6 agosto 2008

Trentennale della morte di Paolo VI: lo speciale di "Avvenire" (Semeraro, Roncalli e Gambassi)


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CHIAVI DI LETTURA

PAOLO VI IL DONO DELLA 'PICCOLEZZA'

MARCELLO SEMERARO

Per 'Avvenire' ricordare Paolo VI è un bisogno, diremmo, filiale. Il nostro giornale, infatti, nacque quale frutto della paternità di Paolo VI perché non mancasse una voce alla Chiesa in Italia. Parlare di que­sto Papa attraverso il suo magistero (alcuni testi sono insuperati, come 'Ecclesiam Suam', 'Marialis cul­tus', 'Evangelii Nuntiandi'; altri, co­me 'Populorum Progressio' e 'Hu­manae vitae', sono riletti proprio in questi mesi) e i suoi gesti ('ha avu­to il senso dei gesti espressivi e crea­tori di nuove situazioni', scrisse di lui Y. Congar) sarebbe ripetere cose no­te. Gli anniversari, però, servono an­che a questo. Occorrono nuove chia­vi di lettura.
Una, forse, è la 'picco­lezza'. A pochi giorni dalla sua ele­zione Battista Montini parlò di se stesso come 'l’ultimo e il più picco­lo Vicario di Cristo'. Chissà se non scelse di chiamarsi Paolo anche per questo. Conosceva bene le riflessioni di Agostino sul no­me Paolo, che in latino vuol dire pic­colo: «Dopo Saulo ecco Paolo che di­ce 'io sono il più piccolo degli apo­stoli… quasi la frangia nella veste del Signore'» (Sermo 299/B, 5). In un’an­tica miniatura si vede il diacono Pie­tro che, attraverso un foro procura­to con lo stilo sulla tenda, osserva di nascosto papa Gregorio mentre, sot­to la guida dello Spirito in forma di colomba, scrive il commento a Eze­chiele. Se avessimo potuto fare al­trettanto con Paolo VI lo avremmo sorpreso nel gesto più espressivo della piccolezza. Monsignor Pa­squale Macchi, il suo fedele segreta­rio, ha confidato: 'Ogni sua giorna­ta si chiudeva a notte avanzata con la preghiera personale. Solo, in cap­pella, inginocchiato per terra, a luci spente'; concludeva così: 'Era il mo­mento in cui io discretamente do­vevo scomparire'. Inaugurando il secondo periodo conciliare Paolo VI si paragonò a O­norio III, com’è raffigurato nei mo­saici di San Paolo fuori le Mura, 'di proporzioni minuscole e col corpo quasi annichilito prostrato a terra', che bacia i piedi al Cristo Pantokra­tor. Vi si riconobbe. Si prostrò an­ch’egli per baciare la terra milanese il 5 dicembre 1954, la roccia 'del pri­mato' e quella del Getsemani in Ter­ra Santa, i piedi del metropolita Me­litone il 14 dicembre 1975. 'Paolo VI ha superato il Papato, egli ha rag­giunto i Padri che hanno fondato la Chiesa', esclamò il Patriarca Dimi­trios.
Della 'piccolezza' Paolo VI aveva il senso cristiano. 'Se non vi farete pic­coli…' (Mt 18,3). Mai avrebbe gra­dito sentirsi appellare 'grande', tan­to profonda era in lui la percezione del primato di Cristo: 'Cristo è tut­to è per noi', scrisse nella prima Let­tera alla Chiesa ambrosiana, ripe­tendo sant’Ambrogio. 'Non mi sen­to superiore ma fratello, inferiore a tutti perché porto il peso di tutti', confidava all’amico Jean Guitton. Si fece, perciò, evangelicamente come bambino. Amò i piccoli (si rifletta dove e con chi, lungo gli anni e an­che da Papa, egli preferì celebrare la Notte del Natale) e con la semplicità del fanciullo ebbe il dono della gioia, nella quale visse abitualmente. Il ri­chiamo ad essa emerge potente in alcune note private scritte a Castel Gandolfo nel luglio 1974. A rilegger­le, paiono il preludio a quel vero in­no alla gioia che fu la 'Gaudete in Domino' nella Pentecoste 1975. Un testo ancora oggi sorprendente, al punto da non citarlo! Mi confidava un amico: 'Chi ha mai scritto più della condivisione da parte di Gesù di tutte le gioie umane!!!'.
Paolo VI morì nella gioia. Testimo­niò mons. Macchi: 'Con un lieve sor­riso sulle labbra, fece un semplice gesto con la mano'. Morì che si era fatto bambino, dicendo Pater, Padre!

© Copyright Avvenire, 6 agosto 2008

TRENT’ANNI DI GRATITUDINE

Giovanni Battista Montini Una vita trasfigurata dalla luce del Risorto

DI MARCO RONCALLI

A Castel Gandolfo, la sera del 6 agosto del 1978, ricevute poche ore prima la Comunione in forma di viatico e l’Unzione degli infermi, Paolo VI scioglieva le vele, lasciava la sua tenda per il cielo. Un epilogo affrontato come atto supremo nella preghiera e nell’abbandono, ultima battuta di un ininterrotto colloquio con Dio al quale da tempo Giovanni Battista Montini si era preparato. «Mi aiuti a morire bene», aveva più volte ripetuto al fedele segretario monsignor Pasquale Macchi al quale – dall’inizio del pontificato – aveva raccomandato che l’Olio santo fosse sempre a portata di mano. Come fu necessario in quel giorno, festa della Trasfigurazione, solennità che «getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra», per dirla con le parole che avrebbe dovuto pronunciare papa Montini nell’Angelus, esattamente trent’anni fa. Paolo VI era stato esaudito: «Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce», aveva scritto nel suo Pensiero alla morte. Se è vero che l’annuncio dell’assenza del Papa al balcone in quella domenica deluse i fedeli raccolti a Castel Gandolfo, passò comunque fra i più il messaggio non allarmistico di un’indisposizione, come altre volte. Del resto, la primavera del 1978 per l’ottantenne Paolo VI era stata particolarmente pesante. Lui stesso nel messaggio pasquale Urbi et orbi, il 26 marzo 1978, confidava di annunciare il Cristo risorto raccogliendo «quanto ancora ci resta di umana energia e quanto ancora ci sovrabbonda di sovrumana certezza». C’era stata anche per cinquantacinque giorni, fra marzo e maggio, la straziante vicenda di Aldo Moro, il rapimento, i cinque componenti della scorta barbaramente trucidati, l’assassinio dello statista nonostante gli accorati appelli «agli uomini delle Brigate Rosse». C’era stata la ferita – recata il 22 maggio 1978 – quando con la legge 194 anche in Italia era diventato possibile abortire legalmente. E il 29 giugno di quello stesso anno, tracciando una specie di bilancio del suo servizio petrino, era stato ancora lo stesso Paolo VI a parlare di «corso naturale della nostra vita» che «volge al tramonto». Tuttavia, tornando al 6 agosto ’78, nessun segnale d’inquietudine era uscito dal Palazzo in quel pomeriggio festivo, né il giorno prima quando il suo respiro si era fatto più affannoso, la febbre era salita e c’era stato un consulto fra i medici. Il Segretario di Stato vaticano Jean-Marie Villot stava nella vicina Villa Barberini; in libertà uomini di curia e di governo; la maggior parte degli italiani in vacanza. E Paolo VI, schiacciato da un incalzare di eventi così rapidi da rendere inutili i presidi medici, se ne andava come aveva sempre desiderato: senza disturbare nessuno, lavorando sino alla fine sulle labbra il Pater noster: «Discessus pius, morte pia», «un progresso nella comunione dei Santi».
Riappropriarci oggi di quel momento lasciando scorrere nella mente i fotogrammi di quel congedo, ad esempio, nella cronaca del fedele segretario don Pasquale Macchi, significa ripensare ad una morte repentina, quasi solitaria, senza veglie di popolo – pensiamo a quella di Giovanni XXIII o di Giovanni Paolo II – ma che, egualmente, fu coronamento di una vita completa, sigillo di un dono: quello di tanti anni di servizio alla Chiesa e al mondo. Per tante persone le sequenze successive sono quelle di una semplice bara di legno chiaro, senza drappi, a terra e, sopra, pagine di Vangelo sfogliate dal vento, ma anche una foresta di mani che applaudono, con calore e affetto, i funerali di un pontefice.

Un Papa entrato nella storia come tormentato, amletico, cupo – così vuole lo stereotipo –, in realtà ben capace di sorridere, di credere nell’uomo, di gustare la verità, la bontà, la bellezza «in quella essenziale unità da cui scaturisce la gioia, che a differenza del piacere o della felicità, sempre illusoria, è soltanto un’esperienza dello spirito», come intuì lucidamente monsignor Enzo Giammancheri, sacerdote bresciano, 'colonna' della Editrice La Scuola, pronto a cogliere nel grande conterraneo una personalità «intrinsecamente» religiosa («Essere religiosi ex officio che giova quando non lo si è ex animo?», così in un appunto, Montini, già nel 1920).

Personalità religiosa, sì, e tuttavia non formalistica o ritualistica, ma libera, forte di quella libertà docile all’azione dello Spirito.
Una personalità che con un solo aggettivo potremmo connotare come «cristocentrica». E aveva ragione Yves Congar a sostenere : «Paolo VI sarà valutato col tempo». Amato e discusso, timoniere del Concilio Vaticano II, sostenitore di quel dialogo vero appreso alla scuola del Vangelo, di Pascal, di padre Giulio Bevilacqua («nessuno è estraneo al cuore della Chiesa; nessuno è indifferente al suo ministero»), Paolo VI, primo pontefice a rinunciare alla tiara e – va da sé dopo Pietro – a visitare la Terra Santa, primo a parlare alla Nazioni Unite e a visitare i cinque continenti, e altro ancora, continua a scuoterci e a interrogarci. Soprattutto però attraverso quel suo amore per la Chiesa manifestato sino all’ultimo respiro come si legge ancora nel
Pensiero alla morte: «La Chiesa (...) potrei dire che da sempre l’ho amata e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto».

© Copyright Avvenire, 6 agosto 2008

Come un amanuense «annotava» i passi di Agostino Gli appunti inediti di un Papa affascinato dal santo

Giacomo Gambassi

«Inquietudine filosofica: ca­ratteristica fondamentale della 'conversione' - cf. Sant’Agostino: inquietum est...». L’appunto è a piè di pagina. Non c’è una data precisa che possa indicare quando Paolo VI abbia annotato, co­me fosse un amanuense, questa ri­flessione. Di sicuro c’è che la citazio­ne delle Confessioni non è completa: sia perché è fra le più note in quanto apre l’opera di Agostino ( Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te, il nostro cuore è inquieto finché non trova pace in Te), sia perché Giovan­ni Battista Montini l’aveva ben impressa nella mente.
L’annotazione è una di quelle contenute nei 230 fogli che rac­colgono cinquecento passi di sant’Agostino trascritti da Mon­tini sia nell’epoca dell’episcopato a Milano, sia nel periodo del papato. Un’antologia che l’associazione «Amici di 30Giorni», la rivista diretta da Giulio Andreotti, pubblica in occasione del trentennale della morte di Paolo VI in un volume dal tito­lo Montini e Agostino. Ciò che emerge nel lavoro curato da Lo­renzo Bianchi è «un’attenzione tutta particolare portata ver­so il santo, insieme così dotto e 'pastorale'», scrive Andreot­ti nella prefazione. Del resto, aggiunge il senatore a vita, il fu­turo Papa «già negli anni fucini aveva fatto del pensiero ago­stiniano la traccia del suo apostolato universitario».
Gli appunti erano stati conservati dal segretario personale di Montini, monsignor Pasquale Macchi, e sono arrivati in fo­tocopia ad Andreotti. Una prima edizione dei brani, elabora­ta da padre Carlo Cremona, era stata pubblicata in spagnolo nel 2004. Nel libro le annotazioni montiniane erano state rior­ganizzate per tema. Diversa la scelta di Bianchi che ha volu­to «fornire la trascrizione il più fedele possibile, senza altera­re l’ordine della raccolta», spiega il curatore. Un discreto nu­mero di citazioni, quasi tutte scritte a mano e in pochissimi casi copiate con la macchina da scrivere, non sono del tutto letterali. «E questo – osserva Bianchi – fa capire che buona par­te di esse erano probabilmente fatte a memoria». Fra le ope­re di Agostino più citate da Paolo VI le Lettere, la Città di Dio, i Discorsi, il Commento al Vangelo di San Giovanni e l’Esposizione sui Salmi.

© Copyright Avvenire, 6 agosto 2008

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