4 gennaio 2008

I diari del cardinale Colombo: "La preghiera è una margherita fresca" (Osservatore Romano)


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I diari di Giovanni Colombo scritti in seminario e negli anni del ministero pastorale a Milano

La preghiera è una margherita fresca

Ricordi e impressioni, giudizi e ansie, propositi e sconfitte, sicurezze e incertezze, eccessi e sogni Tutto questo traspare dal diario giovanile di Giovanni Colombo, che lascia già intravvedere la singolare maturità espressa compiutamente negli scritti successivi, in particolare quelli relativi alla direzione spirituale del clero diocesano Alcune pagine autobiografiche sottolineano invece lo spirito di obbedienza con il quale accettò la nomina ad arcivescovo di Milano

Inos Biffi

Si conservano tra i manoscritti del cardinale Giovanni Colombo due quaderni di "diario spirituale" (Due diari, Milano, Glossa, 2006, pagine 166, euro 17) stesi saltuariamente tra il 17 maggio 1920 e il 30 ottobre 1922 (o forse agli inizi del 1923), ossia durante il liceo nel seminario di Monza e, sembra, nel seminario di Corso Venezia, a Milano. Si tratta di un testo prezioso, che sorprende il cardinale dai 17-18 anni ai quasi 20 anni, e nei tempi particolarmente delicati e illuminanti degli esercizi spirituali.
Non c'è nulla di straordinario nel fatto che un seminarista liceale tenesse un diario spirituale. Era una pratica diffusa e incoraggiata dai direttori spirituali fin dagli anni di ginnasio. Riconosciamo subito che, trattandosi di un "diario spirituale" non ci si accosta ad esso senza un intimo e diffuso disagio, come presi dal rimorso di chi sta indiscretamente violando un mondo per sua natura destinato a rimanere segreto: disagio che si avverte, o che si deve avvertire ogni volta che ci si permette la lettura di scritti intimi e riservati, sui quali mai l'estensore avrebbe immaginato che si sarebbe volto lo sguardo altrui, anche se è significativa la loro conservazione, dopo tanti anni, da parte dell'autore.
Ricorrono, in queste pagine giovanili di Colombo ricordi, impressioni, giudizi su avvenimenti e persone; ma soprattutto si riflettono in esse le ansie e le inquietudini dell'età adolescenziale, i suoi propositi, le sue sconfitte e riprese, le sue sicurezze e incertezze, i suoi eccessi e i suoi sogni. Ma nelle stesse pagine traspare la singolare maturità del loro estensore, che non ha oltrepassato i vent'anni. Questo Diario, infatti, rappresenta una fonte unica e inattesa per la conoscenza della formazione spirituale di Giovanni Colombo, dove, per altro, già spuntano e si intravedono, nella loro forma incipiente, e come in presagio e intuizione, i tratti che lo distingueranno nella vita matura sacerdotale ed episcopale. Allora il tono apparirà diverso, meno concitato, più composto e più sereno, ma lo stile, gli orientamenti e la dottrina saranno, in fondo, gli stessi.
Chi scrive non ha faticato a sentire nel Diario di quell'eccezionale seminarista, esattamente il linguaggio e l'insegnamento del rettore di seminario negli anni Cinquanta e quello dell'arcivescovo di Milano negli anni successivi: anche se, di là dalle apparenze e dalla compassatezza esteriore, Giovanni Colombo non cessò mai di essere interiormente attraversato dal tormento e dalla inquietudine; e ve lo inclinava, d'altronde, la primarietà del temperamento con la sua naturale impulsività, che - trattenute e controllate fuori di casa - non mancavano, in casa, di manifestarsi nell'impazienza e nell'imperiosità. Non tutto quello che dal giovane chierico è scritto in quei due quadernetti risulta perspicuo e comprensivo a chi li legge: non siamo riusciti a individuare tutti i nomi segnati o a ricostruire e comprendere con chiarezza tutte le vicende in essi evocate.

L'altissima tensione spirituale

Un riserbo abituale accompagna quelle "confessioni", dal quale, tuttavia, trapela una tensione spirituale altissima. È il primo carattere che colpisce e impressiona in queste pagine di diario. Il giovane Colombo prende sul serio la vita spirituale: l'accentuazione, che è propria dei giorni degli esercizi spirituali, lascia scorgere, in realtà, l'atteggiamento e la determinazione religiosa e morale abituali nello svolgimento della sua vita di seminarista. "In questo giorno, più che mai, o Gesù, sento la tua voce che mi invita a farmi santo, sento che da questo giorno una vita nuova ricomincia per me, una vita di riparazione, di preparazione, di sacrificio, una vita che è la via alla perfezione che voglio raggiungere" (19 maggio 1921).
"O Signore, io ho capito che la gloria non mi basta. Io ho sentito dopo tutto un vuoto, ma un vuoto così immenso che nulla v'ha che lo possa colmare, tranne tu! Tutto questo che io sono è tuo, Dio mio, Padre mio, ed io a te tutto lo dono e lo restituisco; ma in compenso dammi te stesso. Oh come sarà bello quel giorno in cui in un abbraccio indissolubile io mi confonderò intensamente vivendo in te, e potrò dire nell'eccelsa sublimità, fuori del tempo, per sempre: - O Dio, desiderio mio, io sono tu!!!!" (25 novembre 1921).
A pochi giorni dal suo diciannovesimo compleanno scrive: "Ho diciannove anni, o Signore, e non ho goduto nulla della vita. Ho diciannove desideri insaziabili nel cuore che mi spronano, e questi diciannove anni vogliono vita, vita, vita. Tu, Cristo, sei la vita. Ma se dovesse accadere che io debba offenderti mortalmente, Dio mio, non guardar s'io ricuso, prendimi a forza, uccidimi..." (10 dicembre).

Una continua orazione

Il clima che, dall'inizio alla fine, avvolge queste pagine è quello della preghiera, come colloquio personale con Dio, comunione con lui, dagli accenti intensi e ardenti. Quasi ogni pagina è un'accesa e fervida orazione. Eccone alcune: "O Spirito pari al Padre e al Figlio; Spirito Infinito ho bisogno dei tuoi lumi, ed adorando te, infinito Amore, di cui il mio cuore non è che una debolissima favilla, nella tua ottava, io ti prego umilmente a volere rischiarare la mia mente, a riscaldare il mio cuore" (19 maggio 1921). "Nel silenzio assoluto io ti ritrovo, o Signore, e parlo con te, come se ti vedessi, se ti sentissi; ma l'anima mia, ti sente davvero... o Signore, fatti sentire!"; "Io ho sete, Gesù, ma ho sete di te! Io ho voglia di pensare a te, al bene che tu mi vuoi, all'amore che tu mi porti [...]. O Signore, fa che questo mio cuore non conosca altro amore che il tuo, fa che il mio cuore non riconosca altro palpito che quello che batte per te!..." (1 novembre 1920). "O Signore, sento di essere tutto sensibile ed al di là dei sensi non sa alzarsi l'animo mio, ma tu renditi sensibile poiché [perché] possa comprenderti; o Signore, non ti amo, ma desidero tanto d'amarti, sento che sono irrequieto perché non riposo in te. Non tardare a svelarti in tutta la tua luce in modo ch'io ti possa vedere bene e conoscerti perché agogno immensamente d'amarti ed in questa tiepidezza i giorni mi sembrano eterni e vuoti e l'ore un'agonia mi sembrano, mi sembrano un'agonia che non finisce più" (20 maggio 1920).
Colombo sente la difficoltà della fede - e forse l'ha sempre sentita, fino agli ultimi anni, superandola con il suo sforzo più grande e la più tenace volontà: "Io credo, o Signore, benché non t'abbia mai veduto, benché questo superbo io mi dica che non è vero credo, credo... E sono pronto a dar la mia vita [...] a dar la mia testa per la fede" (20 maggio 1920).
"O Signore [...] un desiderio immenso asseta il mio cuore, oh se disciolta gli fosse la catena! Oh se potesse coll'aquila levato batter l'ali fin presso a Te, sparire come una virgola di fumo nel tuo seno. Amarti, conoscerti, adorarti questo vorrei, vorrei farlo sempre; solo in questo sento che troverebbe pace il cuore irrequieto" (25 ottobre 1920). "Io cerco la Verità. O Gesù, o Cristo, fa che io la possa trovare la verità, possa abbracciarla, difenderla e farla conoscere. La luce è sopra il moggio. Io cerco la verità. E tu, o Padre nostro che sei nei cieli, ed il Cui spirito aleggia intorno a me e dentro, prendimi la mano e guidami di cosa in cosa finch'io trovi il mio Diletto, a ciò che lo abbracci, a ciò che lo sveli a tutti i disconoscenti. Infiamma, o Cristo, infiamma il mio essere, atomo svanente nella tua grandezza" (13 ottobre 1921).
Ricordiamo una forma specialmente interessante e originale di preghiera presente nel Diario: i due salmi, composti da Colombo (21 e 31 maggio 1920), dove la compagine biblica si fonde con l'ispirazione poetica e con una vibrante emozione.
A essere, in particolare, appassionatamente e continuamente invocata come "Mamma", in questo Diario, è la Vergine Maria, della quale Giovanni Colombo si professa "un figliolo amoroso" (21 maggio 1920): "O Mamma, l'anima mia riarsa si screpola nel dolore e nella sterilità ed in uno sforzo eroico di vita slancia le braccia - sicut terra sine aqua, Tibi" (17 maggio 1920); "O Mamma, tu mi ami poi che son tuo figlio, tu mi conosci, tu vedi, tu puoi, a te confido la mia vocazione, tu custodiscila" (19 maggio 1921); "O Mamma, i miei polmoni sono consunti, debole è il mio petto che al minimo urto sfonda, e l'afa e la stanchezza circonda tutte le mie membra [...] dammi un lembo del tuo manto inespugnabile [...], e non permettere che mi colga la notte senza lume, e il nemico senz'arma [...]. Meglio che questo esile soffio si spenga, meglio che il mio misero corpo senza fiori e senza vita imputridisca, meglio la tomba fredda e negra del cimitero..." (19 maggio 1920); "O Mamma e quanto m'è dolce chiamarti così [...] O Mamma guardami! [...] O Mamma fammi buono fammi santo" (21 maggio 1920); "O Mamma, più bella del maggio pien di rose e di sole" (12 maggio 1921).

Lucida e impietosa introspezione

Colombo registra in queste pagine il ripetuto e penetrante sguardo su se stesso, sulla propria coscienza, esaminata senza compassionevole rigore, sulla propria vita interiore, nel suo cammino, nelle sue peripezie e nei suoi problemi, con l'accentuazione, e un poco l'esasperazione, che normalmente contrassegna i giorni degli esercizi spirituali, più di una volta registrati nel Diario, dove non mancano gli accenni alle trepidazioni, alle ansie e agli affanni dell'"esame di vocazione", comportante l'autorevole e insindacabile giudizio del Padre spirituale. "Oggi, o Signore ho esaminato ancora me stesso sulla vocazione con l'aiuto di colui che tu m'hai dato per guida, ed ho sentito ripetermi una parola consolante. Grazie! Grazie! Tu mi chiami, o Maestro, ed io voglio venire, venire dietro a te" (il 19 maggio 1921).
Torna nel Diario il tema della propria vocazione: egli la sta esaminando col massimo senso di responsabilità: "Anch'io domani deciderò, con la tua luce la via su la quale mi chiami. Io tremo per timore di sbagliare [...], illumina la mia mente, quella del direttore dell'anima mia, ch'io possa farmi comprendere [...] e che egli sappia comprendermi tutto [...]. Quante volte, prima d'addormentarmi, quante volte nella comunione ho detto al Signore questo dilemma: "o sacerdote santo, o la morte"" (18 maggio 1920). Tutto fa pensare che egli era alla vigilia di quello che in seminario era chiamato "esame di vocazione": un esame paragonabile, anche decenni dopo, a una specie di "terrorismo spirituale" e che non rivelava il massimo di finezza e di attenzione pedagogica.
Ma Colombo riprende soprattutto l'argomento dei suoi difetti e mette a nudo le sue mancanze. In particolare, sorprende e sottolinea nella propria condotta l'orgoglio: "O Signore; quando mi trovo solo e considero me stesso, e guardo dentro di me, mi trovo così pieno di miserie da far compassione a me stesso, da farmi piangere. Un abituale orgoglio, una voglia peccaminosa di eccellere, un desiderio sottile, nascosto, infiltrante d'essere ricercato, pregato, accarezzato, lodato, è insomma la "superbia vitae" che si manifesta in tutti i modi, persino in una falsa umiltà due volte superba, e perché è superbia e perché è ipocrisia effetto di superbia. Un avviso, un ammonimento giusto meritato anche da parte di un compagno mi irrita [...], sento e assecondo un'antipatia anticristiana, e almanacco mille progetti di vendettuzze e di capricci propri da bambino [...], sento l'orgoglio ferito che si dimena, mi faccio triste, cupo, bisbetico, e m'abbandono ad un dolore snervante ed inefficace" (20 febbraio 1921).
E sempre sfogliando, come egli dice, il suo "interno misterioso, che non si conosce mai", commenta: "Ed io, o Signore buono, ogni volta che nel silenzio intiero - esterno ed interno - sia pur di sfuggita posso lanciare uno sguardo nella penombra del mio io, trovo sempre delle pagine di miseria non mai lette, di cui non avevo nemmeno sospettato l'esistenza in me. Oh allora, o Signore, come si sente di essere davvero nulla di buono, di essere un atomo ribelle ed inutile, che s'agita febbrilmente nello svolgersi del mondo! Chissà quante pagine su cui stanno scritte delle parole che io ignoro si trovano ancora dentro di me? Quando, o Signore, alzerai il candelabro per rischiararmi? Da quel poco che m'hai fatto conoscere di me sento che sono un essere senza scheletro, una pietra amorfa, uno spirito senza volontà [...]. E così passano i giorni, tentennanti, indecisi, senza luce, senza calore, senza carattere, giorni umidi, tiepidi, oziosi, flosci... La debolezza di carattere per cui non so dire di sì o di no nettamente e reciso [...] è come lo sfondo principale della mia indole, è il colore di prima mano che si estende su tutta la tela, poi vi sono altri colori [...]. Ecco la superbia per la prima [...]. In fondo ad ogni mia azione io trovo sempre - me stesso - detestabile [...]. Tutto il mio rapporto verso coloro che mi circondano non è che un cattivo sistema di invidiuzze e di capricci, di simpatie e di antipatie..." (23 marzo 1921); "Quanta superbia, tutta superbia, sempre superbia! - continua a constatare Colombo - O Signore nello spasimo della terra riarsa che si screpola e geme senza una stilla di pianto, io lancio le mie mani verso la tua bontà, verso il tuo amore"; e giunge a scrivere: "Come sono più felici alcuni de' miei compagni, sempre in una placidità d'onda, sempre in un dolce albore; che cos'è che mi agita così, che mi scuote, che non mi dà pace... È il sentimento, l'ingegno, la superbia?" (12 maggio 1921); "Oh buon Gesù, sono superbo, troppo superbo: ecco perché nella mia vita interiore non c'è progresso, ecco perché il mio fuoco è di paglia sempre" (5 novembre 1921).
Tra i propositi maturati negli esercizi spirituali il 20 maggio 1921 segnerà questi due: "Frequentare la compagnia di quei compagni che meno mi vanno a genio. (Oh, Signore, sai quanto mi costa, aiutami tu) [...]. Carità ed umiltà coi compagni (o Signore, sai quanto è difficile)"; e il 5 novembre 1921: "Stimare i compagni ammirandone tutta la [...] virtù ed amandoli come te stesso [...]. Non cercare la lode - non parlar mai di me".
Sia per il prolungato studio sulla vita interiore dei grandi protagonisti della santità cristiana - con le scuole di spiritualità da loro avviate e irraggiate -, sia per la frequentazione assidua dei letterati, Giovanni Colombo, negli anni della maturità, si troverà a proprio agio a soffermarsi all'analisi dell'interiorità e all'introspezione di quel fondo umano, che, con la complicità del nascondimento, opera sotto la veste dell'apparenza.
In particolare, Colombo non farà fatica a sentirsi in forte sintonia con Freud, del quale esporrà le teorie in un acuto e chiaro studio, rimasto sospeso a una prima puntata, che, purtroppo, gli fu proibito di portare a compimento, ed egli se ne rammaricava, quando qualcuno, gli domandava a quando la continuazione di quel saggio.
Pur riconoscendo che alla "psicanalisi non si può negare una suggestiva potenza", Colombo certamente non accettava il sistema di Freud, con la sua "interpretazione generale della vita", divenuta una "ubriacatura"; tuttavia, non mancherà di essere persuaso di alcune convinzioni di quel "maestro del sospetto", che nativamente erano poi le sue.
Spesso da rettore ci avrebbe ripetuto l'osservazione dell'Imitazione di Cristo: "La natura è astuta: essa attira molti a sé, e li cattura e li inganna", osservando che il suo autore in anticipo su Freud aveva avvertito le trame ingannevoli della natura umana o le vere e inconfessabili motivazioni celate sotto falsi addobbi - come egli diceva - negli scantinati dell'io. Ma sono significativi alcuni rilievi che intercalano l'articolo su Freud.
Sulla "mendacità istintiva della natura nostra, quale appare dall'analisi freudiana", Colombo si sofferma a osservare: "Qui c'è il più terribile e profondo commento alle parole del salmo: Omnis homo mendax [115, 11] [...] Freud non ha dimenticato un momento che la nostra natura umana è tutta mendace, e ad ogni sua espressione esteriore cerca sempre un significato nascosto". E aggiunge: "Ah, povera natura umana, come sei doppia! I santi hanno ragione quando insegnano che non si può fidarsi di te".
Ma non meno illuminante è questa annotazione di Colombo: "La psicanalisi ebbe profonda ripercussione nella vita e nella letteratura. Specialmente nella letteratura, dove influì sulla critica, sul teatro e in genere su tutta la produzione narrativa. Oscar Wilde, Lawrence, Dos Passos, Körmendi, Pirandello, Moravia, per non citare che i nomi più noti, non si spiegherebbero senza Freud"; e, confrontando Fogazzaro e Mauriac, proseguiva: "Sono simili perché in fondo ai loro romanzi sta un identico tormentoso problema: il conflitto tra la carne e la Grazia, tra l'amore sensibile della creatura e l'amore spirituale di Dio. Eppure sono diversissimi. [...] Fogazzaro poteva ancora essere ingenuo: credere con beato candore nella purezza di un certo amor platonico, incorniciarlo con religiosa cura di frasi dal sapore patristico, e immaginarlo perfino accolto e sancito da Dio in paradiso per l'eternità. [...] A Mauriac invece non sono più possibili codeste rosee illusioni, perché i suoi occhi disincantati hanno imparato da Freud a scorgere sotto le maschere della vita la sua torbida forza".
Se tutto questo risalterà nel Colombo della maturità, è però sintomatico che già dalle pagine del suo Diario degli anni verdi traspaia e spicchi una inconfondibile inclinazione all'esame lucido e penetrante della sua coscienza, alla lettura e al giudizio critico di se stesso.

Una grazia singolare e una "conversione"

Torniamo al Diario, dove, a un certo punto, Colombo accenna a una grazia di "conversione", che alla fine, dopo tanta attesa e orazione, gli viene concessa. Non ci è dato sapere a che cosa precisamente si riferisca. "Lo Spirito divino mi prepara una grazia grande che da tanti anni desidero, che non raggiunsi mai; avevo sperato raggiungerla d'esercizi in esercizi, avevo sperato raggiungerla [...] là davanti alla miracolosa Vergine di Varallo. Ma non l'ebbi, non la chiesi, mi mostrai indegno. Ed oggi, o Signore, sento che Tu sei disposto a concedermela: io bacio la tua mano umilmente riconoscente: grazie! grazie! grazie! Son certo che la Vergine mamma non è estranea... ho bisogno di forza però, di forza che non ho, ma che debbo, che voglio avere..." (17 maggio 1921). Il giorno dopo aggiunge: "Dopo quattro anni, non ho io forse ritrovato il Signore? Dopo essermi ingannato, dopo d'aver pianto tanto, non avrei mai creduto che fosse così facile trovarti; o Signore! Non voglio più perderti, mai più, mai più! Mi sento stanco: le dita non stringono più la penna, le gambe sono flosce, come dopo una lunga giornata di febbre, una febbre, o Gesù, orrenda che è durata quattro anni, una febbre che mi legava come una catena di fuoco... sono salvo!".

Inquietudine e sofferenza

Un altro tratto impressionante è quello della diffusa e continua sofferenza, fisica e spirituale. Di fatto, la salute non mancava di essere precaria, e questo stato si rifletteva nell'anima. Un acuto dolore provoca in lui la morte di qualche compagno. In occasione di una di queste scomparse scrive: "O Tagliabue, caro Tagliabue, sanguina il cuore e l'animo geme in fondo. Ti ricordi? E tu sei morto, e tu sei morto. Quando tu mi scrivevi le lunghe lettere, e quando a me stringendoti tu piangevi ed il tuo pianto mi scendeva in cuore", continuando, con tocco poetico e parole enigmatiche: "Ma poi quando incomincia il mese della vendemmia, quando nelle giornate ultime d'Ottobre si spande il profumo triste de' crisantemi ... tu lo sai, tu lo sai... ho fatto male, ma tanto male e tu sei morto, e tu sei morto!..." (3 settembre 1920). Anche un anno dopo torna su questa morte. In prossimità della vacanza estiva si domanda: "Questa vacanza, forse nel caldo, come Tagliabue l'anno scorso, picchierà ischeletrita la morte alla mia porta?" (17 maggio 1921).
Un'altra morte, quella del compagno Alberti, viene il 26 marzo 1922 a rattristarlo e generare in lui pensieri di morte: "E Alberti?! Povero figliuolo, io lo sento aleggiarmi d'intorno come un insistente profumo di viole, io lo sogno pallido tra i fiori, lo invoco tra i sonni de la notte, e sento di volergli bene. O Alberti, povero compagno mio in questo lungo viaggio, che più in là della metà della via ti sentisti male e cadesti tenerello, caro Alberti, ricordati di me giunto al termine d'ogni via nella luce eternale de l'Agnello. La requie eterna t'allieti! Amen".
Il 1922 sarà l'anno del tracollo della salute fisica, accompagnato da spossatezza spirituale: "Che pallida primavera senza grida, senza gioie, senza entusiasmi, senza vita, senza amore! - scrive il 12 marzo 1922 - Povera diciannovesima primavera della mia vita... La febbre serpeggia nelle mie vene e mi consuma silenziosamente". E il 26 dello stesso mese: "O Signore, come si fanno rari i palpiti di queste pagine: una furia di cose, di pensieri, di fatti mi preme, mi preme; non ho nemmeno un istante libero. Quanto lavoro mi sta davanti".
Il 22 giugno, sotto la morsa del male fisico e, certamente anche spirituale, confessa di non poterne più: "O Signore, il male che mi sfibra, che corre come un pazzo su e giù per le mie vene, mi stringe ora troppo, troppo: non ne posso più! O Signore!". È anche il tempo della maturità liceale al Berchet di Milano.
Va, tuttavia, aggiunto che, a pagine di angosciosa inquietudine e di prostrazione fisica e morale, altre se ne alternano, molto più rare, di gioia pura e luminosa. Segnava il 23 marzo 1921: "Sereno il cielo d'un sereno intenso, senza nubi, senza velo, serena l'anima d'un sereno intenso senza nubi, senza velo. Quanta pace in quest'oggi, quanto profumo primaverile che si diffonde nei silenzi e penetra tra i fori del corpo ed invade il cuore e lo spirito. Grazie, o mio Dio!". E il 1° giugno del 1922 - il mese dell'afflizione insopportabile - sorprendentemente annota: "La terra nuota in un immenso bagno di luce, l'anima mia è immersa omnino in un effluvio infinito di grazie... Basta, o Signore, basta! Tu sei troppo buono per me, io non lo merito. Non ti ricordi più, o Signore, i miei peccati! E pure fino a ieri ho continuato ad offenderti. Come sei buono! non l'avrei mai creduto: oh, se tutti i peccatori sapessero come è giocondo in cuore l'amarti [...], se lo sapessero i miei fratelli, essi pure lascerebbero il mondo per gustare Te solo, per vivere di Te solo!".

I rapporti con la famiglia

Diversi sono gli accenni alla famiglia. Subito, il secondo giorno del Diario (18 maggio 1920), Colombo ricorda la festa "a casa di mio padre": il matrimonio del fratello Giulio, che gli ispira la preghiera per gli sposi - "O Signore, [...] benedici questa unione, rendi contento il loro cuore, da loro allontana la discordia e il peccato, fa che la loro famiglia sia veramente modello di virtù domestiche, e crescano buoni i figli" -, e, insieme, è occasione per valutare il carattere effimero degli svaghi che hanno accompagnato la festa: "La festa è scemata, i petali cadono, le rose si sfogliano" (19 maggio 1920).
Ma, soprattutto, quella festa familiare è una viva presa di coscienza di essere stato prediletto rispetto ai suoi fratelli: "Che cos'era io perché fra i miei fratelli venissi da te scelto come beniamino e venissi educato in modo tutto diverso e quasi come un fiore di serra venissi riparato dal sole che inaridisce e dalle brume che fanno gelare le foglie che poi seccano ed il fiore intisichisce? [...] Eppure io non era né il primogenito né l'ultimo, né il più buono... o Signore, e tu mi hai scelto tra i fratelli e non ne sono degno". Non è assente un rammarico: "Non mi chiedono una preghiera [...], ma - egli osserva - è perché essi non ti conoscono e Tu non ti sei loro mostrato; essi, o Signore, ignorano le tue dolcezze ed il tuo amore e non pensano troppo a Te [...]; ma Tu, o Signore, benedicili e qualche volta svelati anche a loro" (18 maggio 1920).
L'ingresso in seminario, più di tutto, provocava in Colombo strappi dolorosi e cocenti nostalgie. Il 31 ottobre del 1920 annotava: "In Seminario! Come chi ha dovuto attraversare un luogo infido e dopo lungo faticare ne esce manda un sospiro che rilascia i nervi prima tanto tesi e s'acquieta e si riposa tali sono le emozioni che ho provato ieri varcando la soglia del Seminario. Ed insieme ho sentito, o Signore, un gran dolore per aver lasciato i miei cari, il mio paesello, ed i luoghi natii".
Il giorno dei Santi dello stesso anno scriveva: "Oggi, verso le quattro, ascoltando i tocchi gravi e solenni ammorzati dai lenti fiocchi di neve che chiamavano il popolo della città ai vesperi ho sentito come un flutto di melanconia stringermi intorno al cuore. Oh il tepore della casa paterna! Oh i domestici ricordi! O Signore tutti han voluto un brano di cuore ed a fibra a fibra tutto me l'han portato via... ed io non voleva ed essi lo volevano e l'hanno fatto". E qualche settimana dopo, il 21 Novembre: "O Signore, tu vedi, che io amo più te che non mio padre o mia madre o i miei fratelli [...] Per te, o Gesù, tutto ho sacrificato, tutto ciò che di più dolce v'è nel mio cuore, e l'ho sacrificato tutto per te".
Appena trascorso Natale, con il suo rapidissimo giorno di vacanza, esclama: "Oh la casa paterna, oh le persone care de la famiglia" (29 dicembre 1920).
Molti decenni dopo, durante il suo "buon ritiro", tra le sofferenze patite in seminario ne ricordava una "patita fino allo spasimo". Confidava: "In Seminario non c'era la mia famiglia. Se avessi potuto la sera andare a casa... Se la sera, o anche qualche volta alla settimana almeno, mi avessero lasciato andare a casa...". E aggiungeva, riferendosi, come sembra, alla vacanza natalizia: "Mi concedevano un giorno appena di ferie, dal mattino alla sera. Dovevo andare a Caronno, arrivavo a casa verso le dieci, alle tre dovevo ripartire".

Pagine di poesia

Un soffio di poesia ispira e abbellisce un po' tutte le pagine di questo Diario, anche là dove per la circostanza o per lo stato d'animo non ce lo attenderemmo. Particolarmente incontenibile, e prevalente su tutto il resto, è l'emozione suscitata dalla natura circostante, a cui Colombo è sensibilissimo, al punto che le stesse circostanze talora drammatiche, che pure feriscono nell'intimo e addolorano quell'adolescente, vengono come distanziate, filtrate e trasfigurate in immagini estetiche.
Dietro si possono avvertire le frequentazioni poetiche di Colombo: Dante, Leopardi, Carducci, Pascoli, Zanella, Manzoni: "Ho terminato le elementari - egli confidava - che sapevo tutti gli Inni Sacri e le Odi Civiche del Manzoni a memoria"; mentre, sui dieci, undici anni, alla domanda di quale regalo volesse per Natale rispose: "Datemi I Promessi Sposi".
Certo, il genere di poesia e di prosa che decora il Diario giovanile di Colombo risente del gusto del tempo, ma non si tratta di imitazione: non sono infrequenti frammenti lirici di squisita finezza e di pura trasparenza, anche se non mancano qua e là artefazione e un certo eccesso retorico. Il Diario, in ogni caso, rivela già, nell'autore non ancora ventenne, lo scrittore di razza, la sua passione e attrazione per le lettere italiane - singolare per il figlio di un operaio e di una massaia di un piccolo paese contadino -, provenienti e sostenute sicuramente da un dono di natura, più che non dallo stimolo di maestri. Lui stesso ricordava la sua passione per il vocabolario, guardata con sospetto dal suo prefetto.
Ecco qualche saggio di questi tocchi di poesia e di questo amore per l'eleganza della prosa. Colombo, come sembra, è a Caronno, al termine della vacanza: "Oggi è una stupenda giornata d'Ottobre, terso è l'azzurro del cielo, ed un silenzio immenso è sopra ai campi. Oh com'è triste l'autunno, come grave sull'animo [...], sui campi è la vecchiaia grave e silenziosa: non un canto, non un profumo, non un grido... fischia il vapore laggiù ed un pennacchio bianco di fumo riga l'orizzonte e dispare" (25 ottobre 1920).
E in seminario, in una fine di gennaio: "Stamattina uscendo di dormitorio ho sentito alitarmi in viso un soffio tiepido quasi di caldo per essere di gennaio. Il cielo era stellato e magnificamente terso. La luna del plenilunio tingeva con color di latte le colonne del cortile, tutto taceva, ma il mio cuore non taceva. Ed a Gesù [...] ho narrato tutta la mia storia" (25 gennaio 1921).
Il 4 giugno dello stesso anno segna: "Al giorno due sono sbocciati i gigli candidi, odorosi... [...]. Nei campi alte e esili sovra il rosso dei papaveri, sovra l'azzurro vivo del fiordaliso, le bionde spighe maturano... O Gesù, che io t'ami, come tu m'ami!". Qualche mese dopo - il 17 novembre 1921 - paragonerà la sua preghiera a "una bella margherita fresca trovata in questo novembre mestissimo sotto le foglie cadenti", e continuerà, componendo e fondendo insieme poesia e preghiera, dolore e contemplazione: "Vanno, Gesù, le foglie di qua, di là, vanno a dormire sulla terra. Ed io vado di qui, di là. Vanno Gesù le foglie a immedesimarsi della terra, a divenir terra, ubere terra. O Gesù, ch'io vada a immedesimarmi di te, a divenir te, ubere te. Che più nessuno mi veda, che più nessuno mi voglia bene, che più nessuno sappia che io sono, e non lo sappia nemmeno questo mio essere superbissimo. Vanno le foglie di qui di là, vanno le foglie a diventar terra".
Il 14 gennaio del 1922 è attratto dalla neve: "Oggi la neve s'è fatta vedere, imbiancò i tetti il cortile le vie... . ma poi scivolò via al primo sguardo del sole", e prosegue: "Dio, saranno così i miei propositi?..."; il 17 maggio successivo lo colpiscono le spighe di grano: "Oh le spighe! Di qua di là de la via bianca imperlata a la recente pioggia che soave alito di purità levano sopra!...".
Pur segnate dalla varia precarietà che in genere contrassegna gli scritti di un diciottenne o poco più, queste pagine, meglio di ogni altra, introducono nell'intimo della vita interiore di Colombo, così gelosamente nascosta, restio com'egli era, per istinto, a qualsiasi forma di confidenza. Sorprendiamo questa vita interiore, senza dubbio, ancora ai suoi inizi, le sue vicissitudini, i suoi drammi, le sue aspirazioni e le sue propensioni. Ma, già, restiamo impressionati dal livello della sua ricchezza e della sua maturità. E perché non dirlo: della sincera e tenace ricerca della santità.
Che poi l'abbia effettivamente raggiunta, così da equiparare, in certo modo, quella di alcuni suoi ravvicinati vescovi predecessori, Dio solo lo sa. A noi consta che ci ha provato con tutte le sue energie.

(©L'Osservatore Romano - 4 gennaio 2008)

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