2 gennaio 2008

L'arte al servizio della liturgia: "La forza seduttiva del Vangelo dipinto" (Timothy Verdon per "L'Osservatore Romano")


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L'arte al servizio della liturgia

La forza seduttiva del Vangelo dipinto

Nel volume La bellezza nella parola. L'arte a commento delle letture festive - Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, pagine 375, euro 43 - monsignor Timothy Verdon offre un commento nuovo e originale all'anno liturgico cogliendo lo specifico delle singole feste e spiegandole con opere d'arte tratte dal ricco patrimonio iconografico cristiano. Pubblichiamo l'introduzione e il capitolo dedicato alla solennità di Maria Santissima Madre di Dio.

Timothy Verdon

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel capitolo dedicato a "La celebrazione sacramentale del mistero pasquale", ricorda che le immagini cristiane "proclamano lo stesso messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola, e aiutano a risvegliare e a nutrire la fede dei credenti" - asserto, questo, ulteriormente sottolineato nell'introduzione a firma di Benedetto XVI, dove si afferma semplicemente che "anche l'immagine è predicazione evangelica" e che "gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza". Il Papa nota che questo ricco patrimonio storico deve fare capire "come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico".
La Sacramentum caritatis sviluppa poi queste idee, nella seconda delle sue tre parti, "Eucaristia, mistero da celebrare", al capitolo "Ars celebrandi", nel paragrafo intitolato "Arte al servizio della celebrazione", dove - dopo aver esplicitato il carattere artistico dei segni e riti della Chiesa - si afferma che il "legame profondo tra la bellezza e la liturgia deve farci considerare con attenzione tutte le espressioni artistiche poste al servizio della celebrazione", a partire dall'architettura, dai paramenti e dai vasi sacri. Lo stesso paragrafo insiste sul rapporto tra iconografia religiosa e mistagogia sacramentale, e più avanti un altro paragrafo, dedicato esplicitamente alla catechesi mistagogica, sottolinea l'urgente bisogno "in un'epoca fortemente tecnicizzata come l'attuale, in cui si rischia di perdere la capacità percettiva in relazione (...) ai simboli", di "risvegliare ed educare la sensibilità dei fedeli per il linguaggio dei segni e dei gesti che, uniti alla parola, costituiscono il rito".
Il primo obiettivo del presente commento al lezionario attraverso immagini è pertanto quello di "risvegliare ed educare la sensibilità" dei lettori chierici e laici - mediante un processo di alfabetizzazione visiva - a collegare le verità evangeliche ascoltate e credute nel contesto della celebrazione con i segni sacramentali ad essa propri, e poi con la vita quotidiana in cui una fruttuosa partecipazione ai sacramenti si manifesta. Non di rado infatti le immagini "incarnano" le parole scritturali con forme atte sia a svelare il senso dei riti che a suggerirne l'applicazione esistenziale.

In particolare l'arte sacra europea, d'indole narrativa oltre che simbolica, aiuta a riscoprire l'unitarietà dell'esperienza della fede.
Il tipo di rapporto che il nostro commento mira a ricreare non è nuovo: sin dai primi secoli della loro storia i cristiani hanno fatto cospicuo uso d'immagini, soprattutto nei luoghi di culto. Pur essendo, con l'ebraismo e l'islam, una "religione del libro", il cristianesimo ha assegnato alle immagini un ruolo che va oltre la mera illustrazione dei testi sacri: un ruolo riconosciuto da Giovanni Paolo II nel 1999 con la straordinaria ammissione che "per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell'arte".
Già un altro Papa del Novecento, Paolo VI, aveva spiegato questo "bisogno" quando, rivolgendosi ad artisti, scrittori e musicisti nel 1965, affermò che "da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi; voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l'avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile".
Tale attribuzione d'importanza alle immagini è infatti un elemento costitutivo del cristianesimo. Un documento base della fede, il Vangelo secondo Giovanni, ne indica la ragione teologica, collegando l'umano senso della vista con il piano di salvezza rivelato in Cristo. Caratterizzando il Salvatore in termini allusivi agli antichi testi sacri, Giovanni dice che "in principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Giovanni, 1, 1). Poi aggiunge che questo Verbo - Cristo stesso - "si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e verità" (Giovanni, 1, 14). Nello stesso spirito, un altro testo attribuito a questo evangelista dice che in Cristo la vita eterna "si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza" (1 Giovanni, 1, 1-2), e una lettera paolina chiama Cristo semplicemente l'"immagine - nell'originale greco eikòn, icona - del Dio invisibile" (Colossesi, 1, 15).
Queste citazioni suggeriscono il rapporto particolarissimo di Cristo, il Verbo fattosi uomo per essere "immagine" dell'invisibile Dio, con le immagini umane - pitture, sculture, miniature, vetrate, avori, oreficerie - che parlano di Dio. Si tratta di un rapporto unico nella storia delle religioni, perché laddove in altri sistemi di fede l'arte illustra contenuti il cui baricentro rimane altrove, nel cristianesimo l'arte conduce, per la sua stessa natura, al cuore della cosa creduta: al paradosso cioè di un Dio spirituale che ha voluto esprimersi in forma materiale. "Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico", ricorda il più strenuo difensore delle immagini cristiane, san Giovanni Damasceno, evocando il divieto biblico ad ogni raffigurazione della Divinità. "Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini - continua il Damasceno - così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio". Scrivendo nel 730, nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone III, questo autore - nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano - riafferma il nesso tra l'incarnazione del Verbo e l'uso delle immagini. Nella stessa scia, Benedetto XVI afferma nel Compendio che, anche laddove il soggetto raffigurato non sia letteralmente il Signore, tutte le immagini cristiane "significano Cristo, che in loro è glorificato".
Ecco perché nella storia della Chiesa la committenza d'opere d'arte e d'architettura ha costituito un progetto consapevole a cui sono state dedicate risorse ingenti. La comunità credente ha assunto quest'impegno perché, attraverso l'arte in tutte le sue forme, essa riesce a "trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile", come diceva Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti; l'arte infatti è tra gli strumenti didattici più antichi che la Chiesa conosca, e non solo nel senso di una Biblia pauperum o "Bibbia illustrata per analfabeti". Attraverso i secoli, l'arte è stata associata all'insegnamento della fede perché essa in qualche modo ricrea l'esperienza dei primi seguaci di Gesù.
Così, in un testo del 1979, Catechesi tradendae, Giovanni Paolo II - situando gli inizi dell'insegnamento cristiano nella persona e nell'opera di Cristo - ricordava subito la tradizione artistica: "Questa immagine del Cristo docente, maestosa insieme e familiare, impressionante e rassicurante, immagine disegnata dalla penna degli evangelisti e spesso evocata in seguito dall'iconografia sin dall'età paleocristiana - tanto è seducente - amo evocarla a mia volta, all'inizio di queste considerazioni intorno alla catechesi nel mondo contemporaneo".
Di fondamentale importanza è il passaggio concettuale tracciato qui, da un'immagine letteraria - "disegnata dagli evangelisti" - ad un'immagine pittorica. In effetti, lo stile del vangelo cristiano "dipinge" personaggi ed eventi con tale chiarezza da predisporne la traduzione in immagini, e questo per un motivo che la Catechesi tradendae esplicita con un linguaggio assai diretto: "La maestà del Cristo docente - afferma - la coerenza e la forza uniche del suo insegnamento, si spiegano soltanto perché le sue parole, le sue parabole e i suoi ragionamenti non sono mai separabili dalla sua vita e dal suo stesso essere". Il Verbo si fa carne cioè ma rimane tuttavia Verbo, assoluta e definitiva espressione della vita divina, così che le sue parole, i suoi gesti e perfino le immagini scaturite dalle sue parole e dai suoi gesti hanno coerenza e forza sovrumane. Tali immagini sono poi "seducenti" perché - in analogia con Cristo stesso, che attraverso il velo della sua umanità rivelava il Padre - parlano all'uomo di una vocazione celeste.
Parlano. Ma in verità pittura, scultura ed architettura non parlano: esse fanno vedere, fanno toccare, fanno entrare fisicamente nell'ambito del sacro. L'arte della Chiesa invita a conoscere in modo sperimentale il Dio che in Cristo ha voluto essere - appunto - visto, toccato, inabitato, come dice la Prima Lettera di Giovanni: "Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato, e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita: poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" (1, 1-2).
Il Verbo della vita che si fa visibile - che si fa immagine - è il soggetto di una celebre miniatura del nono secolo, la prima delle illustrazioni di un'antologia poetica composta dal monaco Rabano Mauro e dedicata al figlio di Carlomagno, l'imperatore Lodovico il Pio, in onore della croce di Cristo: De laudibus sanctae crucis. L'immagine mostra il corpo di Gesù crocifisso sovrapposto alle parole di un testo - o, meglio, il corpo sembra plasmato da esse, come se contemplassimo l'atto stesso dell'incarnazione, il Verbo mentre diventa carne umana. Del resto non si tratta del casuale abbinamento di un'immagine a delle parole, ma di un carmen figuratum in cui il posizionamento di ogni lettera del testo è calcolato in modo che le lettere evidenziate dal disegno sovrapposto, compongano parole e frasi che spiegano il disegno stesso. In un carmen figuratum, l'immagine non ha pieno senso senza le parole che la costituiscono, né le parole senza l'immagine che dà loro specificità - che cioè le "incarna"!
L'antologia di Rabano Mauro ha carattere assai personale e include addirittura un ritratto dell'autore, visto in ginocchio davanti a una croce; in quell'immagine, ideata sempre come carmen figuratum, i contorni del corpo dell'artista racchiudono le parole di una preghiera: "Rabanum Memet Clemens Rogo Christe Tuere O Pie Iudicio" (Ti chiedo, Cristo misericordioso, di trattare me, Rabano, con clemenza nel giudizio). L'immagine proposta è invece più teologica, facendo vedere "il Verbo della vita" in un corpo che muore - come se l'ascetismo dell'esperienza monastica avesse condotto Rabano Mauro a pensare l'incarnazione soprattutto in rapporto alla croce. Già quattro secoli prima, san Leone Magno aveva affermato in effetti che "l'unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione. Nel grembo della Vergine egli assunse una carne mortale, e in quella carne mortale ha compiuto la sua passione".
Questa frase di Leone Magno suggerisce un altro aspetto della questione: il problema delle dicotomie inerenti l'annuncio cristiano, la cui risoluzione verbale rasenta il paradosso ma che, tradotte in immagini, diventano facilmente afferrabili. Ad esempio, il legame mistico tra la nascita del Salvatore e la sua morte, accennato dal padre della Chiesa, emerge con naturalezza in uno degli affreschi della basilica di San Francesco ad Assisi, "Natale a Greccio", che qui riproduciamo.

L'artista ambienta l'eloquente gesto del Poverello ai piedi di un altare dietro un tramezzo sormontato da una croce, così che vediamo il corpicciuolo del bimbo in rapporto sia al sacrificio eucaristico (col sacerdote parato all'altare), sia all'evento storico di cui l'eucaristia è memoriale, la morte di Cristo sul Golgotha. L'ambone sul tramezzo, a sinistra, allude visivamente alla previa proclamazione del vangelo in questo contesto connotato da immagini: l'annuncio della natività avviene accanto alla croce che vediamo da tergo ma che, sul davanti, reca l'effigie del Crocifisso.

Un analogo invito ad immaginare l'impatto della liturgia in un contesto connotato da un'immagine è offerto da una pala d'altare cinquecentesca raffigurante un gruppo di laici che stanno per ricevere la comunione, con, sull'altare alle loro spalle, un'altra pala che raffigura il corpo di Cristo deposto tra le braccia della madre alla presenza di alcuni amici. È come se il pittore, Girolamo Romanino, ci dicesse che gli uomini e le donne raffigurati in abiti contemporanei nel suo quadro - i quali hanno davanti a loro l'immagine del corpo offerto da Cristo sul Calvario - capiscono bene il valore delle Scritture proclamate e del sacramento che stanno per ricevere grazie anche al dipinto sull'altare!
L'arte cristiana offre essenziali chiavi interpretative ai testi sacri come ai riti perché nasce al servizio della cultura liturgica che essi insieme configurano. L'arte si pone, cioè, come sfondo visivo delle azioni sacramentali ed evocazione iconografica delle letture, così che il senso di molte opere oggi esposte sulle pareti di musei rimane incomprensibile se queste non vengono riportate (almeno idealmente) alla loro originaria funzione liturgica e catechetica.
Gli stessi soggetti dell'arte sacra poi - i temi più comunemente trattati - si sono definiti nei secoli in rapporto alle festività liturgiche e relative letture: basti pensare ai due principali filoni iconografici - quello allusivo al concepimento, nascita ed infanzia del Salvatore e quello che narra la sua passione, morte e glorificazione - sviluppatisi nei secoli alla luce dei tempi maggiori del calendario cristiano, Avvento-Natale e Quaresima-Pasqua.
In questa prospettiva, il mio commento alle letture dell'anno liturgico attraverso la tradizione iconografica vuol essere una restituzione a due sensi, che riconduce le immagini all'atemporale tessuto biblico per cui esse sono nate, e riveste i testi biblici della bellezza che i cristiani hanno loro attribuito d'età in età. Tra le ambizioni della presente opera, vi è infatti quella di riscoprire gli stili d'ascolto e d'applicazione pratica di coloro che ci hanno preceduto, meditando con l'ausilio delle opere scaturite dalla loro fede i testi che ancor oggi plasmano l'identità - il cuore nuovo - della Chiesa.

***
Sarà utile alla fine di quest'introduzione ricordare alcuni passaggi nell'evoluzione storica del lezionario. L'idea di un ciclo più o meno ampio di letture continue tratte da varie parti della Bibbia, da ripetersi ogni anno o (secondo una tradizione alternativa) ogni tre anni, sembra essersi sviluppata nell'ebraismo sinagogale a partire dall'esilio babilonese. Tale uso fu poi assunto dalla Chiesa, dove già nel terzo e nel quarto secolo l'elaborazione dell'annuale ciclo delle grandi feste prevedeva la proclamazione, nei distinti periodi dell'anno, di determinate sezioni della Scrittura: Genesi in Quaresima, Giobbe e Giovanni nella settimana della passione, Atti e Apocalisse tra Pasqua e Pentecoste. Non c'era uniformità né nella scelta delle letture né nel loro numero: in qualche parte dell'ecumene cristiano le comunità ascoltavano tre letture, di cui una dall'Antico Testamento, una dagli scritti apostolici e una dal vangelo; altrove fino a cinque, con letture dalla Torah, dai profeti, dalle lettere paoline, dagli Atti e dal vangelo stesso; non c'erano ancora appositi compendi: si leggeva direttamente dalla Bibbia.
Nel VI secolo apparvero i comites, raccolte di letture organizzate secondo il calendario liturgico e spesso distinti - secondo i diversi momenti e ministri proclamanti - in "epistolari", "graduali" ed "evangeliari". Il Medioevo attingerà da questo sistema la selezione di letture incluse nel volume unitario del messale a servizio del sacerdote, sempre più l'unico ministro attivo nella celebrazione. Il moltiplicarsi di feste dei santi e di messe votive con letture particolari, gradualmente oscurò la logica didattica dell'originario ciclo domenicale, e molto presto scomparirono le letture veterotestamentarie.
Contro questo processo d'erosione, nel 1570 Pio V promulgò il Missale Romanum , destinato a rimanere (sebbene con edizioni diverse) la forma fissa sia del rito che del lezionario fino al Concilio Vaticano II; il Missale Romanum prevedeva un solo ciclo annuale di due letture per domenica e solennità (eccetto la veglia pasquale): la prima lettura era quasi sempre tratta dalle lettere apostoliche, mentre il vangelo era normalmente tratto dai testi di Matteo e Luca.
Ma drammatici sviluppi negli studi biblici tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, insieme al movimento liturgico cattolico e al rinnovato interesse per la catechesi resero chiara l'urgente necessità di sciogliere tale congelamento controriformistico della tradizione medievale. Così, tornando alla prassi dei primi secoli, il Concilio Vaticano II sin dall'inizio si propose di riformare il lezionario del Missale Romanum, arricchendo la liturgia della parola domenicale di letture veterotestamentarie legate al brano evangelico del giorno, e aumentando il numero delle letture neotestamentarie. Per rendere possibile tale allargamento e favorirne l'approfondimento, il ciclo delle letture è stato diviso in tre anni distinti, ognuno caratterizzato dalla proclamazione di uno dei vangeli sinottici. Nell'anno a cui il presente volume è dedicato (il primo del ciclo triennale o A) viene letto il Vangelo secondo Matteo, già saltuariamente presente nei tempi dell'Avvento, Natale, Quaresima e Pasqua ma che nel tempo ordinario ha una presentazione semicontinua che ne permette l'analisi contenutistica e storica.

(©L'Osservatore Romano - 31 dicembre 2007 - 1 gennaio 2008)

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