5 gennaio 2008
Intervista dell'Osservatore Romano e di Radio Vaticana a padre Peter-Hans Kolvenbach, che si appresta a lasciare la guida della Compagnia di Gesù
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Intervista de "L'Osservatore Romano" e di Radio Vaticana al preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Peter-Hans Kolvenbach
Gesuiti, uomini in missione alle frontiere della fede
Alla vigilia della trentacinquesima Congregazione generale della Compagnia di Gesù, che si apre il 7 gennaio a Roma, "L'Osservatore Romano" e la Radio Vaticana hanno intervistato padre Kolvenbach, che lascia la guida della Compagnia dopo quasi venticinque anni.
Nella precedente Congregazione generale della Compagnia di Gesù svoltasi nel 1995 lei definì una "scintilla" il legame stabilito tra fede e giustizia. Quale potrebbe essere la "scintilla" per la Congregazione che si apre il 7 gennaio?
La "scintilla" della prossima Congregazione sarà necessariamente la scelta del nuovo preposito generale. Scegliendo l'uno o l'altro fra le migliaia di gesuiti capaci di diventarlo, la Compagnia dice ciò che si attende per il suo avvenire: un profeta o un saggio, un innovatore o un moderatore, un contemplativo o un attivo, un uomo di punta o un uomo di unione? In effetti la Congregazione Generale comincia con una valutazione della sua situazione presente, con un discernimento su ciò che nella Compagnia è luce o piuttosto ombra nel suo servizio alla Chiesa e al mondo. È da questa valutazione che deve scoccare la "scintilla": ecco il gesuita di cui abbiamo bisogno per progredire sulla via di Dio.
Lo sviluppo dell'impegno nel sociale ha caratterizzato la storia della Compagnia di Gesù dopo il Vaticano II. Resta anche oggi una priorità?
La priorità rimane, ma più integrata nella missione complessiva della Compagnia di Gesù. Pastorale e sociale non si contrappongono: è la fede che ci spinge, in nome del Signore, verso l'altro che vive in una situazione di miseria e d'ingiustizia. Il Signore stesso si è fatto prossimo dell'uomo mezzo morto che giaceva al bordo della strada, mettendo così in pratica il comandamento sempre nuovo dell'amore. Se sono solo pochi i gesuiti che svolgono la loro missione direttamente nel campo sociale, tutti i gesuiti sono chiamati a vivere pienamente la dimensione sociale inevitabilmente presente in ogni lavoro pastorale o educativo, nell'accompagnamento spirituale e in ogni forma di evangelizzazione. Già per i primi gesuiti non era possibile chiamarsi "compagni di Gesù" senza essere amici di questi compagni di Gesù che sono i poveri.
I gesuiti nel mondo si trovano a operare ed evangelizzare in contesti diversi. Qual è il filo conduttore che li lega?
Il gesuita è essenzialmente un uomo in missione. Una missione che egli riceve dal Papa, dai suoi superiori, ma in ultima analisi dal Signore Gesù, egli stesso inviato dal Padre. I gesuiti desiderano continuare questa missione tra gli uomini e le donne del nostro tempo, soprattutto dove c'è maggiore bisogno. Ciò comporta una presenza alle frontiere, che una volta erano piuttosto frontiere geografiche della cristianità; oggi sono piuttosto le frontiere tra Vangelo e cultura, tra fede cristiana e scienza, tra Chiesa e società, tra la "buona notizia" e un mondo turbato e sconvolto. Secondo le esigenze di questa missione vi sarà sempre una incredibile varietà di scelte e di opere apostoliche, ma in tutte si troveranno riunite queste tre responsabilità: annunciare la parola di Dio, condividere la vita di Cristo, testimoniare la carità che lo Spirito sollecita e alimenta. E poi c'è una sorgente comune profonda della nostra spiritualità: questa nasce dagli Esercizi spirituali di sant'Ignazio che ci portano - sia personalmente sia nella formazione spirituale degli altri - a cercare e trovare la volontà di Dio e i segni della sua presenza nelle situazioni concrete e varie della vita e della storia.
La Compagnia di Gesù ha una grande tradizione nel campo dell'educazione. È così anche oggi? E come?
La rete delle istituzioni educative della Compagnia è tuttora così vasta che molti pensano che l'ordine sia stato fondato per l'apostolato educativo. Ma non è così perché la missione dei gesuiti è così ampia da non restringersi a un solo campo specifico, pur importantissimo. Il primo collegio dei gesuiti, quello di Messina, fu fondato otto anni dopo l'approvazione papale della Compagnia. Tuttavia Ignazio e i suoi compagni si resero presto conto che, per il fine apostolico che si proponevano, l'educazione della gioventù era un campo privilegiato. Questa attività raggiunse in seguito uno sviluppo e un'importanza enormi. Attualmente circa quattromila gesuiti vi sono impegnati. L'immagine elitaria attribuita alle scuole dei gesuiti ci ha portato a una revisione e a un rinnovamento importante, cosicché numerosi istituti hanno aperto le loro porte a studenti di gruppi sociali economicamente deboli. Ad esempio le scuole di Cristo Re negli Stati Uniti, e quelle di Fe y Alegria in diverse parti del mondo, ma in particolare in America latina, si sono distinte per una strategia creativa e innovatrice, che facilita a giovani meno favoriti economicamente l'accesso a una formazione che arrivi fino ai livelli universitari. Modificando una strategia che privilegiava la eccellenza accademica, la Compagnia si è impegnata in programmi di educazione degli adulti, di alfabetizzazione e di istruzione primaria. Fe y Alegria opera in sedici paesi dell'America latina, in più di milleseicento località, con circa un milione e quattrocentomila studenti.
Il rapporto fra fede e ragione è uno dei grandi temi di questo pontificato ed è decisivo per il ruolo delle religioni nel mondo moderno. Come affrontano i gesuiti questo nodo?
I gesuiti hanno un campo privilegiato per impegnarsi nella ricerca di questa relazione: le molte università di tutto il mondo, che necessariamente devono confrontarsi con il dialogo fra fede e ragione. In altri tempi la teologia e la filosofia erano considerate come scienze intimamente connesse ai valori umani. Oggi sono piuttosto le scienze positive che si arrogano la trasmissione dei fini e dei valori della vita umana. Senza porre ostacoli al rigore scientifico, un'università di ispirazione cristiana è chiamata alla ricerca della verità nella sua totalità, e quindi a considerare l'alleanza tra le scienze e la fede cristiana. Come diceva Blaise Pascal, "nell'uomo c'è qualcosa che supera infinitamente l'uomo": per dar senso alla vita umana non si può prescindere da una fede trascendente. Dal Vangelo di Gesù riceviamo una luce e una certa comprensione del mistero che inevitabilmente circonda la nostra esistenza. Fra il mistero e l'assurdo noi optiamo per il mistero: un mistero non può essere dimostrato dalla ragione ma è eminentemente ragionevole. Anche Giovanni Paolo II non accettò mai il principio della divisione e della separazione fra la rivelazione e la ragione. Nell'impegno intellettuale che deve caratterizzare l'università cristiana, i gesuiti del secolo XXI vogliono quindi seguire il cammino tracciato da Benedetto XVI alla ricerca di una fede che illumina e corona gli sforzi della ragione.
Alcuni teologi cattolici si lamentano per la scarsa autonomia che ha il loro compito rispetto al magistero. Come vede questo rapporto?
Il teologo cattolico non si stupisce di non essere autonomo nella sua ricerca e nel suo pensiero, perché neppure la Chiesa è autonoma nella sua fede. In alcuni testi patristici la Chiesa è paragonata alla luna, perché tutta la luce di cui essa dispone per rischiarare la nostra notte le viene dal sole. San Paolo lo diceva con altre parole, sottolineando che egli trasmetteva ciò che a sua volta aveva ricevuto. Questa tradizione della fede non condanna però affatto il teologo a ricopiare testualmente la dottrina della Chiesa. La Chiesa attende dal teologo che egli trasmetta la fede come una risposta viva e vitale agli uomini in cerca di Dio e alla ricerca delle soluzioni dei problemi che la vita pone loro. Quando un teologo, in piena fedeltà al magistero, riesce a illuminare in una maniera personale e creatrice le tenebre dei nostri dubbi e del nostro avanzare a tastoni questo costituisce un vero dono dello Spirito. Già san Paolo chiede alla Chiesa di assumere la fede in tutta la sua integrità, senza spegnere lo spirito che anima il teologo.
Quale futuro vede per l'evangelizzazione della Cina e del mondo asiatico?
A parte l'urgenza missionaria dell'annuncio evangelico a un popolo così numeroso e di cultura così avanzata come la Cina, i gesuiti non possono dimenticare la tradizione della loro presenza in Cina fin dai primi tempi della Compagnia, a cominciare dal sogno di san Francesco Saverio, per continuare con la meravigliosa attività apostolica di Matteo Ricci e dei suoi compagni. Riuscirono a predicare Cristo con il linguaggio della cultura e della mentalità cinese, superando i pregiudizi e i sentimenti di superiorità europei. Questa tradizione ci spinge a non distogliere il nostro sguardo dal mondo cinese. In realtà la Compagnia non ha mai rinunciato al desiderio di servire il popolo cinese nelle sue aspirazioni spirituali, predicando il "maestro supremo" che i cinesi intravvedevano nella nobile figura dei loro filosofi. Perciò, quando nel 1949 i gesuiti furono espulsi dalla Cina, molti di loro rimasero in paesi vicini, aspettando una buona occasione per tornare al loro posto. Non mancarono neppure giovani gesuiti che si recarono in questi paesi limitrofi - Filippine, Taiwan, Hong Kong - e fecero il colossale sforzo di apprendere la lingua cinese sognando il giorno in cui si sarebbero riaperte le porte della Cina. Per la Compagnia di Gesù, a parte una presenza attuale assai modesta, è ancora il tempo dell'attesa. Attesa che gli sforzi della Santa Sede per riprendere le relazioni con la Cina ci permettano di tornare a una missione così legata alla storia della Compagnia.
La Compagnia di Gesù è particolarmente attenta al dialogo tra le religioni. È possibile il dialogo con l'islam?
Perché un dialogo sia possibile è necessario cominciare con un sincero rispetto mutuo che vada al di là della mera cortesia. Senza questo non ci sarà dialogo, ma al più confronto.
Un secondo passo ci è stato indicato da Giovanni Paolo II quando parlava del "dialogo della vita", cioè condividere i desideri e i problemi di ogni comunità umana: i desideri di vivere in pace, nella sicurezza, in un ambiente libero dall'inquinamento. In questa atmosfera di condividere i desideri e cercare i rimedi può avvenire il secondo passo: un dialogo religioso con scambio di esperienze spirituali e di pratiche religiose in cui si ritrovano sentimenti religiosi genuini nonostante le ovvie divergenze. Infine c'è il dialogo religioso fondato negli elementi teologici di ambedue le religioni. Naturalmente questo è riservato ai teologi, che dovrebbero arrestarsi rispettosamente dinanzi a un problema insolubile: la fede dei cristiani nella Santa Trinità non può ridursi alla formulazione di un monoteismo puro come quello professato dall'islam. Quest'ultima difficoltà teologica non dovrebbe però essere un ostacolo al dialogo della vita raccomandato dal Papa, perché tanto i cristiani quanto i musulmani hanno un vero senso religioso della vita e condividono la persuasione che "non di solo pane vive l'uomo".
Quali ispirazioni ha preso dal suo compianto predecessore padre Pedro Arrupe - di cui a novembre è stato ricordato il centenario della nascita - nel guidare in quest'ultimo quarto di secolo la Compagnia di Gesù?
Da padre Arrupe abbiamo imparato un ritorno alle fonti nella luce del concilio Vaticano II. Se una famiglia religiosa è un dono dello Spirito, che cosa ha voluto dire il Signore suscitando la Compagnia di Gesù? In un'epoca in cui la Chiesa era travagliata dalla divisione dei cristiani, e rischiava di dimenticare che era stata fondata per annunciare il Vangelo ai popoli, sant'Ignazio e i suoi compagni sono stati chiamati a continuare la missione di Cristo soprattutto là dove egli non è conosciuto o è poco conosciuto. Dal Vaticano II padre Arrupe attingeva la forza per interrogare tutti i suoi confratelli e tutte le loro attività per sapere se il loro impressionante lavoro era veramente e chiaramente un continuare la missione di Cristo. Una missione che, geograficamente parlando, non è affatto compiuta e che, al contrario, dev'essere ricominciata nei Paesi di tradizione cristiana. Una missione, anche, che si colloca alle frontiere tra fede e cultura moderna, fede e scienza, fede e giustizia sociale, dove bisogna portare la presenza della Chiesa. Per poter compiere questo annuncio del Cristo, il compagno di Gesù deve essere e vivere in funzione di questa missione. Già ai tempi di sant'Ignazio, ciò richiedeva una rottura con lo stile della vita monastica, e anche oggi esige un'esistenza alimentata dalla contemplazione dei misteri della vita di Cristo proprio mentre compie la sua missione, per conformarvi l'azione missionaria di ogni giorno. Ecco quello che padre Arrupe, come un vero profeta del rinnovamento conciliare, ha cercato di realizzare in una vita che rimane per noi fonte di ispirazione.
Quanto resta da fare oggi per realizzare nel concreto le indicazioni del Vaticano II?
Il compito di tradurre in pratica le linee tracciate dal Concilio Vaticano II non sarà mai compiuto. Bisogna riprenderlo continuamente di nuovo, poiché non si tratta di modificare qui o là qualche pratica nella Chiesa, ma di realizzare il nuovo convertendosi, cambiando il proprio cuore per lasciarsi toccare dal cuore di Dio. Per esempio il riconoscimento del ruolo dei laici nella Chiesa non si può limitare a designare qualche posto per loro nell'organigramma della Chiesa, ma chiama i laici fedeli a Cristo ad assumersi la loro missione specifica nella Chiesa e per la Chiesa nel mondo. Questa assunzione di responsabilità nella comunione nello Spirito che è la Chiesa, esige una conversione del cuore. Concretamente, i numerosi movimenti ecclesiali che sono frutto del concilio non richiedono ai loro membri una semplice iscrizione, ma il dono di se stessi. Scegliendo di parlare dello sviluppo postconciliare con l'espressione "ermeneutica della continuità", Benedetto XVI dice che il rinnovamento attingerà sempre nel passato della vita della Chiesa con il suo Signore che fa sempre nuova ogni cosa. Noi non avremo mai l'ultima parola: tocca a lui, che costruisce con noi una terra nuova e un cielo nuovo.
Dopo ventiquattro anni lei tornerà ad avere un superiore religioso: è il primo generale dei gesuiti a cui questo avviene, se si eccettua padre Arrupe. Come si prepara a questo cambiamento nella sua vita?
Già san Benedetto sapeva di dover essere in ascolto dei suoi confratelli, perché Dio poteva parlargli attraverso la bocca del monaco più giovane. Dopo quasi venticinque anni di ascolto di circa ventimila gesuiti, l'obbedienza a uno solo dovrebbe essere piuttosto un tempo di pace. Almeno, io spero di non essere per lui un peso da portare o sopportare.
(©L'Osservatore Romano - 5 gennaio 2008)
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