2 gennaio 2008

"Spe salvi", il filosofo Fabris: "Il Giudizio è speranza"


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Il Giudizio è speranza

I "luoghi" della "Spe salvi": per il filosofo Fabris «la responsabilità è di nuovo al centro della riflessione morale»

di Francesco Lalli

Il Giudizio costituisce l’ultimo dei luoghi di esercizio e di apprendimento della speranza sui cui è incentrata la parte conclusiva dell’enciclica Spe salvi. Su questo tema, che riserva alcune delle riflessioni più significative del testo di Benedetto XVI, abbiamo interpellato il professore Adriano Fabris, docente di Filosofia morale presso l’Università di Pisa, dove insegna anche Filosofia delle religioni.

Al Giudizio finale è dedicata una parte importante dell’enciclica. «Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia - scrive il Papa - è un mondo senza speranza…Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere non continui a spadroneggiare nel mondo». Un «ethos» condiviso e non relativizzato può costituire un deterrente alle tante illusioni di giustizia della storia?

Posso cercare di rispondere alla sua domanda in base alle mie competenze, che sono quelle di uno studioso di cose filosofiche e non certo di un teologo. D’altra parte, però, il tema della giustizia, centrale nell’ultima parte dell’enciclica, è svolto proprio in un serrato confronto con alcune posizioni filosofiche, che vengono esplicitamente menzionate. Il punto decisivo sottolineato da Benedetto XVI è proprio quello in cui la speranza cristiana diviene attesa universale che la giustizia sia stabilita e garantita di fronte alle ingiustizie della storia. Ma questa garanzia non può essere data dalla storia stessa, né è l’uomo, da solo, a poterla offrire. L’essere umano è bensì responsabile dei suoi atti. Ma, come viene affermato: «La pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa ed è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera». Secoli di storia - quella sofferenza del tempo di cui parla il Papa - sono in grado di attestarlo.

Benedetto XVI sembra ribaltare quello che è un concetto o, meglio, un’impressione piuttosto diffusa: quella di un Giudizio finale come momento terribile. In realtà, egli osserva, «l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola» fa sì che divenga «pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita». Di conseguenza, egli dice, l’immagine del Giudizio è «un’immagine di speranza; per noi forse l’immagine decisiva della speranza». Siamo dunque figli di un’iconografia sbagliata del Giudizio e di una sua lettura riduttiva?

La stessa enciclica ci ricorda che nelle antiche chiese e in altri luoghi sacri - penso ad esempio al Camposanto di Pisa - diventò abituale rappresentare sul lato rivolto ad Oriente l’iconografia della speranza - il Signore che ritorna nella gloria - e sul lato ad Occidente il Giudizio finale, con la punizione dei malvagi. È ovvio che quest’ultimo aspetto affascinava maggiormente gli artisti e colpiva di più l’immaginazione popolare. D’altra parte, come dice l’enciclica, non si può separare l’evento del Giudizio da quello dell’esercizio e dell’apprendimento della speranza: infatti, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo il prevalere dell’amore [di Dio] su tutto il male nel mondo e in noi».

«Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo…non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro né è mai inutile». Insomma il Papa ci ricorda che la nostra vita s’intreccia talmente da creare un legame che sfida l’esistenza terrena. Eppure la convinzione che ogni uomo è un’isola sembra una cifra caratteristica della modernità.

È vero. Cominciamo, però, anche a renderci conto, sulla nostra pelle, dei limiti di questa concezione. In realtà siamo esseri in relazione. Principio del nostro comportamento, in questa vita, è quello di salvaguardare e promuovere la nostra capacità di mettersi in rapporto con ciò che è altro da noi: vale a dire la capacità di generare, in una sorta di ciclo virtuoso, relazioni feconde di altre relazioni. Al di là della nostra vita, quest’inclinazione si prolunga anche verso coloro che non ci sono più. Esiste infatti una sorta di «comunione» fra gli uomini che va oltre la morte: nella misura in cui ciò che io sono dipende da quello che altri sono stati; nella misura in cui, nel futuro, la speranza è anche e anzitutto speranza per gli altri.

L’immagine del Giudizio finale, rileva altrove Benedetto XVI, chiama in causa la responsabilità personale. Come è mutato questo concetto nell’orizzonte dei valori che caratterizzano la nostra società?

Oggi il concetto di responsabilità è tornato al centro della riflessione morale. «Responsabilità» deriva da «rispondere», se si risponde «di» (delle conseguenze delle mie azioni) oppure «a» (a quei principi che mi orientano nel mio agire). Non basta dunque pensare l’agire in una prospettiva causale, come sono indotte a fare le scienze, ma l’azione è già da sempre motivata e orientata da criteri che sono preliminarmente accolti, e da cui, in un certo senso, ciascuno si sente interpellato. Oggi, poi, si è imposto un altro dato di fatto: sperimentiamo di essere impotenti nel controllare molti dei processi nei quali ci troviamo inseriti nella nostra vita quotidiana. Ciò non comporta, tuttavia, uno sgravio di responsabilità. Anzi: ci troviamo ad essere responsabilizzati anche di fronte a quelle situazioni che non siamo noi ad originare, ma al cui sviluppo, comunque, finiamo per contribuire. È un’esigenza di giustizia, di nuovo, ciò che c’induce ad assumere quest’onere anche rispetto a ciò di cui, direttamente, non siamo responsabili.

© Copyright RomaSette, 2 gennaio 2008

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