6 agosto 2008

Paolo VI nel ricordo di Joseph Ratzinger e Karol Wojtyla (Radio Vaticana e Osservatore Romano)


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Trent’anni fa la morte di Papa Montini. Benedetto XVI: guidò la Chiesa in anni difficili senza farsi condizionare dalle critiche, tenendo lo sguardo fisso su Cristo

Trent’anni fa moriva Paolo VI: era la sera del 6 agosto 1978, Festa della Trasfigurazione. Un “grande Papa” lo ha definito domenica scorsa all’Angelus Benedetto XVI che più volte, durante il suo pontificato, ha parlato dell’importanza per la Chiesa del magistero e dell’azione pastorale di Papa Montini. Ascoltiamo in proposito il servizio di Sergio Centofanti.

Un “indimenticabile Pontefice”: così Benedetto XVI definisce Papa Montini, al quale, tra l’altro, resta legato per il fatto che fu lui a nominarlo arcivescovo di Monaco di Baviera e cardinale. Paolo VI – rileva il Pontefice - “fu chiamato dalla Provvidenza divina a guidare la barca di Pietro in un periodo storico segnato da non poche sfide e problematiche” distinguendosi per la sua saggezza e prudenza.
Di Papa Montini ricorda “l'ardore missionario … che lo spinse ad intraprendere impegnativi viaggi apostolici anche verso nazioni lontane, a compiere gesti profetici di alta valenza ecclesiale, missionaria ed ecumenica”. Fu infatti il primo Papa a recarsi in Terra Santa, indicando “alla Chiesa che la via della sua missione è di ricalcare le orme di Cristo”:

“In effetti, il segreto dell'azione pastorale che Paolo VI svolse con instancabile dedizione, adottando talora decisioni difficili e impopolari, sta proprio nel suo amore per Cristo: amore che vibra con espressioni toccanti in tutti i suoi insegnamenti. Il suo animo di Pastore era tutto preso da una tensione missionaria alimentata da sincero desiderio di dialogo con l’umanità. Il suo invito profetico, più volte riproposto, a rinnovare il mondo travagliato da inquietudini e violenze mediante 'la civiltà dell’amore', nasceva da un totale suo affidamento a Gesù, Redentore dell’uomo”. (Discorso di Benedetto XVI ai membri dell'Istituto Paolo VI, 3 marzo 2007)

Benedetto XVI ricorda il ruolo decisivo di Paolo VI nel Concilio Vaticano II:

“Se infatti fu Giovanni XXIII a indirlo e a iniziarlo, toccò a lui, suo successore, portarlo a compimento con mano esperta, delicata e ferma. Non meno arduo fu per Papa Montini reggere la Chiesa nel periodo post-conciliare. Non si lasciò condizionare da incomprensioni e critiche, anche se dovette sopportare sofferenze e attacchi talora violenti, ma restò in ogni circostanza fermo e prudente timoniere della barca di Pietro”. (Discorso di Benedetto XVI ai membri dell'Istituto Paolo VI, 3 marzo 2007)

Papa Montini – ricorda Benedetto XVI – difese infatti la giusta interpretazione di quell’evento, la cosiddetta ermeneutica della riforma dell’unico soggetto Chiesa che si rinnova nella continuità, contro “l’ermeneutica della discontinuità” che finiva per creare “una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare”.

"Con il passare degli anni - afferma Benedetto XVI - appare sempre più evidente l'importanza per la Chiesa e per il mondo" del pontificato di Paolo VI.

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Papa Montini nel ricordo di Giovanni Paolo II

Il carisma e la fatica della trasformazione

L'1 agosto 1979 - nell'udienza generale del mercoledì precedente l'anniversario della morte di Paolo VI - Papa Giovanni Paolo II pronunciò un ricordo del suo predecessore alla luce della solennità della Trasfigurazione del Signore. Lo pubblichiamo integralmente.

Si avvicina il primo anniversario della morte di Papa Paolo VI. Iddio lo ha chiamato a sé il 6 agosto dell'anno scorso, giorno in cui, ogni anno, ricorre la solennità della Trasfigurazione del Signore. Questa solennità bella e ricca di contenuti è stata l'ultimo giorno di Papa Paolo VI sulla terra, il giorno della sua morte, il giorno del trapasso dalla vita quaggiù all'eternità. "La vita non è tolta, ma trasformata"; così preghiamo nel Prefazio della Messa per i defunti. Difatti, il giorno stesso della morte di quel grande Papa, giorno della Trasfigurazione, è diventato segno eloquente di questa verità.
Possiamo riflettere sul significato del giorno che Dio ha scelto per concludere una vita così laboriosa, così piena di dedizione e di sacrificio per la causa di Cristo, del Vangelo, della Chiesa. Il pontificato di Paolo VI non è forse stato un tempo di profonda trasformazione, promossa dallo Spirito Santo attraverso tutta l'attività del Concilio, convocato dal suo Predecessore? Paolo VI, che aveva ereditato l'opera del Concilio da Giovanni XXIII subito dopo la prima sessione del 1963, non si è forse trovato al centro stesso di questa trasformazione, prima come Papa del Vaticano II e poi come Papa della realizzazione del Vaticano II, nel periodo più difficile, immediatamente dopo la chiusura del Concilio?
Se ci è lecito riflettere sul significato del giorno che Dio ha scelto come chiusura del suo ministero pontificale, si accumulano nella mente varie interpretazioni. Ricordando la festa della Trasfigurazione che Dio ha voluto come giorno conclusivo della sua fede sulla terra (cfr. 2 Timoteo, 4, 7), si potrebbe dire che quel giorno ha manifestato, in certo modo, il particolare carisma e anche la particolare fatica della sua vita. Carisma della "trasformazione" e fatica della "trasformazione". Si potrebbe dire, sviluppando questo pensiero, che il Signore, avendo chiamato il Papa Paolo a sé, nella solennità della sua Trasfigurazione, ha permesso a lui e a noi di conoscere che in tutta l'opera di "trasformazione", di rinnovamento della Chiesa nello spirito del Vaticano II, egli è presente come lo è stato in quel meraviglioso evento che ebbe luogo sul monte Tabor e che preparò gli Apostoli alla dipartita di Cristo da questa terra, prima attraverso la croce e poi attraverso la risurrezione.
Il Papa del Vaticano II! Il Papa di quella profonda trasformazione che era nient'altro che una rivelazione del volto della Chiesa, attesa dall'uomo e dal mondo di oggi! C'è anche qui un'analogia col mistero della Trasfigurazione del Signore. Infatti quello stesso Cristo che gli Apostoli hanno visto sul monte Tabor, non era se non colui che hanno conosciuto ogni giorno, colui del quale hanno ascoltato le parole e veduto le azioni. Sul monte Tabor si è rivelato a loro lo stesso Signore, ma "trasfigurato". In questa Trasfigurazione si è manifestata e si è realizzata un'immagine del loro Maestro, che in tutte le precedenti circostanze era loro sconosciuta, era davanti a loro velata.
Giovanni XXIII e, dopo di lui, Paolo VI hanno ricevuto dallo Spirito Santo il carisma della trasformazione, grazie al quale la figura della Chiesa, nota a tutti, si è manifestata uguale e insieme diversa. Questa "diversità" non significa distacco dalla propria essenza, ma piuttosto più profonda penetrazione nell'essenza stessa. Essa è rivelazione di quella figura della Chiesa, che era nascosta nella precedente. Era necessario che attraverso i "segni dei tempi", riconosciuti dal Concilio, diventasse manifesta e visibile, che divenisse principio di vita e di azione nei tempi in cui viviamo e in quelli che verranno.
Il Papa, che ci ha lasciato l'anno scorso nella solennità della Trasfigurazione del Signore ha ricevuto dallo Spirito Santo il carisma del suo tempo. Se infatti la trasformazione della Chiesa deve servire al suo rinnovamento, bisogna che colui che la intraprende possegga una coscienza particolarmente forte dell'identità della Chiesa. L'espressione di tale coscienza Paolo VI l'ha manifestata soprattutto nella sua prima enciclica Ecclesiam suam e poi continuamente: proclamando il "Credo del Popolo di Dio" ed emanando una serie di norme esecutive riguardanti le deliberazioni del Vaticano II, inaugurando l'attività del Sinodo dei Vescovi, facendo passi da pioniere in direzione dell'unione dei cristiani, riformando la Curia Romana, internazionalizzando il Collegio Cardinalizio, eccetera.
In tutto ciò si rivelava sempre la stessa coscienza della Chiesa, che conferma più profondamente la propria identità nella capacità di rinnovamento, di andare incontro alle trasformazioni che scaturiscono dalla sua vitalità e insieme dall'autenticità della Tradizione.
Permettete che in questo contesto rievochi almeno alcune frasi delle così numerose enunciazioni del Papa morto un anno fa. Nella sua prima enciclica, la Ecclesiam suam, che reca proprio la data del 6 agosto 1964, egli così si esprimeva: "Da un lato la vita cristiana, quale la Chiesa difende e promuove, deve continuamente e strenuamente guardarsi da quanto può illuderla, profanarla, soffocarla, quasi cercasse di immunizzarsi dal contagio dell'errore e del male; dall'altro lato la vita cristiana deve non solo adattarsi alle forme di pensiero e di costume, che l'ambiente temporale le offre e le impone, quando siano compatibili con le esigenze essenziali del suo programma religioso e morale, ma deve cercare di avvicinarle, di purificarle, di nobilitarle, di vivificarle, di santificarle (...) La parola, resa ormai famosa, del nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII di felice memoria, la parola "aggiornamento" sarà da noi sempre tenuta presente come indirizzo programmatico; lo abbiamo confermato quale criterio direttivo del Concilio Ecumenico, e lo verremo ricordando quasi uno stimolo alla sempre rinascente vitalità della Chiesa, alla sua sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi, e alla sua sempre giovane agilità di tutto provare e di far proprio ciò ch'è buono (cfr. 1 Tessalonicesi, 5, 21), sempre e dappertutto" (Paolo VI, Ecclesiam suam, 44 e 52).
E alcuni anni dopo, diceva in un discorso: "Chi ha compreso qualche cosa della vita cristiana non può prescindere da una sua costante aspirazione di rinnovamento. Quelli che attribuiscono alla vita cristiana un carattere di stabilità, di fedeltà, di staticità vedono giusto, ma non vedono tutto. Certamente la vita cristiana è ancorata a fatti e a impegni, che non ammettono mutamenti, come la rigenerazione battesimale, la fede, l'appartenenza alla Chiesa, l'animazione della carità; è di natura sua un'acquisizione permanente e da non compromettere mai, ma è, come diciamo, una vita, e perciò un principio, un seme, che deve svilupparsi, che esige accrescimento, perfezionamento, e, data la nostra naturale caducità e date certe inguaribili conseguenze del peccato originale, esige riparazione, rifacimento, rinnovamento" (Insegnamenti di Paolo VI, ix, 1971, 318).
Il Papa Paolo è stato un seminatore generoso della parola di Dio. Ha insegnato attraverso i solenni documenti del suo pontificato. Ha insegnato attraverso le omelie che teneva in varie circostanze. Ha insegnato infine attraverso la sua catechesi del mercoledì che, dal tempo del suo pontificato, è entrata nel programma abituale di tutto l'anno. Grazie a ciò ha potuto continuamente "proclamare il Vangelo" (cfr. Paolo VI, Evangelii nuntiandi). L'annunzio del Vangelo egli lo considerava, seguendo l'esempio dell'apostolo Paolo, come suo primo dovere e come la sua più grande gioia. Queste catechesi papali son diventate cibo sostanzioso per tutta la Chiesa, in un periodo che ne aveva particolarmente bisogno.
Di fronte alle inquietudini del periodo postconciliare, quel singolare "carisma della Trasfigurazione" si è dimostrato benedizione e dono per la Chiesa. Così Paolo VI è diventato Maestro e Pastore degli intelletti e delle coscienze umane, in questioni che esigevano la decisione della sua suprema autorità. Ha servito Cristo e la Chiesa con quella mirabile fermezza e umiltà che gli hanno permesso di guardare, con occhio di fede e di speranza, l'avvenire dell'opera che stava compiendo.
Avvicinandosi il primo anniversario della sua morte, raccomandiamo nuovamente la sua anima al Cristo del monte della Trasfigurazione, affinché lo accolga nella gloria dell'eterno Tabor.

(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)

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