2 dicembre 2007

Enciclica "Spe salvi": i commenti di Brambilla e Colombo per "Avvenire"


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«FUOCHI» DI QUESTA NUOVA LETTERA

FORZA DEL FUTURO CHE CAMBIA LA STORIA E LE NOSTRE STORIE

FRANCO GIULIO BRAMBILLA

Mentre scorrevano sotto i miei occhi le parole scin­tillanti della nuova enciclica di Papa Benedetto XVI, Spe salvi, salvi nella e per la speranza, ripensavo con un brivido di emozione alla bella espressione con cui Gabriel Marcel, nel mezzo dell’ultimo terribile con­flitto mondiale, disegnava la speranza: io spero in Te per noi. Formula icastica e felice. Il filosofo francese riu­sciva a tessere insieme il lato personale e civile della speranza. E, ancora, lo slancio del desiderio di felicità e l’anticipo della promessa di vita. Di vita eterna.

Scritta come d’un solo fiato, la riflessione del Pontefi­ce colpisce diritto al cuore. Degli uomini d’oggi e del­l’epoca presente. Prende le mosse dal desiderio di vi­ta buona e felice, per mostrare come il presente pos­sa essere vissuto solo nell’orizzonte della speranza, di un oltre e di un altro che riempie di senso l’ora attua­le. E lo muove a una prassi di vita buona. La speranza non è un’informazione nuova, ma è trasformazione dell’esistenza, è promessa di redenzione che muta le condizioni di vita.

È la forza del futuro che cambia il presente. Anzi è la novità dell’avvento di Dio che suscita cose nuove nel tempo. Dalla piccola Bakhita che fa l’esperienza del passaggio dalla schiavitù alla libertà, alle preghiere del cardinale vietnamita Nguyen Van Thuan, che nei tre­dici anni di prigionia vede aprirsi una finestra di spe­ranza. Fino ai martiri, ai monaci, a coloro che spe­rando hanno inventato forme di vita nuova, come Bernardo, Francesco, e la nube di testimoni della spe­ranza.
Sorprende la scrittura del Pontefice che sa toccare le corde più profonde dell’esistenza quando spiega l’e­spressione «vita eterna» (n. 12), mentre poco più a­vanti stabilisce un confronto serrato e pacato tra la promessa della speranza cristiana e la fede nel pro­gresso della modernità (nn. 16-21). Un testo vigoroso, che gioca su tutte le corde del pensiero e della lingua per ricavarne una musica nitida e convincente, lieve e persuasiva. Come dev’essere della parola della spe­ranza e com’è nello stile di questo Papa.
L’enciclica po­trà apparire a taluni non facile in alcune sue parti, ma non potrà risultare a tutti incalzante nel porre la do­manda decisiva: che cosa possiamo sperare? E che co­sa non dobbiamo sperare!
Qui si accendono i fuochi dell’enciclica: la speranza della vita eterna è il motore dell’esistenza buona nel presente; la speranza personale non sta senza la sua dimensione sociale, anzi universale; la figura cristia­na della speranza deve fornire alternativa convincen­te alla moderna fede nel progresso; i luoghi della spe­ranza (la preghiera, l’agire e il soffrire dell’uomo, l’e­sercizio della perseveranza sotto il segno del Giudizio) sono il modo con cui la promessa entra nel grembo del­la storia.

Il gesto del Pontefice è audace. Porta al centro della sce­na temi personali e culturali che sono dileguati dalla riflessione civile e dalla coscienza comune. Con la for­za di formule che spuntano nel testo con sorprendente facilità di espressione e felicità di linguaggio. Come questa: «Il fatto che questo futuro [di Dio] esista, cam­bia il presente; il presente viene toccato dalla realtà fu­tura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (n. 7). O, ancora: «Desi­deriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sen­tiamo spinti... Questa 'cosa' ignota è la vera 'speran­za'... La parola 'vita eterna' cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta». Le statistiche dicono che gli italiani per una grande maggioranza credono ancora in Dio, ma subito si smarriscono quan­do vien loro chiesta ragione della loro fede nell’aldilà. La voce del Papa dà parola a questo desiderio di vita che alberga in ogni uomo.
L’aspetto più intrigante dell’enciclica sta nel confron­to con la modernità, con la sua fede nel progresso e i suoi miti. Condotto con una lucidità salutare, fino al­la contestazione del potere redentivo della tecnica. La terapia indicata è chiara: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica del­l’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo». Non senza riportare la coscienza cri­stiana alla sua responsabilità storica: «Bisogna che nel­l’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’au­tocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici» (n. 22).
Si capisce la cura di Benedetto XVI per l’uomo e la sua libertà. «L’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza» (n. 23). La Chiesa italiana a Verona ne ha tentato un concreto esercizio negli ambiti della vita umana. E ha imparato che bisogna custodire tut­te le armoniche della speranza: io spero in Te per noi.

© Copyright Avvenire, 1° dicembre 2007


LA SPERANZA DI BENEDETTO XVI

A FIANCO DELL’UOMO OLTRE L’ORIZZONTE DELLE TECNOSCIENZE

ROBERTO COLOMBO

Un diffuso stereotipo di alcuni predica­tori della emancipazione 'laica' della società moderna da ogni retaggio di storia e di vita religiosa vorrebbe leggere la vicen­da del rapporto tra Chiesa, scienze e tec­nologie attraverso la sola chiave etico-po­­litica: la prima è inquadrata come «conser­vatrice per natura» e «moralistica per mis­sione », mentre le seconde sono presentate come «progressiste per statuto» e «libere e liberanti per vocazione». Così, mentre la Chiesa, con le sue distinzioni normative tra il bene e il male, il lecito e l’illecito, conti­nuerebbe a frenare il cammino dell’uma­nità verso un futuro migliore per qualità e durata della vita e aperto a nuove e impre­vedibili opzioni individuali e sociali, le tec­noscienze consegnerebbero finalmente nelle mani dell’uomo il suo destino, ren­dendo la sua ragione e la sua libertà misu­ra di tutte le cose e artefice di un «corag­gioso mondo nuovo», la civiltà della scien­za e delle sue macchine.
Benedetto XVI ha affrontato questa critica in un testo incisivo e persuasivo per la ra­gionevolezza delle sue argomentazioni – l’enciclica Spe salvi –, confrontandosi con essa attraverso l’evidenza della fede e l’e­sperienza della vita cristiana che non pos­sono venire ridotte a un codice morale di re­staurazione dei costumi o a regole di ordi­namento della vita sociale e politica. Il cri­stianesimo ha ben altro respiro. L’avveni­mento di Cristo contiene in sé una certez­za per il futuro (così definiva San Tomma­so la speranza), a partire dalla quale, «e sem­plicemente perché essa c’è, noi siamo re­denti » (§ 1), condotti verso una meta certa e grande, capace non solo di corrisponde­re alle evidenze e alle esigenze del cuore dell’uomo, ma anche, inverandole, di su­perare ogni prevedibile desiderio o attesa. I 'no' del Papa alla egemonia culturale e sociale delle scienze e delle tecnologie, che vorrebbe imprigionare la speranza dell’uo­mo entro il vicolo cieco della ragione illu­ministica (questa 'speranza è fallace', § 25), nascono da un 'sì' all’orizzonte dell’eter­nità, il solo degno della sete di vita dell’uo­mo, cui lo spalanca una ragione aperta al­la realtà tutta, fino a sfiorare i lembi del Mi­stero buono da cui tutto proviene e che tut­to sostiene.
«La scienza può contribuire molto all’u­manizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo e il mondo» (§ 25) perché, da sola, non «ri­sponde alla domanda più importante per noi: che dobbiamo fare? Come dobbia­mo vivere? – scriveva Max Weber –. E il fat­to che non vi risponda è assolutamente in­contestabile ». Nelle parole di Benedetto X­VI riecheggia la ragione che fu già di Hus­serl, quando ricordava che «nella miseria della nostra vita [...] questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di princi­pio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del de­stino; i problemi del senso e del non sen­so dell’esistenza umana nel suo com­plesso ». Una speranza senza soggetto è u­na povera speranza, un dramma anoni­mo, senza protagonista.

Il Papa ha teso la mano agli uomini di scien­za, ha spalancato loro la porta del suo cuo­re di padre, pensoso e attento per il destino di tutti gli uomini, capace di ascoltare le lo­ro domande e le loro attese. Raccogliendo la sfida che fu già di Wittgenstein («noi sen­tiamo che se pure tutte le possibili doman­de della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati»), Benedetto XVI ricorda che «nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amo­re, per Dio» (§ 46). In virtù di quest’ultima apertura «noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente fa­ticoso » (§ 1), gravati dalla responsabilità che il potere tecnoscientifico ci consegna, ma lietamente certi che «non è la scienza che redime l’uomo.

L’uomo viene redento me­diante l’amore» (§ 25). Lo aveva già intuito un secolo fa Giuseppe Moscati, illustre me­dico e santo napoletano, quando ripeteva ai suoi allievi: «Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo».

© Copyright Avvenire, 2 dicembre 2007

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