5 gennaio 2008

Quando Karol Wojtyla rileggeva il Concilio... (Melloni e Rodari)


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Precisazioni sull'articolo di Galeazzi e Di Giacomo e umile richiesta di rettifica di quanto scritto su e contro questo blog

Indice

CHIESA UN'ANALISI DEL FUTURO PAPA

Quando Karol Wojtyla rileggeva il Concilio

Alberto Melloni

Da venticinque anni il più importante volume scritto dal cardinal Wojtyla non veniva ripubblicato in italiano. «Alle fonti del rinnovamento. Studio sull'attuazione del concilio Vaticano II», fu infatti composto dall'allora arcivescovo di Cracovia nel 1972 e tradotto dalla Libreria editrice vaticana nel 1981. Quella rilettura del Vaticano che l'autore pensò ad uso delle sue parrocchie in un clima solo apparentemente distante da oggi, torna in libreria per Rubbettino, con prefazione del cardinal Ruini.
Wojtyla dichiara il debito verso il Concilio e verso lo Spirito che parlò alla chiesa «durante il Concilio e per suo mezzo», «in un determinato momento storico». Egli afferma con lucidità che nel rinnovamento conciliare non è in gioco una linea politica, ma la fede: «Questa, infatti, per sua essenza è una risposta alla parola di Dio, a ciò che lo Spirito dice alla Chiesa». E dunque quando si parla dell'attuazione del Concilio «si tratta proprio e soltanto di questa risposta» della fede. Pagine illuminanti per capire un Papa che è stato anche il protagonista di una ricezione creativa – basti pensare ad Assisi – in tutto ciò che suppone «una vera comunanza nei confronti della rivelazione», ma anche per capire questo tempo in cui il Concilio appare come una "cosa" da adattare, da buttare, da brandire. Per Wojtyla il Concilio era un «debito »: qualcosa meritevole di una vera «iniziazione», perché «ha delineato la forma di fede che corrisponde all'esistenza del cristiano contemporaneo» e ha marcato una «tappa storica dell'autorealizzazione della Chiesa».

© Copyright Corriere della sera, 5 gennaio 2008


Ruini propone il Concilio secondo Wojtyla

di Paolo Rodari

Oltre l’esegesi del Vaticano II offerta dalla cosiddetta “officina bolognese” del fu Giuseppe Alberigo - i «bravi progressisti» li definì George Weigel, uno dei principali biografi del Papa polacco - e quella snocciolata dai conservatori più tradizionalisti figli spirituali del fu Marcel Lefebvre - «cattivi conservatori» è il termine con il quale Weigel parla di loro - c’è una terza via.
È l’ermeneutica conciliare propria del cardinale Wojtyla, ermeneutica dedotta sulla scorta di quanto già aveva affermato Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio e Paolo VI in quello di chiusura. Ermeneutica che nel 1972, allorquando egli era vescovo di Cracovia, il futuro Pontefice polacco che aveva avuto il privilegio di partecipare al Concilio in qualità di amministratore capitolare dell’arcidiocesi di Cracovia, mise nero su bianco nell’opera "Alle fonti del rinnovamento: Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II".
Un’opera pubblicata in Polonia nel 2001 a cura dell’Associazione Teologica Polacca, edita in Italia nel 2001 grazie alla Libreria Editrice Vaticana, e oggi significativamente riproposta, con il contributo della Fondazione Novae Terrae, dall’Editore Rubbettino.
La preziosità della riedizione è data anche dal fatto che presenta un’introduzione del cardinale Camillo Ruini, uno dei primi porporati di Santa Romana Chiesa a indicare come centrale nel pontificato di Benedetto XVI il discorso che quest’ultimo rivolse alla curia romana il 22 dicembre del 2005, discorso inerente la corretta esegesi del Vaticano II. Dunque Ruini, a un passo dal lasciare ogni impegno pubblico (da quasi un anno non è più presidente della Cei e nei prossimi mesi è previsto il suo “pensionamento” dalla guida della diocesi di Roma), in un certo senso anticipa la prossima stagione della sua vita che inevitabilmente sarà dedicata ad analizzare da dietro le quinte le vicende intra ed extra ecclesiali e, con tempismo, offre il suo contributo a quella corretta esegesi dei lavori conciliari auspicata da papa Ratzinger.
Benedetto XVI indicò come portatrice di confusione quell’“ermeneutica della discontinuità” che anche grazie «al contributo dei mass media e di una parte della teologia moderna» si è affermata con forza nel decenni passati. Di questa ermeneutica - spiega Ruini nella prefazione all’opera di Wojtyla - è rimasta una “eco” ancora oggi, «come mostrano posizioni anche recenti di storici e teologi: l’appello generico allo “spirito del Concilio” espone al rischio di interpretazioni soggettive, che fraintendono l’autentica natura dell’evento conciliare e aprono lo spazio a sviluppi difficilmente compatibili con la sostanza del cattolicesimo».
Benedetto XVI il 22 dicembre del 2005 propose un’ermeneutica della riforma. «Ermeneutica - spiega Ruini - in cui la tradizione vive nell’intreccio fecondo e fedele di continuità (che non è ripetizione) e novità (che non è cambiamento della sostanza). Un impegno che scaturisce anzitutto da un rapporto vitale e spirituale con la parola della fede e da una vissuta ecclesialità».
Quale il nocciolo della “terza via” wojtyliana? Quale il succo del vademecum - «articolato ed organico» - del troppo a lungo dimenticato testo del cardinale polacco? Comprenderlo non è un mero esercizio letterario anche perché, se è vero che si deve alla scuola di Bologna il fatto d’essere riuscita, con un’attenzione puntuta, ad accedere ai documenti e ai carteggi del Concilio, è altrettanto vero che coloro che quelle carte le hanno studiate arrivando a conclusioni diverse (è il caso di Wojtyla) non sempre hanno visto un’adegauto rilancio del proprio pensiero
. Tanto che, addirittura, un maggiore impatto sembrano aver avuto gli interpreti di un fronte opposto a quello bolognese, appunto quello degli “ultra tradizionalisti”.
Tra i due opposti schieramenti, dunque, ecco la via di Wojtyla, «il primo - dice Ruini - e forse più approfondito studio» nell’ottica dell’ermeneutica della continuità. Il centro dell’interpretazione wojtyliana risiede tutto nella convinzione che il Concilio è stato innanzitutto un fatto religioso in cui il principale protagonista fu lo Spirito Santo. Il suo scopo non è stato quello di contrapporre il Vangelo alla modernità quanto quello di legare nella realtà del mistero di Gesù Cristo i due poli essenziali del discorso teologico: Dio e l’uomo. Non tanto, dunque, contrapporre il Vangelo allo “spirito del mondo” e neppure stemperarlo in una adesione acritica di sapore immanentistico, quanto riproporre la prima strada che la Chiesa deve percorre nel compimento della sua missione: Gesù Cristo. E, in questo senso, quanto più si radica il Vaticano II in Cristo, tanto più si esce dai discorsi autoreferenziali, dalle letture parziali. Tanto più si guarda a Cristo, insomma, la continuità con la tradizione passata non viene interpretata come mera ripetizione e, insieme, la novità, pur restando tale, non apporta cambiamenti sostanziali.

© Copyright Palazzo Apostolico, il blog di Paolo Rodari

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Pur di prenderserla con BXVI, Melloni parlerebbe bene di tutti i papi precedenti, anche Pio XII.Però, mi sembra, da profana, che ultimamente le messe in San Pietro non hanno nulla da invidiare a quelle del Vetus Ordo, rendendo superflua la battaglia sul Motu proprio e spirito del concilio. Buona Epifania, Eufemia.

Anonimo ha detto...

Buona Epifania, Eufemia!
Sottoscrivo quanto hai detto: la liturgia puo' essere bellissima sia con il vecchio Messale sia con quello di Paolo VI. Per questo non ha senso dividersi fra guelfi e ghibellini: la Santa Messa non dovrebbe essere catalogata in "vecchia e nuova" ma in "bella e brutta". Penso che il motu proprio Summorum Pontificum vada anche in questa direzione: liberta' nella bellezza liturgica.

euge ha detto...

Condivido quello che dici Eufemia sul fatto che Melloni pur di dare contro a Benedetto XVI è il suo passatempo preferito, parlerebbe bene anche di Pio XII......... Comunque, sicuramente il Summorum Pontificum dal mio punto di vista, va letto anche sotto la chiave interpretativa proposta da Raffaella. La Messa è una celebrazione e come tale credo, nella mia ignoranza in materia, che non si possa catalogare in nuova maniera e vecchia maniera ci sono due riti uno tridentino, che poi sarebbe quello di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI. Se cominciassimo a celebrare come si deve quello di Paolo VI, che è oggetto, spesso di strane coreografie che nulla hanno a che vedere con la vera liturgia, già saremmo a buon punto; ma, se c'è la possibilità di celebrare usando entrambi, perchè non farlo! Perchè rinnegare un patrimonio culturale e religioso che lo stesso Concilio non ha mai rinnegato?