempre nel capoluogo toscano.
Trovo di particolare eloquenza un piccolo dipinto di Rossi intitolato Lux in tenebris inteso come immagine per la preghiera (ciò che gli storici tedeschi del Rinascimento chiamano un Andachtsbild: un'immagine per la riflessione o meditazione). È realizzato su una tavola di legno grezzo a cui l'artista ha applicato mossi strati di carta su ambo i bordi. La carta, essa stessa un derivato ligneo, è raggrinzita ed annerita quasi volesse evocare il logorio del tempo che sovrapponendosi alla materia ne offusca la dignità. Al centro dell'immagine un asse dorato spacca la tavola da cima a fondo, e a destra come a sinistra di questo fascio il legno, libero di carta nera e quindi chiaro, rivela la sua naturale venatura, il cui andamento verticale segue il movimento scendente del fascio dorato. L'impressione complessiva è di qualcosa d'imbrattato e sporco, o forse bruciato, al cui cuore penetra con irrefrenabile forza una luce che purifica, che libera, che risana rivelando la natura stessa della cosa. Il titolo dell'opera, ricco di echi isaiani, fa pensare a Colui che disse: "Come il lampo, guizzando, brilla da un capo all'altro della terra, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno" (Luca, 17, 24). A scanso di equivoci, Rossi ha inciso nella parte alta del fascio centrale un taglio, una sorta di "ferita nel costato" che non lascia dubbi sul senso di questa "Lux" risplendente fra le tenebre.
Ecco, non solo il figurativo tradizionale ma anche questo tipo di figurazione astratta può accompagnare il cammino interiore dei cristiani. Cristo stesso, pur nella concretezza del corpo assunto da Maria, non esitò a presentarsi in termini lontani da ogni possibilità figurativa, identificandosi come "via", "verità", "vita", "Risurrezione" e "luce" degli uomini. Così l'arte che si riferisce a Cristo, Verbo incarnato del Padre, può benissimo rivestire di forma e colore anche le parole più "astratte" del Salvatore, soprattutto per incentivare alla preghiera dove ognuno è chiamato ad andare oltre le conoscenze sensorie, e massimamente per accompagnare la preghiera liturgica, dove il carattere segnico dei riti invita a non soffermarsi sull'aspetto esteriore delle cose.
La sfida rappresentata da questo tipo d'immagine è duplice: da una parte gli artisti devono crescere nella sensibilità scritturistica e liturgica che solo permetterà loro di articolare, anche in forme astratte, messaggi autenticamente cristiani; sull'altro versante i fedeli devono essere in grado di riconoscere l'autenticità del messaggio ed apprezzarne l'originalità, lasciandosi affascinare da bellezze che l'occhio non ha mai visto né che sono entrate nel cuore degli uomini. Prima ancora la Chiesa deve riappropriarsi del suo storico ruolo di mecenate catecheta, perché sia artisti che fedeli vanno educati al senso più che letterale delle parole e dei riti che plasmano la nostra fede in Cristo.

(©L'Osservatore Romano - 12 gennaio 2008)

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