20 gennaio 2008

Il Papa e la verità: è la realtà che sconfigge la menzogna (dell'Asta per "L'Eco di Bergamo")


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Il Papa e la verità: è la realtà che sconfigge la menzogna

Adriano dell'Asta

Chi non ha voluto che il Papa parlasse alla Sapienza temeva di assistere all'imposizione di una verità dogmatica, e di fronte al discorso reale si trova ora letteralmente svergognato da un Papa che ha concluso il suo intervento affermando che proprio il Papa «sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà»; e ancor più paradossale deve sembrare il fatto che Benedetto XVI giunga a questa conclusione non rinunciando minimamente alla sua posizione di maestro e pastore chiamato alla custodia della verità.

Il Papa non rinuncia alla propria identità e alla verità come avrebbero voluto i suoi avversari, ma, riaffermando l'una e l'altra, le mostra molto più comprensive, ragionevoli e umane delle posizioni di chi per non farlo parlare si è inventato una serie di menzogne.
Il ruolo dell'Università, la sua ragione fondativa, scrive Benedetto XVI nel suo discorso, consiste, dal tempo delle università medioevali, nella ricerca inesausta «sull'essere uomo nella sua totalità» e nel «compito di tener desta la sensibilità per la verità»; ma questo compito, lungi dall'essere estraneo all'essenza del cristianesimo, coincide esattamente con la natura del cristiano che riconosce «come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera». Il cristiano non ha queste caratteristiche per una sua particolare bontà, tolleranza o disponibilità personale al dialogo, ma per la natura della verità in cui crede.

Per chi ha impedito a Benedetto XVI di parlare, la verità o non esiste o è il prodotto di una serie di elaborazioni concettuali che finiscono col non avere nessun rapporto con la realtà: non andrà mai dimenticato, a questo proposito, che la vicenda della Sapienza è nata dalla falsificazione con la quale è stata attribuita al cardinal Ratzinger, come espressione del suo pensiero, la frase di un autore scettico e non credente.

Per Benedetto XVI, invece, la verità è un dono che l'uomo non si crea ma riceve e davanti al quale è responsabile. Così, se il prevalere della verità come creazione umana genera l'intolleranza alla quale abbiamo assistito, l'esperienza di una verità come dono genera la coscienza e l'imperativo di un lavoro comune, per usare ancora le parole del Papa, «in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta».

E sarebbe davvero un Papa intollerante e dogmatico questo vecchio professore di teologia che parlando in una università laica avrebbe detto a questo punto di non poter «offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino», e avrebbe aggiunto più avanti che molte cose dette dai teologi o fatte dalla autorità ecclesiali si sono poi rivelate false?

Il problema è tutto nella natura della verità di cui si parla. Questo è il secondo punto sul quale un certo pensiero contemporaneo resta spiazzato di fronte a Benedetto XVI: là dove si immaginavano l'enunciazione di dogmi astratti sui quali poter esercitare una serie infinita di discussioni altrettanto astratte, il Papa offre l'esperienza di «una tradizione responsabile e motivata». Così facendo ripropone in maniera del tutto normale l'essenza del cristianesimo, che non consiste principalmente in una dottrina ma è un avvenimento nel quale si è rivelata la via verso Dio, la via offerta all'uomo per la sua salvezza, o, se si crede, per il raggiungimento della verità. Questa via, ha detto il Papa, è «indicata secondo la fede cristiana da Gesù - e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via».
È proprio dal capire o meno la natura della verità come avvenimento e come esperienza di questo avvenimento che nasce la possibilità o meno dell'autentica capacità di ascolto e di cammino comune tra gli uomini. Mentre la verità come opinione o punto di vista porta necessariamente allo scontro e comunque alla necessità di far prevalere un punto di vista sull'altro, un'esperienza, per sua natura, esiste, è stata fatta e non può che essere comunicata, ascolta e riconosciuta; può non piacermi, ma, se voglio continuare a vivere nel mondo della realtà non posso fare finta che non ci sia o pretendere che non sia mai avvenuta. È una legge della vita: l'esperienza di un altro uomo non sarà mai interamente mia, ma verrei meno alla realtà e al desiderio di conoscere sempre più la realtà se la negassi o non la ascoltassi. È altro da me, ma non sarei veramente me stesso senza di lei.
Qualcosa di simile, ci suggerisce il Papa è il rapporto tra fede e ragione: le due non si possono confondere ma non possono essere separate: è il dogma della unità in Cristo dell'umano e del divino, dogma altissimo e misterioso, presentato con una semplicità disarmante come una legge della vita, o più precisamente come un'esperienza nella quale il riconoscimento di una verità trascendente, lungi dall'essere l'umiliazione dell'uomo, è stata ed è storicamente la spinta a una ricerca che non può mai pretendersi conclusa e anzi, proprio grazie all'infinita trascendenza di Dio ci spinge a una ricerca infinita.
Ed è la terza cosa che probabilmente non capisce chi non ha voluto Benedetto XVI alla Sapienza; sono scienziati che dovrebbero essere appassionati alla ricerca della verità, e non capiscono però che la vera possibilità della ricerca e del rapporto stesso con la verità nasce e si mantiene solo a due condizioni: la prima è che la verità non si confonda con quello che mi invento io, la seconda è che essa non venga espulsa nel mondo delle cose private e intime, e non sia così separata dalla vita reale. Il credente non ha lezioni da dare su questo punto, ma ha un'esperienza da condividere, che può diventare luce della ragione.

© Copyright L'Eco di Bergamo, 19 gennaio 2008

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