10 marzo 2008

Fede e ragione: il filosofo Jean-Luc Marion ed il teologo Angelo Bertuletti a confronto (Eco di Bergamo)


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Carlo Dignola

Dice che «l'intellettuale non deve atteggiarsi a prete laico»: lui infatti parla rigorosamente da filosofo, alla teologia però ha parecchio da dire. Con i suoi colleghi più in vista, che rilasciano interviste sul declino della casalinga o sul destino della Spagna di Zapatero non è tenero: «Nessuno crede che quelli che occupano in continuazione le pagine dei giornali siano dei grandi filosofi. Emmanuel Lévinas, uno dei pochi che abbia detto cose davvero importanti, non ha mai scritto articoli per i giornali.

I mass-media sono solo un'eco di ciò che è stato pensato altrove. Il mare è più profondo della superficie su cui si scatenano le tempeste».

Di recente ha scritto un libro che si intitola Il fenomeno erotico che è stato un sasso nello stagno, prima in Francia e ora anche in Italia: non parla, naturalmente, dell'eros di consumo che ormai è ovunque attorno a noi (e dentro di noi), ma di quello che fa amare il sapere e anche la santità. Jean-Luc Marion oggi è uno dei filosofi europei più interessanti. Domani sarà a Bergamo dove terrà due conferenze: la sera al Centro congressi «Giovanni XXIII» parlerà di Dio, il pomeriggio in università parlerà del «dono», uno dei suoi temi forti, affinato in un dialogo serrato con Jacques Derrida. Lo abbiamo ascoltato venerdì a Padova, in un teatro gremito per il «Dies Academicus» della Facoltà Teologica del Triveneto diretta da don Andrea Toniolo. Davanti al Gran cancelliere della facoltà cardinale Angelo Scola e al vescovo di Padova Antonio Mattiazzo, Marion si è dedicato a una tipica «riduzione fenomenologica», il metodo filosofico – definito all'inizio del '900 da Edmund Husserl – che ha scelto per fare filosofia.
Come primo passo ha demolito tutte le più diffuse belle idee sul «dare» e sul «donare» (in francese per esprimere questi due concetti si usa la stessa parola: donner) che sono di moda soprattutto fra i cattolici (lo stralcio del suo discorso uscito su Avvenire giovedì rappresentava proprio questa impietosa pars destruens ). Il dono – dice Marion – può sempre essere letto anche come un tipo particolare di «scambio», e dunque può rientrare in una forma di oculata, civile, ben articolata economia. Regalare prevede sempre un certo ritorno, se non materiale almeno morale: «Non si dona mai – dice il filosofo – che per contanti, e per divenirne contenti». La stessa solidarietà di cui tanto ci riempiamo la bocca finisce per essere non un gesto di carità gratuita ma uno dei metodi per redistribuire il reddito, una forma di gestione psicosociale del senso di colpa che grava su noi occidentali.
Chiusi i conti con i «buoni», Marion ha passato sotto la sua lente i «cattivi»: ha attaccato l'idea «economica» del mondo che governa nel profondo le nostre azioni e anche i nostri sentimenti. Oggi – come si dice – «tutto ha un prezzo», il capitalismo si fonda proprio su questa idea piuttosto semplice. Fino a lasciar crescere il sospetto che abbia un prezzo anche il desiderio: e infatti l'erotica si risolve in una generale pornografia merceo-logica (la cui logica è che tutto, compreso l'uomo, è una merce).
Il dono per Marion non è una forma di generosità che ci interpella in occasioni particolari, come i compleanni o il giorno di San Valentino, ma uno stato permanente, quasi biologico: «Noi doniamo continuamente: doniamo così come respiriamo, in ogni istante, in tutte le circostanze, dal mattino alla sera, e non passa giorno senza che, in un modo o nell'altro, non abbiamo dato qualcosa a qualcuno, talvolta persino abbiamo "dato tutto"».
L'esempio vivente di cosa sia davvero il «dono» per Marion è il padre: che dà la vita, un bene che il figlio non potrà mai restituirgli o «ripagare», anche se fosse il migliore dei figli possibili. Ricevere la vita è un'esperienza che rende impossibile pareggiare qualsiasi bilancio esistenziale e carnale. Al massimo il figlio potrà a sua volta donare la vita a un altro, con un gesto che di nuovo andrà del tutto al di là di ogni calcolo e di ciò che un uomo possiede: dando la vita il padre non dà qualcosa che è suo.
Questo padre a cui si deve tutto, però – dice ancora Marion – «resta essenzialmente assente e messo fra parentesi. Perché il padre manca. Manca anzitutto perché non procrea che nell'istante e, divenuto superfluo, immediatamente si ritira, al contrario della madre, che resta e nella quale il figlio rimane». Il padre «si fa notare dal figlio in ciò che gli fa mancare, e questo per principio». Non perché sia un «padre assente» – come si dice oggi –, di quelli che si fanno gli affari loro, «egli manca piuttosto perché non può mai fondersi con il figlio». Il padre «si manifesta nella misura in cui scompare». Il padre «indica l'unica indiscutibile trascendenza che ogni vita umana può e deve riconoscere nella propria immanenza; di modo che, se mai dovessimo chiamare Dio con un nome, sarebbe adeguato chiamarlo "Padre" e così soltanto».

Professore, lei è un grande studioso di Cartesio. Iniziamo dunque con una domanda sul metodo: perché, fra i diversi che la filosofia contemporanea offriva, ha scelto proprio questo della fenomenologia?

«Perché è il movimento filosofico più potente dell'ultimo secolo. L'unico che lo abbia attraversato registrando una conferma e un'accumulazione dei propri risultati. Cosa che non è accaduta, ad esempio, con la filosofia analitica, che oggi è molto contraddittoria al suo interno. È efficace nella pars destruens , ma non ha aperto una strada alla razionalità nella pars construens . La fenomenologia, al contrario, ha dato vita a una tradizione coerente».

I primi passi, fra '800 e '900, li ha mossi in Germania: oggi però si è impoverita in quell'ambito e ha trovato invece nuova vita in Francia.

«Ci sono motivi storici anzitutto. Il nazismo ha fatto fuggire una parte rilevante dei filosofi tedeschi negli Stati Uniti e in Francia: è ovvio che un autore come Lévinas, ebreo, abbia sviluppato da noi il suo lavoro. E anche dopo la guerra in Germania tutta la tradizione filosofica sembrava compromessa con il passato politico».

Heidegger, Nietzsche… La miglior tradizione.

«Nella stessa Germania si è sviluppata un'opposizione alla filosofia tedesca: la Scuola di Francoforte è stata una critica post-marxista dell'idealismo tedesco, che in questi ultimi decenni si è alleata con la filosofia analitica: Jürgen Habermas. I tedeschi hanno lasciato la loro tradizione, e proprio in quel momento la Francia l'ha fatta sua. Oggi potremmo quasi dire che Husserl e Heiddeger sono diventati dei filosofi francesi. Inoltre, è capitato che siano apparse contemporaneamente in Francia diverse grandi personalità: Lévinas, Ricoeur, lo stesso Sartre, Merleau-Ponty, Michel Henry, Derrida: per trent'anni la Francia è stata al centro di un "evento filosofico" che mi pare continui ancor oggi. E che, a differenza di ciò che si pensa in Europa, ha un'influenza notevole anche negli Stati Uniti».

Il dono è il contrario del guadagno o c'è qualcosa da guadagnare anche quando si dà a braccia aperte?

«Il guadagno del dono è che si può guadagnare anche quando si ha perso. Un proverbio orientale dice: "Una cosa che non è donata è perduta". Ci sono cose, come la vita stessa, che possono restare vive solo se sono donate, perché non possono essere se non sono ricevute. Non possiamo avere vita: dobbiamo ricevere la vita. La vita, per sopravvivere, deve essere donata».

Oggi donare sembra diventato difficile. Quando arriva Natale, al di là di una certa ostilità verso la festa religiosa, tutti fanno tanti regali ma restano come oppressi, quasi indispettiti da un'insoddisfazione di fondo.

«È vero. La figura della razionalità postmoderna è precisamente l'interpretazione economica di un ambito di fenomeni sempre più largo. Il primo elemento a essere caduto sotto questo tipo di interpretazione è il lavoro».

Con il marxismo.

«Il lavoro inteso come salario. Poi la famiglia stessa, latu sensu , è caduta anch'essa in questo calcolo: il matrimonio oggi viene interpretato come un problema economico. E naturalmente anche il divorzio».

Gli «alimenti»...

«La stessa educazione dei bambini – oggi i giornali si chiedono spesso "quanto costa avere un figlio?" – è diventata una parte dell'economia. Abbiamo l'abitudine di interpretare se non l'intera esperienza umana, almeno una gran parte di essa, in questi termini. Dunque la nostra esperienza del dono e della gratuità è diventata molto limitata».

Ha intitolato il suo intervento a Padova «La ragione del dono». Mi pare che voglia dire esattamente il contrario di quello che sembra a prima vista: non è il dono ad aver bisogno di una ragione. Il dono rappresenta invece una «ragione» dell'esperienza più ampia della ragione come la intendiamo noi abitualmente.

«Esiste una soluzione più facile: dire che abbiamo bisogno della ragione, con la sua forza – la "forza del destino" – e che essa ha però anche i suoi limiti, e dunque ci sono altri fenomeni che non sono "ragionevoli" ma sono anch'essi reali: l'amore, il dono, la fede, eccetera. Ma la nostra situazione, credo, è un'altra: abbiamo bisogno di allargare la dimensione della ragione. Perché l'uso tecnologico della ragione non è l'unico e non basta. Tutti abbiamo l'intuizione che la ragione possa andare al di là di esso. Ho scritto Il fenomeno erotico proprio per spiegare che c'è una razionalità, paradossale ma anche molto forte e rigorosa, del desiderio, dell'eros, che tutti noi abbiamo sperimentato. E questo è vero anche per la questione del dono. Il dono non occupa soltanto lo spazio lasciato libero dall'economia: esso è un'altra interpretazione della stessa realtà di cui parla l'economia. Il medesimo fenomeno può venire letto secondo una "ragione di scambio" oppure secondo – appunto – la "ragione del dono"».

Oggi, secondo lei, laici e cattolici sono più distanti come dicono molti, o più vicini?

«Penso che la Chiesa e i cristiani da una parte e la cultura laica dall'altra siano molto cambiati. Non siamo più nella situazione di una divisione tra la ragione con le sue certezze, l'essenza della logica, la scienza da una parte, e dall'altra una fede senza cultura; o al massimo dotata di una "cultura del credere" che si definisce in opposizione al "sapere". La situazione postmoderna è che la filosofia stessa è profondamente convinta che la ragione sia in crisi. Il problema non è venuto dall'esterno, se lo poneva già Husserl, che infatti scrisse un famoso saggio sulla Crisi delle scienze europee . La biologia oggi si chiede quale sia l'essenza del "vivo", l'economia se può essere davvero una scienza dal momento che il suo oggetto non può essere completamente formalizzato… Sono tutti segni della crisi della razionalità. In questa situazione la fede cristiana ha qualcosa da dire: la teologia è abituata a lavorare sul problema di dover oltrepassare i limiti della ragione. I cattolici oggi hanno il vantaggio non di un sapere imperialistico ma proprio di questo "sapere della crisi", perché sin dall'inizio la fede ha fatto l'esperienza di parlare di cose che non possono essere dette e pensate. Dunque si apre una nuova forma di dialogo».

© Copyright Eco di Bergamo, 9 marzo 2008


«Ragione e fede si incontrano nell'esperienza»

Angelo Bertuletti: la verità traspare e trascende La rivelazione non si impone, sollecita la libertà

Giulio Brotti

A Eugène Ionesco, che si definiva personalmente «un incredulo pieno di fede», si attribuisce anche l'affermazione per cui Dio costituirebbe «l'unico argomento veramente interessante».
A questo argomento (come emerge dall'intervista pubblicata nella pagina a fronte) il filosofo Jean-Luc Marion ha dedicato opere impegnative come Dio senza essere (Jaca Book, pp. 296, euro 36) e Dialogo con l'amore (Rosenberg & Sellier, pp. 136, euro 13), una raccolta di testi di sue lezioni tenute nel 2006 alla Scuola di alta formazione filosofica di Torino, una delle quali aveva appunto per titolo L'impossibile o Dio . Che Marion tenti di pensare Dio «senza l'essere» o come «l'impossibile» non significa evidentemente che egli ne neghi, o ne ponga in dubbio, l'esistenza: lo sforzo è piuttosto quello di tutelare il discorso sull'unico, vero Dio – quello «vivente», secondo il lessico della Bibbia – dall'ingordigia della pensée calculatrice , di una «ragione obiettivante» che tenderebbe a ridurlo a un ente immobile e atemporale, incapace di parlare al cuore degli esseri umani.

Nella doppia veste di teologo e di filosofo monsignor Angelo Bertuletti – preside del corso di Teologia del Seminario di Bergamo – dialogherà domani sera con il pensatore francese, sottolineando gli spunti positivi offerti dalla sua riflessione e, al tempo stesso, riformulando in una diversa ottica la questione della «dicibilità-pensabilità» di Dio da parte dell'uomo.

«Marion è soprattutto noto come il teorico del "dono", una nozione secondo lui più veridica e originaria rispetto a quella di "essere" – afferma monsignor Bertuletti –: Dio stesso, da questo punto di vista, più che come Ente supremo deve essere pensato come un Innominabile che per sua iniziativa ci afferra, e proprio in questo modo si dona, si rende "visibile" all'uomo. Tuttavia Marion ha anche approfondito un altro particolare tema, quello dei cosiddetti "fenomeni saturi": di quei fenomeni, cioè, talmente densi dal punto di vista intuitivo che non si lasciano definire mediante concetti, ma al contrario travalicano e sommergono gli schemi dell'esperienza ordinaria. Fenomeni saturi, nell'accezione di Marion, sono ad esempio l'opera d'arte (l'"idolo", come lui usa dire) e l'"icona", ossia il volto dell'altro soggetto umano, quando egli entra in rapporto con noi».

Ecco, più che essere da noi guardato – sostiene Marion, riprendendo l'insegnamento di Emmanuel Lévinas – l'altro ci guarda, ci costituisce; egli non si riduce ai suoi tratti fisici, ma paradossalmente «risiede nei buchi neri delle sue pupille».

«Sì. Ma l'approdo teologicamente più notevole del discorso di Marion è un altro: egli ritrova il grado massimo del fenomeno saturo nella rivelazione cristiana; essa giunge a noi come un evento che ci rivela non solo il volto di Dio, ma anche il senso ultimo della condizione umana. Certo, Marion chiarisce che alla filosofia spetta solo di mostrare la possibilità, e non l'effettività di questo tipo di evento: il sapere non sostituisce la fede. Comunque, in questa descrizione della rivelazione di Cristo, in cui ogni cosa diviene visibile come altrimenti mai, si trova il contributo più esplicito di Marion alla teologia: un contributo che però, a mio avviso, necessita di una correzione».

In che senso?

«Il rischio, nella concezione marioniana, è che la rivelazione divina finisca per "imporsi" all'uomo, piuttosto che sollecitare la sua libertà. Prendiamo ad esempio le considerazioni che Marion esprime in Il visibile e il rivelato (Jaca Book, pp. XVI-175, euro 22, ndr.), nelle pagine in cui affronta l'annosa questione della possibilità e del senso di una "filosofia cristiana". Egli scarta una tesi tradizionale, diffusa nella neoscolastica, per cui la rivelazione divina ci permetterebbe di raggiungere con più facilità una serie di verità teoricamente attingibili anche mediante la "semplice ragione": se queste verità possono essere razionalmente dimostrate – è l'obiezione –, non attengono all'ordine della rivelazione e della fede. La soluzione di Marion – a suo modo geniale –, è che la rivelazione di Cristo non ci comunicherebbe delle "verità aggiuntive", ma agirebbe in modo dirompente, mettendoci in condizione di comprendere nuove cose per il semplice fatto che l'ordine stesso del mondo è stato da essa cambiato. E tuttavia questa posizione, che richiama quella del protestante Karl Barth (1886-1968), finisce per rendere irrilevante la condizione originaria dell'uomo, e la sua attitudine a rispondere liberamente alla chiamata che Dio gli rivolge».

Lei intende dire che il senso di questa chiamata deve in qualche modo risultare comprensibile già a partire dalla «situazione ordinaria» dell'essere umano?

«Occorre andare più a fondo, e ripensare il significato di ciò che chiamiamo "evidenza", come momento essenziale del nostro sapere. Nella cultura contemporanea prevale l'idea di una contrapposizione tra la "evidenza razionale" e la fede, che nella migliore delle ipotesi è considerata un "sentimento soggettivo" incontestabile perché, in ultimo, insignificante. In realtà questa concezione falsifica radicalmente il significato peculiare della fede cristiana. Soprattutto, ci si dimentica che il sapere non si riduce alla figura del sapere concettuale, o empirico, come nel caso degli esperimenti di laboratorio: la forma originaria dell'esperienza umana è simbolica, perché in essa il dato immediato rimanda continuamente a un orizzonte più ampio, a una realtà originaria che non si lascia mai semplicemente convocare in nostra presenza. Proprio perché la verità ultima – ciò che decide il senso della sua vita – traspare nel visibile e al tempo stesso lo trascende, l'uomo è chiamato a decidersi per essa liberamente. La fede cristiana, come accoglienza di una promessa, non si riduce dunque né a una constatazione di fatto né a un atto extrarazionale della volontà: è piuttosto il compimento di una tensione che sempre caratterizza l'umano».

In ultimo, una domanda sul significato che la teologia può rivestire per l'odierna cultura «laica». Un grande teologo scomparso tre anni fa, Giuseppe Colombo, scriveva: «La fede non è riservata ai cristiani, è destinata in linea di principio a tutti gli uomini; né la ragione teologica è riservata ai teologi, ma si propone, senza preclusioni né pretese di immunizzazione, alla ragione critica». Non si avverte oggi la mancanza di un confronto di questo tipo, tra la teologia e il sapere «profano»?

«Oggigiorno nella filosofia accademica prevale un atteggiamento "agnostico": in generale, il discorso su Dio non è oggetto d'irrisione, ma viene volentieri relegato in un ambito specialistico, quello della "filosofia della religione". Si fa fatica ad affrontare la questione della verità, che viene perlopiù predicata al plurale, immaginando che vi siano tante verità "locali" – sempre parziali e rivedibili – quanti sono i settori d'indagine. A fronte di questo stato di cose, la teologia cristiana ci ricorda l'urgenza della domanda sulla verità ultima, sul senso complessivo dell'esperienza umana. Riscoprire il valore simbolico del nostro sapere, nel senso che ho indicato, significa a un tempo liberare la ragione dai limiti di uno scientismo miope, così come dai sogni ideologici che imporrebbero all'uomo di conseguire la sua salvezza mediante la prassi, come un nuovo Prometeo. La storia universale, considerata dal punto di vista cristiano, non è il movimento di una presunta, progressiva autorealizzazione dell'umanità, ma il luogo di una libera manifestazione della verità dell'essere».

© Copyright Eco di Bergamo, 9 marzo 2008

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