4 dicembre 2007

"Spe salvi", Natoli: "Credenti e no, alleati per il riscatto del presente"


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Credenti e no, alleati per il riscatto del presente

di Salvatore Natoli

Diversi anni fa proprio su Avvenire scrissi su quella speranza della quale si occupa la nuova enciclica di Benedetto XVI, avanzando l’idea che i cristiani in realtà non sperano, ma fondamentalmente credono. L’idea può sembrare paradossale ma è congruente con la paradossia cristiana, con il salto della fede che non è certo un salto nel buio, ma è pur sempre un salto. In ogni caso si può anche dire che i cristiani sperano, ma si tratta di un singolare modo di sperare: gli impossibilia Dei.

A Dio è possibile ciò che per gli uomini è impossibile: è in questo che i cristiani sperano. Per evitare equivoci bisogna allora intendersi su cosa vuol dire speranza. La speranza, come dice Esiodo, è l’ultima dea, è il fondo rimasto del vaso di Pandora: è un dono ambiguo degli dei, è l’ultima possibilità concessa agli uomini, ma può essere anche l’estremo inganno utile solo a far sopportare loro i mali senza immediatamente perire. Spinoza, come è nel suo stile, dà della speranza una definizione precisa: è incerta letizia.

Altrimenti detto, agli uomini è concesso immaginare che il futuro riservi loro una sorte migliore e magari una vita felice, ma non vi è nessuna garanzia perché questo accada. Per Spinoza la speranza è frutto dell’inadeguatezza della mente, dell’incapacità di fronteggiare il presente. E allora s’immagina. Tuttavia dando per buono che la speranza sia incerta letizia, bisogna ugualmente capire da dove scaturisce, come si produce. Scaturisce dalla vita medesima che vuole e cerca incondizionatamente se stessa. Questo si può ricavare dall’etimologia del termine stesso. In greco, infatti, speranza si dice elpis che con i verbi elpo, elpizo deriva dalla radice vel, che per ampliamento in p dà luogo alla parola latina voluptas, che significa piacere, ma soprattutto voglia.
Appunto voglia di vivere. In ciò si radica e da qui fiorisce l’umana capacità di sperare. L’amore per la vita è negli uomini forte, per dirla con il Cantico dei cantici, come la morte. Anzi di più. Se questo è vero si capisce in che senso i cristiani non sperano, ma più esattamente credono e si affidano. La speranza cristiana, infatti, come dice il Papa, non è espressione della semplice voglia di vivere, non è quel conatus che, pur nell’incertezza. permette agli uomini d’immaginare un futuro migliore. Al contrario il cristiano ha certezza circa l’avvento di un futuro definitivamente libero dal dolore e dalla morte e in cui agli uomini sarà resa giustizia per tutto il male patito.
E attende, il mondo futuro altro non è che il riscatto del dolore trascorso di tutta l’umanità, dell’intero passato. Questo è redenzione. La speranza cristiana è quindi una fiducia senza riserve, è eminentemente affidamento a Cristo; ci si fida di lui perché con la sua vita, morte e resurrezione ha dato una prova d’essere affidabile, a dato una prova d’amore usque ad mortem, che non tradisce. Per questo quel che è promesso accadrà e come dice Paolo: «Scio enim cui credidi et certus sum», "so in chi ho creduto e sono certo" (Tm 1, 12). Ora certo la fede non esclude il dubbio: ad ogni momento può essere insidiata specie quando ci si sente abbandonati da Dio.
Ma Gesù anche nell’estremo abbandono, nell’ultimo grido non ha cessato d’invocare: Eli, Eli. In breve per chi non crede il futuro è nelle sue sole mani, anche senza alcun delirio d’onnipotenza e nella perfetta consapevolezza della sua finitezza. Il cristiano al contrario (e papa Ratzinger bene lo precisa) non tende ad impossessarsi del futuro, ma attende il futuro di Dio che gli viene incontro. Ed è questo che attende. I progetti umani per quanto apprezzabili sono pur sempre labili e l’uomo non è affatto padrone del suo futuro, anzi: quando irromperà il tempo di Dio – la sua eternità – il tempo umano verrà definitivamente dissolto. Ma quando il Signore verrà bisogna essere preparati.
Ebbene, è proprio la perseveranza che accomuna credenti e non credenti anche se con diversa motivazione. Quel che, infatti, bisogna fare e mettere mano all’opera, instaurare nel mondo quell’ordo amoris che lo può rendere migliore. È nella fedeltà al presente che si prepara il futuro. Chi s’impegna in quest’impresa può anche non attendere alcun compimento. Chi crede opera in attesa di un compimento, di una vita sine termino o vita eterna.
E tuttavia sia chi crede che chi non crede sanno che nulla è mai acquisito, che si può sempre regredire e perciò è necessario vigilare. Il tempo è sempre di vigilia e il compito è infinito. E se un Dio darà compimento alle opere dell’uomo ne saranno di certo partecipi tutti coloro che hanno contribuito a rendere migliore il mondo. Anch’essi entreranno nel Regno. In ogni caso sia gli uni e gli altri possono operare insieme per consegnare alle generazioni future un mondo migliore di quando a loro tempo vi sono entrati. La speranza così intesa non è perciò pigra attesa, ma è lotta per eliminare il male, è azione decisa nel presente in vista del suo riscatto. Nel fare questo, nel qui ed ora dell’opera agli uomini è dato di godere di una felicità che non è necessario attendere.

© Copyright Avvenire, 2 dicembre 2007

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