3 dicembre 2007

"Spe salvi": né la scienza né la politica redimono l'uomo ma la speranza cristiana (Fontana per "L'Occidentale)


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Benedetto XVI: né la scienza né la politica redimono l'uomo ma la speranza cristiana

di Stefano Fontana

Cosa c’è di apparentemente così poco “terreno” della speranza cristiana? La vita eterna, il Giudizio, gli eventi “ultimi” legati al “ritorno” di Cristo sembrano avere così poco da dire su questa nostra vita. Anzi, sembrano richiedere di metterla tra parentesi: poca cosa rispetto a quanto ci spetta, breve viaggio verso la pienezza dell’eternità. Ed invece la prospettiva tracciata da Benedetto XVI nella sua ultima enciclica Spe salvi conduce a tutt’altro esito, a guardare sì in profondità ed in alto la speranza cristiana, ma anche a coglierne la luce che ne deriva in questa vita.
Nell’enciclica il cielo e la terra ancora una volta si toccano, la giustificazione di Dio nel Giudizio rende possibile la giustizia in questo mondo, la tensione verso l’oltre rende gli uomini liberi e critici verso tutte le parzialità, che non soddisfano la speranza ma, al più, le speranze. La fede cristiana manifesta così ancora una volta di non essere alienazione ma ricomposizione dell’umano. La speranza cristiana non sottrae all’impegno in questo mondo e non spinge verso una salvezza individualistica, ma al contrario ci libera dai surrogati della speranza che sono le ideologie, ci scioglie dagli inganni delle promesse di salvezza degli imbonitori politici e ci spinge ad una salvezza comunitaria, perché in Cristo, afferma Benedetto XVI, si incontrato tutti i fratelli.

Nella storia recente, però, la speranza cristiana è stata secolarizzata. E’ stata distolta dal cielo e collocata solo sulla terra. E’ stata messa nelle mani dell’uomo o, peggio ancora, di meccanismi storici assoluti che ne avrebbero garantita la realizzazione. Una speranza “certa” di realizzazione e dipendente da strutture necessarie non solo non è più speranza cristiana, ma nemmeno semplicemente speranza. Ecco perché l’enciclica fa i conti con la modernità, quando questa secolarizzazione della speranza cristiana è stata particolarmente accentuata e quando i suoi esiti si sono fatti e si stanno tuttora facendo addirittura disastrosi. Assieme ad un bilancio critico della modernità, l’enciclica propone anche un esame del cristianesimo della modernità, facendo capire che bisogna attentamente valutare quanto esso si sia fatto contagiare dalla secolarizzazione dalla speranza. Un cristianesimo di questo genere, propenso a scambiare talvolta la speranza con il progresso, non è nemmeno utile alla società, perché spegne la propria capacità di suscitare l’autentica libertà.

Il marxismo, dice Benedetto XVI, è stato un grande tentativo di trasformare in forme storiche e secolari la speranza cristiana. L’attesa dell’avvento della società comunista ha nutrito di speranza milioni e milioni di persone in un evento apocalittico e in una palingenesi finale della storia la cui ragion d’essere era nelle mani della storia stessa e della prassi umana. Marx riteneva inspiegabilmente che il ritmo della storia ad un certo punto si sarebbe fermato e si sarebbe confluiti in una società post-storica di giustizia e di pace in cui ad ogni uomo sarebbe stato dato secondo i suoi bisogni e chiesto secondo le sue possibilità. Su questa fase finale egli non ha lasciato alcuna indicazione e i vari Lenin non hanno trovato nemmeno un misero appunto del maestro su cosa avrebbero dovuto fare una volta conquistato il potere. Secondo Benedetto XVI tutto ciò si spiega con il fatto che il marxismo è una storicizzazione della speranza cristiana e all’evento apocalittico del Giudizio sostituisce l’irrompere della discontinuità della società comunista. Una cosa è certa: da questa secolarizzazione della speranza cristiana sono nate molte esasperazioni del “cinismo del potere” – così dice Benedetto XVI - che hanno lasciato un immenso strascico di vittime.

Anche l’ideologia del progresso, afferma l’enciclica, è stata un grande tentativo di mettere nelle mani dell’uomo la realizzazione della speranza. I cittadini di Nuova Atlantide, la società utopica vagheggiata da Francesco Bacone nel 1600, sostenevano che il paradiso terrestre, con il relativo dominio dell’uomo sulla natura, si poteva reintegrare grazie alla scienza e alla tecnica. Ne è nato il mito del progresso, come processo di continua emancipazione da tutte le dipendenze, frutto di una ragione e una libertà assolute, mentre appunto la speranza cristiana veniva riposta nel regno del superfluo.

La speranza cristiana, scrive il papa, ci libera da queste assolutizzazioni. Ci dice che il progresso non può mai essere garantito dalle sole strutture, che non può giungere solo dall’esterno dell’uomo, che “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa”, che non sono né la scienza né la politica a redimere l’uomo e che quando pretendono di farlo diventano veramente pericolose, che il lavoro per il progresso deve essere continuamente liberamente rinnovato in quanto “un mondo senza libertà non sarebbe per niente un mondo buono”. Il messaggio centrale dell’enciclica è che “il mondo migliore di domani non può essere il contenuto proprio e sufficiente della nostra speranza”: “noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio.

© Copyright L'Occidentale, 1° dicembre 2007

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