6 agosto 2008

Il «Credo» di Paolo VI, un dono da riscoprire: la professione di fede «dimenticata»: una bussola nelle «inquietudini» postconciliari (Inos Biffi)


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Il «Credo» di Paolo VI, un dono da riscoprire

La professione di fede «dimenticata»: una bussola nelle «inquietudini» postconciliari

DI INOS BIFFI*

Il Credo del Popolo di Dio: un documento di grande autorevolezza e di prezioso conte­nuto per la fede cattolica, e pure largamen­te rimosso e dimenticato.
Paolo VI ne fece la so­lenne professione il 30 giugno 1968, a conclu­sione dell’anno della fede, indetto nella memo­ria del martirio dei santi Pietro e Paolo, «per at­testare – egli affermava – il nostro incrollabile proposito di 'fedeltà al deposito della fede'».
Oggi si conosce bene la storia di quella profes­sione, che trova la sua origine in Jacques Mari­tain e Charles Journet, ossia un filosofo e un teo­logo tra i maggiori del loro tempo e tra i meno ascoltati.
Maritain, definendosi «un vecchio laico» che «si interroga sul tempo presente», aveva da poco pubblicato Le paysan de la Garonne, con l’eser­go: «Non prendete mai troppo sul serio la stu­pidità ». Con estrema lucidità e libertà di giudi­zio, il celebre pensatore, divenuto piccolo fratello di Gesù, lanciava l’allarme nella «generale spen­sieratezza » (cardinale Giacomo Biffi), metten­dovi in luce i drammatici deviamenti del post­concilio, che giungevano a toccare il cuore stes­so delle fede. Quanto a Journet, creato cardinale da Paolo VI, era un grande e silenzioso studioso di teologia, autore, tra l’altro, de L’Église du Verbe incarné, che i teologi del Concilio avevano trascurato e su­perficialmente liquidato come scarsamente bi­blico, troppo speculativo e troppo scolastico, mentre era quanto di più ampio e profondo la riflessione teologica avesse prodotto in eccle­siologia.
Fu proprio Journet a comunicare al Papa la sug­gestione di Maritain di una «professione di fe­de completa e dettagliata» per quel tempo di «crisi tremenda», come la chiama lo stesso Ma­ritain, che la Chiesa stava attraversando e ri­spetto alla quale il modernismo dell’inizio secolo XX diventava un banale raffreddore da fieno.
Del resto Paolo VI ne era dolorosamente im­pressionato. Il cardinale Giovanni Colombo ri­corda la sua amara costatazione: «Aspettavamo una primavera, è giunta una bufera»; in parti­colare, in una udienza del mercoledì, nel mag­gio 1967, aveva affermato: «Non crediate di avere la fede se voi non aderite al Credo, al simbolo del­la fede, cioè alla sintesi schematica delle verità di fede», per cui non sorprende che egli abbia accolto la proposta di Maritain, fruendo larga­mente del testo scritto da lui preparato. Nel 1972 avrebbe parlato di «fumo di Satana» da qualche parte «entrato nel tempio di Dio».
Tale preoccupazione è ricordata espressa­mente da Paolo VI proprio a introduzio­ne del Credo. «Noi siamo coscienti – egli dice – dell’inquietudine, che agita alcuni am­bienti moderni in relazione alla fede. Vediamo dei cattolici che si lasciano prendere da una spe­cie di passione per i cambiamenti e le novità». E aggiunge: «Pur nell’adempimento dell’indi­spensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegna­menti della dottrina cristiana. Perché ciò vor­rebbe dire – come purtroppo oggi spesso avvie­ne – ingenerare turbamento e perplessità in mol­te anime fedeli»: sono esattamente le «anime fedeli» che Paolo VI ha a cuore. Esse «attendo­no la parola del vicario di Cristo», ed è come vi­cario di Cristo e «pastore della Chiesa universa­le » che, imitando la confessione di Pietro, egli in­tende elevare «la sua voce per rendere, in nome di tutto il Popolo di Dio, una ferma testimo­nianza alla verità divina, affidata alla Chiesa». E ribadisce che la professione di fede, «sufficien­temente completa ed esplicita» da lui pronun­ziata, mira a «rispondere in maniera appropriata al bisogno di luce, sentito da così gran numero di anime fedeli».
Il Papa, però, non si limita a constatare una de­riva, ma ne illustra acutamente la causa in un passo lucidissimo del suo discorso, là dove ri­corda che «al di là del dato osservabile, scienti­ficamente verificato, l’intelligenza dataci da Dio raggiunge la realtà (ciò che è) e non soltanto l’e­spressione soggettiva delle strutture dell’evolu­zione della coscienza», e che il compito dell’er­meneutica è quello di comprendere il significa­to di un testo e non quello di ricrearlo, «secon­do l’estro di ipotesi arbitrarie». Di fatto, incominciava a elaborarsi una «teolo­gia » sulla base di una diffidenza nei confronti dell’intelletto per riconoscere, invece, il prima­to del «desiderio», come viene chiamato, e quin­di di un soggettivismo da cui ogni oggettività veritativa della Rivelazione e delle definizioni dogmatiche risulta fatalmente compromessa.
Il Credo del Popolo di Dio si presenta, così, come un preciso atto di magistero del suc­cessore di Pietro, al quale incombe il dovere di confermare, secondo il mandato di Gesù, «i fratelli nella fede». Certo, spiega il Papa, non si tratta di «una definizione dogmatica propria­mente detta», ma, pur «con qualche sviluppo, ri­chiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo», di una sostanziale ripresa del Credo di Nicea, «il Credo dell’immortale tradizione del­la santa Chiesa di Dio». Ma era l’epoca in cui questa splendida affermazione, col suo richia­mo alla «immortale tradizione» e alla «santa» Chiesa di Dio, stava perdendo senso e attratti­va.
E di fatto quella professione di fede tanto auto­revole e vigorosa si trovò rimossa e disattesa. «Si trattava – scrive il cardinale Giacomo Biffi nelle sue Memorie – di un’importante silloge di tutte le verità che un cattolico deve credere», ma «la generalità dei teologi e dei pastoralisti – ai qua­li essa era evidentemente destinata in modo speciale – non le ha poi riservato molta atten­zione e non l’ha degnata della considerazione che meritava».
Anzi, da taluni venne espressamente contesta­ta come «archeologica», come un «sillabo» vec­chio, intellettualistico e privo di animazione bi­blica e conciliare; mentre, appunto, non pochi teologi coltivati la trascurarono totalmente: con­vinti che la teologia incominciasse con loro – «senza padre, senza madre, e senza genealogia», come Melchisedec –, erano infatti impegnati a ricreare la sacra dottrina, prendendo le distan­ze da quella del passato; quanto agli specialisti della lettura dei «segni dei tempi», erano trop­po occupati, come profeti di «bonaventura», a esaltarli e a proclamarli indici di tempi felici, che in realtà felici non erano.
Eppure, se quel Credo del Popolo di Dio fosse stato oggetto di piani pastorali, di cattedre dei credenti, di studi e di insegnamenti teologici, che ne avessero messo in luce non solo l’orto­dossia, ma la bellezza o la gloria dei suoi ampi articoli, coi loro dogmi, il Popolo di Dio, tanto chiassosamente chiacchierato, ne avrebbe ri­cevuto edificazione e rasserenamento. Non po­ca teologia, invece, proseguì imperterrita su al­tre strade, mentre la pastorale si distrasse per lo più su altri periferici interessi, e il risultato fu, se­condo le parole di Paolo VI, un Popolo di Dio se­gnato dal turbamento e dalla perplessità.
Sarebbe del più vivo interesse esaminare in modo particolareggiato i singoli passi di quel Credo: quello sulla Trinità, dove ricor­re il linguaggio rigoroso e luminoso dei primi Concili, che dedicarono e mirabilmente trasfi­gurarono pensiero e linguaggio, a servizio di u­na ortodossa «intelligenza» del mistero fonda­mentale; su Gesù Cristo, Verbo incarnato e re­dentore, vero uomo e vero Dio; su Maria, sem­pre vergine e immacolata; sul peccato origina­le, trasmesso alla natura umana ed ereditato da ogni uomo, secondo la dottrina del Concilio tri­dentino; sul battesimo, compreso quello dei bambini, segnati dalla stessa colpa d’origine e come tutti bisognosi di rinascita alla vita in Cri­sto; sulla Chiesa, «una, santa, cattolica e apo­stolica », Corpo mistico di Cristo, germe e pri­mizia del regno di Dio, «santa pur compren­dendo nel suo seno dei peccatori», e «necessa­ria alla salvezza»; sulla Messa, «sacrificio del Cal­vario reso sacramentalmente presente»; sulla misteriosa conversione eucaristica, «chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, tran­sustanziazione», per cui «il pane e il vino han cessato di esistere, dopo la consacrazione», per «essere il corpo e il sangue adorabili del Signo­re Gesù». Sono solo alcuni punti di quel Credo del Popolo di Dio, che proprio una improvvida teologia, se pure la si può definire tale, venne invece via via contestando, e compiacendosi di parlare di «Chiesa peccatrice» e pluriforme, di peccato o­riginale come imitazione adulta del peccato di Adamo, non senza negare l’Eucaristia come sa­crificio, o gettare ombre sulla perpetua verginità della Madre di Dio, o rifiutare la mutazione eu­caristica come «transustanziazione», ritenuta un concetto filosofico ormai superato. Il colmo fu raggiunto con l’annebbiamento della certez­za su Gesù Cristo, unico e universale salvatore, in favore di vie salvifiche parallele e in apertura al dialogo religioso e a superficiali ecumenismi. Che questa non sia una ricostruzione arbitraria, e che la questione seria sia quella dell’ortodos­sia, lo stanno a indicare sia gli avvertimenti pon­tifici degli anni successivi al Vaticano II, sia i va­ri interventi della Congregazione per la dottri­na della fede, tra cui la Dichiarazione Dominus Iesus, volta a richiamare il fondamento stesso del cristianesimo, cioè l’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa.
Possiamo concludere sull’imperdonabile atteg­giamento tenuto nella Chiesa nei confronti del Credo del Popolo di Dio, rivelatore della prima preoccupazione e cura di Paolo VI, che a Jean Guitton nel 1977 confidava: «C’è un grande tur­bamento in questo momento nel mondo e nel­la Chiesa, e ciò che è in questione è la fede». E­ra vero trent’anni fa, ma non è meno vero oggi: in questione è la fede cattolica, la stessa che pre­meva a Paolo VI, così grande e così incompre­so.

* ordinario emerito di teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano; incaricato di storia della teologia presso la Facoltà teologica di Lugano

© Copyright Avvenire, 6 agosto 2008

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