24 gennaio 2008

IL BISOGNO DI SPERANZA, SECONDO BAGNASCO (Corradi per "Avvenire")


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IL BISOGNO DI SPERANZA, SECONDO BAGNASCO QUELLA

PERCEZIONE SOTTILE SUL NOSTRO PAESE

MARINA CORRADI

Un Paese sempre pià frammentato, ha detto il cardinale Bagnasco. È l’I­talia, ha aggiunto, ad avere bisogno og­gi di speranza. C’è in questa afferma­zione la percezione autentica del Paese. Basta prendere un treno, entrare in un locale per sentire da Milano al Sud la stessa amarezza di fondo: una genera­lizzata sfiducia verso la politica, un av­vilimento per le troppe cose che paiono condannate a non funzionare mai, un sottaciuto timore, in una simile Italia, ad avere fiducia nel futuro, magari an­che nel modo più naturale, mettendo al mondo un figlio. Ed è vero, certo, che la rappresentazione mediatica evidenzia sempre ciò che non funziona a scapito di quanto c’è di buono e non fa rumo­re. È vero anche che dentro la realtà quo­tidiana incontri un sacco di gente che fa con competenza e generosità il proprio lavoro. Tuttavia, è come se la somma di tante persone che fanno del loro meglio si sfaldasse quando dall’individualità si passa all’azione collettiva: è quella «co­mune incapacità di costruire un futuro comune partecipato» descritta dal Cen­sis ed evocata da Bagnasco.
Un’incapacità di pensare e raggiungere obiettivi collettivi, che si tratti di con­trastare la caduta demografica, o anche solo di tracciare una politica condivisa dello smaltimento dei rifiuti. Il massi­mo che viene realizzato si risolve per lo più in provvedimenti estemporanei e dettati dall’ emergenza. I pendolari viag­giano su treni fatiscenti, in certe regio­ni per un esame medico aspetti dei me­si, gli asili nido continuano a mancare, ma questi problemi paiono originati da un fato irremovibile. Soprattutto, sem­bra mancare il senso della prospettiva: l’inquinamento, la carenza di infra­strutture, la crisi della scuola senza mi­sure di lungo periodo non possono che peggiorare. Invece, ogni giorno pare si ri­cominci da capo: ordini, liti, contrordi­ni e retromarce, in un gran parlare che si esaurisce nell’arco di 48 ore. Pare che in Italia oggi l’idea del futuro imbaraz­zi. Quasi che ciò che accadrà dopo, ai nostri figli, sfumi nell’ombra di una pro­spettiva troppo incerta per ragionevol­mente occuparsene.
L’Italia ha bisogno di speranza. Siamo la settima potenza industriale del pianeta, ma siamo in crisi di speranza. E nem­meno tutto è riconducibile alla crisi del­la politica o della rappresentanza; più in profondità c’è una crisi interiore, di­cono i vescovi, che della crisi pubblica è causa e radice.
«Incapacità di costruire un futuro co­mune partecipato», dice il Censis. Basta girare per il centro storico delle città i­taliane per imbattersi in strutture urba­nistiche, palazzi, chiese che sono pro­digiosi esempi di una antica capacità di «costruire un futuro comune partecipa­to », anche in secoli di carestie e pesti­lenze. I costruttori delle nostre cattedrali iniziavano opere che nemmeno i figli dei loro figli avrebbero visto compiute. Come naturalmente certi di un futuro che attendeva il proprio popolo; come proiettati, nonostante le guerre quoti­diane, verso un destino certo.
Uno sguardo che nasceva dentro a un mondo cristiano: in quella fede «so­stanza della speranza» di cui parla Be­nedetto XVI nella Spe salvi; in una già posseduta certezza, che proiettava ope­rativamente verso la storia e i figli che sa­rebbero nati. Gente radicalmente di­versa da quegli Efesini prima di Cristo, «senza speranza e senza Dio nel mon­do », come scrive Paolo. Si chiede il Pa­pa nell’enciclica: «La fede cristiana è per noi oggi una speranza che sorregge la nostra vita?». È qualcosa che la plasma oppure solo una 'informazione' cui ci siamo assuefatti? La rassegnazione dif­fusa, l’incapacità di pensare il futuro pongono ai credenti questa domanda.
Come una spinta a dare, della nostra speranza, la ragione. A testimoniare, in un’Italia «sfilacciata», quella speranza cristiana, mai individualistica e privata, che Benedetto XVI chiama «più gran­de »; e che dà alle altre energia, e senso.

© Copyright Avvenire, 25 gennaio 2008

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