4 dicembre 2007

"Spe salvi", lo storico Giovagnoli: "Il Papa chiede a i cristiani di non ripiegarsi su se stessi, ma di testimoniare a tutti la speranza evangelica"


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Con la “Spe salvi”, il Papa chiede a i cristiani di non ripiegarsi su se stessi, ma di testimoniare a tutti la speranza evangelica: la riflessione dello storico Agostino Giovagnoli

“Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita”. E’ uno dei passaggi forti della Spe salvi di Benedetto XVI. Un’Enciclica nella quale il Papa offre anche una disamina storica della trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno. Una scelta coraggiosa e controcorrente, come sottolinea lo storico dell’Università “Cattolica” di Milano, Agostino Giovagnoli, intervistato da Alessandro Gisotti:

R. – Oggi non viviamo in tempi in cui la speranza va di moda, se così posso dire. Anzi: è diffuso un senso di scetticismo, di rassegnazione, addirittura di rifiuto della stessa categoria della speranza intesa come sguardo rivolto al futuro e orientamento di ciò che facciamo, di ciò che viviamo verso un futuro più impegnativo, più bello, più esauriente. Dunque, rilanciare questo tema significa andare controcorrente e porre un problema molto importante per i cristiani, ma anche molto importante per la società in cui viviamo.

D. – Una parte della “Spe salvi” è dedicata alla natura della speranza cristiana, che non è mai individualistica ma è sempre “anche per gli altri”, dice Benedetto XVI. Il Papa esprime inoltre la necessità di un’autocritica da parte dei cristiani ...

R. – Benedetto XVI si rifà, tra l’altro anche in modo esplicito, ad una critica che ha preceduto il Concilio. La critica fatta appunto ai cristiani, di essersi ripiegati su una dimensione puramente individualista, quella appunto della salvezza della propria anima, intesa però come salvezza del singolo a prescindere dai problemi degli altri e da una solidarietà più ampia. Ecco: questa critica, in qualche modo, il Papa ci dice che è giusta, perché è vero che i cristiani si sono ripiegati su questa dimensione; per questo, parla di un’autocritica che certamente è sempre una parola forte, molto significativa. Il Papa inserisce questo ripiegamento, contro cui egli si schiera con tutta l’Enciclica, dentro un contesto più ampio che fa emergere come le responsabilità non siano solo dei cristiani. In questo senso, l’autocritica non è solo loro ma dev’essere anche più ampia, di una società europea che in epoca moderna e contemporanea ha spinto la fede – diciamo così – verso questo ripiegamento individualista.

D. – Si è detto: una Enciclica euro-centrica, però poi il Papa cita come testimoni della speranza una sudanese e due vietnamiti ...

R. – Certamente questi sono elementi di contraddizione rispetto a questo giudizio sbrigativo. Più che euro-centrica, direi, è una riflessione saldamente radicata nel pensiero europeo. Questo è indubbiamente vero: c’è questo forte riferimento al pensiero europeo e anche alle esperienze politiche europee, dalla Rivoluzione francese al comunismo. In questo senso è certamente un’Enciclica che porta l’impronta di un intellettuale europeo, che ha vissuto l’esperienza dell’Europa e in particolare quella dell’ultimo secolo. Ma, come lei faceva giustamente osservare, ci sono questi riferimenti extra-europei che sono particolarmente significativi perché la speranza cristiana, naturalmente, non è una speranza “continentale”: è per sua natura universale, “cattolica”.
Il Papa cita un bellissimo libro del padre de Lubac del 1937, che si intitola appunto: “Cattolicismo”, e che vuole, nel piccolo, richiamare la universalità della salvezza e, se vogliamo, il carattere comunitario della fede su cui appunto il Papa insiste molto nel suo testo.

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