17 gennaio 2008

L’abilità di sparute minoranze: egemonizzare i ceti intellettuali (Diotallevi)


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L’abilità di sparute minoranze Egemonizzare i ceti intellettuali

LUCA DIOTALLEVI

Minimizzare la crisi della nostra comunità nazionale non è più un fatto di prudenza, ora è divenuta un’imprudenza. Da Napoli a Roma, non ce la facciamo più a mantenere lo spazio pubblico sgombero da immondizia e ideologia.

La situazione è tanto grave da far sì che la sanzione pubblica delle responsabi­lità politiche individuali, pur necessaria, non sia neppure la cosa più urgente. Ci sono piuttosto alcune cose che dobbia­mo dirci alla svelta. Tra queste c’è che laïcité e modernità non coincidono. La modernità è istanza di differenziazione, è istanza di relazione e di responsabilità fondate sulla distinzione tra diversi am­biti e codici sociali: ma la laïcité è una pessima risposta a questa istanza.

La laïcité non è distinzione né relazione, ma pretesa da parte della politica di e­gemonizzare lo spazio pubblico, perse­guendo il progetto di una sovranità as­soluta per cui 'pubblico' si riduce a 'statale'. Una sovranità che si esprime innanzitutto su ogni forma di legge e di diritto, tutto riducendo alla legge dello stato.
La laïcité non è distinzione né relazione, perché prima ancora che pretesa di ne­gare dignità pubblica al fenomeno reli­gioso, è pretesa di asservirlo ai propri scopi. Non si dimentichi che radici im­portanti della laïcité sono nell’eresia 'gallicana' e nelle politiche giacobine di sottomissione del clero al servizio dello stato. La laïcité è il culto fonda­mentalista di una ragione assoluta che vuole giungere ad imporre persino cre­denze e riti propri, è quella ' seculocracy' ostile al cristianesimo, al sapere critico ed alla democrazia libera­le. La laïcité non è distinzione né rela­zione, perché è negazione del passato e delle radici storiche: utopia pericolosa dell’autofondamento. Insomma, la laï­cité non è modernità, perché la moder­nità non è solo né innanzitutto giacobi­nismo.
La modernità è anche quella, teoretica­mente meno incoerente e ormai quan­titativamente prevalente, della religious freedom, è quella che vive nei regimi di libertà religiosa (come quelli anglosas­soni, certo, ma anche in contesti come quello italiano in cui la costituzione sancisce la pluralità degli ordinamenti). È la libertà delle società in cui 'pubbli­co' non è sinonimo di 'statale', dove lo spazio pubblico è variegato perché pubbliche sono politica e scienza, reli­gione, economia e famiglia; società in cui il reciproco limitarsi delle istituzioni nega ogni monopolio e desacralizza o­gni potere. Quella della libertà religiosa è la libertà di società in cui la legge ed il diritto non sono solo quelli dello stato, ma innanzitutto quelli delle persone ( common law).
In questi regimi, istituzioni religiose e politiche non si minacciano assoggetta­menti né si risparmiano critiche. Men­tre per la laïcité il 'muro di separazio­ne' tra religione e politica coincide con quello tra privato e pubblico, nei regimi di libertà religiosa quel muro corre at­traverso lo spazio pubblico, come il mu­ro che separa politica da economia.
Nella coscienza di queste società non è negata la memoria. La coscienza storica ricorda invece che le radici permanenti delle società aperte stanno anche nelle tradizioni ebraico-cristiane. La Chiesa cattolica, dal canto suo, ha dato voce col Concilio a questa responsabilità per la libertà religiosa, sancendo nella Di­gnitatis Humanae i principi insieme cri­stiani e moderni del 'non obbligare, non impedire' e della distinzione tra di­ritto e morale.

Non smettiamo di parlarci perché la gravità del momento non risiede nel fatto che la opinione pubblica italiana abbia dubbi sul valore della religione, anche pubblico. Il pericolo sta nella ca­pacità mostrata da sparute minoranze di egemonizzare i ceti intellettuali. Sarà un caso, ma ancora una volta la sconfit­ta della libertà accompagna la sconfitta della maggioranza.

© Copyright Avvenire, 17 gennaio 2008

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