6 agosto 2008
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A trent'anni dalla morte di Paolo VI
Testimone di Cristo nell'amore al nostro tempo
Era la sera della Trasfigurazione di trent'anni fa, il 6 agosto 1978, quando nella calura e nella solitudine di Castel Gandolfo quietamente si spegneva, quasi ottantunenne, Paolo VI.
Da tempo Papa Montini era sofferente, ma la morte - alla quale veniva preparandosi ormai da anni - sopraggiunse come desiderava, quasi improvvisa, senza cioè che una lunga malattia impedisse o rallentasse il carico quotidiano e irrinunciabile del suo servizio alla Chiesa e al mondo. Così, per un momento, nella distrazione dell'estate, ci si accorse di quell'uomo fragile e anziano, ma animato da una forza interiore che traspariva dagli occhi grigi e dallo sguardo intenso che colpiva come la sua voce, fattasi con gli anni più roca e talora drammatica.
Si concludeva così un pontificato difficile ma decisivo. Per la vita della Chiesa e per la sua presenza nel mondo di oggi. Come ha voluto ricordare Benedetto XVI, affermando - con parole brevi, ma tanto più impressionanti quanto più Papa Ratzinger rifugge dalle espressioni enfatiche - che "appare sempre più grande, direi quasi sovrumano, il merito di Paolo VI" nel guidare il Vaticano II e la Chiesa nella "movimentata fase" successiva.
Grandezza e merito che gli vennero subito riconosciuti dai suoi due immediati successori (anch'essi, come l'attuale, cardinali da lui creati), che ne ripresero il nome insieme a quello del predecessore, a sottolineare una continuità evidente nei fatti, ma messa in dubbio già a metà degli anni Sessanta, e poi ricorrente nell'esercizio strumentale, giornalistico e storiografico, che non si limita a enucleare diversità ovvie ma contrappone i Papi l'uno con l'altro.
Evidenza e strumentalità già avvertite da Montini e annotate in un appunto di quel tempo dove rivendicava "fedeltà sostanziale alla linea" del predecessore e osservava che "è far torto, e torto grave alla memoria di Papa Giovanni attribuendogli idee e atteggiamenti ch'Egli non ebbe". Rispondono invece alla realtà le interpretazioni dei suoi ultimi successori. Nel primo anniversario della morte di Paolo VI, acutamente Giovanni Paolo II gli riconobbe il carisma della trasformazione e quello del suo tempo.
Ora Benedetto XVI - secondo il criterio di quella "ermeneutica della riforma" che nel quarantesimo del Vaticano II ha lucidamente descritto come opposta alla "ermeneutica della discontinuità", eversiva nei confronti della tradizione che per sua natura è dinamica e aperta al futuro - ritiene provvidenziale l'elezione del cardinale Montini, avvenuta nel "momento più delicato del Concilio", quando cioè l'intuizione di Giovanni XXIII addirittura "rischiava di non prendere forma".
In un frangente difficilissimo, Giovanni Battista Montini - in coerenza con tutta la sua vita, come mostrano, tra l'altro, i suoi scritti, segnati da una continuità anche stilistica sorprendente - assunse il pontificato romano con una chiara coscienza della propria responsabilità.
Guidando e concludendo il concilio, subito riconvocato, con determinazione e secondo una linea di rinnovamento che raccogliesse il maggiore consenso possibile. Linea poi mantenuta con pazienza e fermezza, secondo l'atteggiamento descritto nella prima enciclica, Ecclesiam suam, che è per intero di suo pugno: "La Chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate". Come confermarono poi tutti i gesti simbolici e le decisioni di governo, che smentiscono incertezze e ipotetiche svolte di un Papa che, tra l'altro, fu il primo a recarsi in nove viaggi internazionali in tutti i continenti.
Nonostante opposizioni tenaci e gravi dissensi nella Chiesa, nonostante gli attacchi anche personali e critiche impietose (moltiplicatesi soprattutto dopo il Credo del Popolo di Dio e dopo l'ultima enciclica, l'Humanae vitae), Paolo VI non rinunciò mai al proprio magistero, che nell'omelia di bilancio del pontificato dichiarò essere stato "a servizio e a difesa della verità", e per questo rivolto a difendere la vita umana. Per amore di Dio e per amore dell'uomo, perché - come scrisse nell'appunto già citato - "forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell'amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero".
g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)
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