2 dicembre 2007
Enciclica "Spe salvi": i commenti di Angelo Zema, Paola Bignardi e Gaspare Mura (RomaSette)
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Speranza affidabile da vivere per l'altro
La nuova enciclica, "magna charta" sulla seconda virtù teologale
di Angelo Zema
Quarantadue domande sono contenute nell’enciclica «Spe salvi». Nell’approccio del Papa teologo (che, tuttavia, nel documento è profondamente unito a quello del pastore), buona parte sono utilizzate come strumento per introdurre la risposta, altre però restano scolpite per chi legge. Domande aperte ad una riflessione sulla propria vita, di fronte a questa seconda enciclica di Benedetto XVI che si presenta come una «magna charta» della speranza.
Un testo ricchissimo di spunti, da cui emerge un identikit della speranza cristiana. Speranza che è «affidabile», parola chiave del lessico di Benedetto XVI. «Affidabile», precisa già alla settima riga del documento, perché in virtù di questa speranza «noi possiamo affrontare il nostro presente». «Affidabile», ripete l’aggettivo nella seconda delle 77 pagine, riferendosi a quanto fu «determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l’aver ricevuto in dono» la «grande speranza».
Ma questa «grande speranza» «di che genere è?»: è la prima delle 42domande che dicevamo. E traccia la via dell’appassionante itinerario contenuto nell’enciclica, fondato su alcune lettere di San Paolo (quasi una preparazione all’Anno Paolino) e permeato da citazioni dell’amato Sant’Agostino. Con alcuni punti chiave: la testimonianza della Bibbia sulla speranza; il rapporto con la fede; il tema della vita eterna; il carattere comunitario della speranza; la necessità del connubio tra fede e ragione; il fallimento di speranze puramente terrene in realtà dirette contro l’uomo e la sua libertà. C’è molto altro, sicuramente.
Come non sottolineare l’indicazione di grandi testimoni della speranza, che appare nell’enciclica? Una preziosa opportunità pedagogica, soprattutto per i più giovani. Gli esempi offerti - da Santa Giuseppina Bakhita, sudanese, al cardinale vietnamita Van Thuan, ma anche al martire Le-Bao-Thin, pure vietnamita - configurano la universalità della Chiesa e della concretizzazione della speranza cristiana vissuta come responsabilità per l’altro.
La parte finale dell’enciclica chiarisce che la speranza va appresa ed esercitata, e i «luoghi» in cui ciò possa essere fatto. A cominciare dalla preghiera, aspetto su cui Benedetto XVI sviluppa una breve ma intensa catechesi. Anche questa sezione, costellata di puntuali indicazioni, diventa essa stessa una domanda, per i cristiani che realmente vogliano interrogarsi sul modo di dialogare con Dio. Pregare non è uscire dalla storia. È imparare a cogliere cosa sia degno di Dio, a non chiedere «le cose superficiali e comode», è «purificare» desideri e speranze. È favorire una «speranza attiva», quella che tiene «il mondo aperto a Dio». E rende qui presente il suo regno. Ogni volta, in ogni luogo «dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge», là è il suo regno.
© Copyright RomaSette, 30 novembre 2007
Le tre strade per il cristianesimo di oggi
Due parole familiari nel titolo dell'enciclica, ma non alla sensibilità comune (Agenzia Sir)
di Paola Bignardi
"Spe salvi": questo il titolo della seconda Enciclica di Papa Benedetto XVI, che esce a quasi due anni di distanza dalla prima.
Nel titolo, due parole familiari al linguaggio del cristianesimo, ma non altrettanto alla sensibilità comune, anche tra i cristiani.
La parola salvezza, chiave del messaggio cristiano, di fatto alle persone di oggi non dice più nulla. L'uomo di oggi non si sente così perduto da desiderare di essere salvato. Eppure avverte dentro di sé un'inquietudine cui spesso non sa dare nome. Il Papa interpreta il disagio profondo e la ricerca della coscienza umana contemporanea, e la orienta alla speranza.
Nel vuoto che inquieta il cuore dei giovani o nella stanchezza che affatica quello degli adulti si manifesta il bisogno di un oltre spesso senza nome; la domanda di una pienezza per la quale non si riesce a trovare la strada... Sembra indifferenza l'atteggiamento con cui molte persone oggi affrontano la vita; in effetti è sfiducia nella possibilità di trovare una direzione, un senso, un orientamento per l'esistenza.
È domanda di speranza il modo con cui i giovani inseguono l'amore, o gli adulti cercano la carriera o il successo. Piccole speranze, che nella loro fragilità ne chiamano una più grande, perché quando "queste speranze si realizzano appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito" (n.30).
Nel corso della storia umana, la speranza si è rivolta alla scienza o alle trasformazioni sociali, nell'illusione che esse bastino a risolvere per sempre il problema del limite, dell'ingiustizia, del male. Oppure si è fatta speranza solo per sé, che ha bisogno di maturare per divenire speranza anche per gli altri, da cercare insieme, perché "Cristo è morto per tutti. Vivere per lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo essere per" (n.28).
Ai credenti e alla Chiesa, Papa Benedetto indica tre strade per apprendere la speranza: la prima è quella della preghiera, secondo la testimonianza del card. Van Thuan, per il quale la possibilità di parlare con Dio ha costituito la forza che gli ha permesso di affrontare tredici anni di carcere. La seconda via è quella dell'azione e della sofferenza insieme: esse contribuiscono a spingere il mondo verso il futuro, e al tempo stesso di purificarlo con una sofferenza unita a quella di Cristo e una compassione che fa sì che il patire venga condiviso.
Infine, la via del giudizio, che proietta la vita dell'uomo nell'eternità e gli fa intravedere oltre la morte la possibilità di uno sguardo vero e giusto sull'esistenza di ciascuno e sulla storia.
Al termine di questa lettura, due considerazioni: la prima riguarda la gioia di vedere una Chiesa che si apre alla domanda di speranza che c'è anche nelle persone del nostro tempo.
A noi che facciamo ogni giorno esperienza della fatica di dare un orientamento alla nostra vita, fa bene sentirci annunciare la parola della speranza cristiana. Fa bene anche a quanti di noi sono desiderosi di incontrare una Chiesa missionaria, non preoccupata di se stessa, libera da ogni paura: questa Enciclica ci parla di una Chiesa che si accorge della domanda di senso che c'è in tante persone, che forse mascherano la loro inquietudine e il vuoto del loro cuore dietro espressioni indecifrabili. Ma in fondo questa è la storia di tanti personaggi del Vangelo, per i quali la strada della salvezza si è aperta in un'esistenza disordinata e confusa, dentro la quale, in profondità, il Signore Gesù ha letto la domanda più vera: è la storia di Zaccheo, della donna di Samaria, di Nicodemo.
E la seconda considerazione: dopo aver dedicato la sua prima Enciclica al tema dell'amore, Papa Benedetto dedica la seconda a quello della speranza. Ci dice così che l'amore e la speranza sono le caratteristiche essenziali per il profilo di un cristianesimo per questo tempo; amore e speranza come due dimensioni strettamente connesse: "l'uomo viene redento mediante l'amore... Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di redenzione che dà un senso nuovo alla sua vita" (n.26). Dunque amore e speranza si richiamano a vicenda: ciò che dà speranza al nostro cuore inquieto è il sapere di essere amati non in forma superficiale, ma in quella profonda che è possibile solo al cuore di Dio; per un tempo che ha la durata dell'eternità.
© Copyright RomaSette, 30 novembre 2007
Una lettura "filosofica": la stella della storia
Ricchezza di contenuti teologici, spirituali, scritturistici e filosofici
di Gaspare Mura ( Sir )
La Lettera Enciclica "Spe salvi", promulgata da Benedetto XVI nella festività di Sant'Andrea apostolo, possiede una ricchezza di contenuti teologici, spirituali, scritturistici e filosofici che mostrano efficacemente, nella loro unità e capacità di illuminarsi reciprocamente, cosa significa oggi la "sapienza cristiana".
Colpisce fin dall'inizio della Lettera che Benedetto XVI scriva che "la figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore". Ecco allora perché diviene possibile una lettura "filosofica" dell'Enciclica.
Come un vero filosofo, Cristo ci si presenta nelle antiche raffigurazioni come un viandante che porta in mano un bastone, ma un bastone che porta alla vita oltre la morte. Questo vuole dirci Benedetto XVI: anche oggi Cristo è il vero "filosofo", che si fa viandante e compagno del nostro pellegrinaggio terreno, ma per condurci alla realizzazione di quelle nostre attese e speranze che le filosofie e le culture del nostro tempo promettono invano. In Cristo, allora, la filosofia diviene speranza, anzi è la stessa speranza, che realizza in noi la sostanza di ciò che crediamo e attendiamo.
Benedetto XVI si rende conto che nel contesto dell'odierna cultura la parola "Eterno suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura"; ma ci assicura che se usciamo dalla nozione di temporalità in cui siamo culturalmente immersi, possiamo intuire l'eternità non come un susseguirsi di giorni, ma come la piena realizzazione di tutto il nostro essere, "come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo - il prima e il dopo - non esiste più". L'eternità non ha a che fare con il tempo dei filosofi, ma è l'essere pienamente in Cristo, speranza nostra. Ma la cultura filosofica moderna ha elevato seri ostacoli alla visione della speranza cristiana.
Il serrato confronto che Benedetto XVI conduce con la filosofia moderna e contemporanea sembra teso soprattutto a distinguere e separare il significato autentico di "speranza" cristiana dalla declinazione della speranza operata dalla filosofia moderna, che ha espresso sovente questo significato con il termine "utopia". La prima "utopia" cui ha soggiaciuto il pensiero moderno è quella di Francesco Bacone, che assegna alla scienza e non alla fede la missione di liberare l'uomo. L'ideologia illuministica del "progresso" ha fatto sperare all'umanità, divenuta finalmente libera, un regno della libertà e della ragione; la Rivoluzione francese e poi il marxismo sono state le espressioni storiche di questo pensiero utopico, fondato sull'idea di un "perfettismo" da conseguire con le sole forze dell'uomo. Dal pensiero utopico agli inferni dei Gulag staliniani e dei lager nazisti, il passo è breve.
E il confronto che Benedetto XVI fa con il pensiero dei rappresentanti della Scuola di Francoforte, Adorno ed Horkheimer, sembra assumere il significato di una attenta recezione delle tematiche più avanzate della filosofia contemporanea al fine di consolidare una critica severa nei confronti dell'"utopia".
E poi il riferimento a Kant, ancora una volta, dopo Wojtyla, reinterpretato in senso utile alla fede. La ragione moderna, che ha voluto stabilire sulla terra un regno perfetto dell'uomo senza Dio, "si risolve inevitabilmente nella fine perversa di tutte le cose descritta da Kant". Kant si arresta sulla soglia che Benedetto XVI valica affermando che "chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell'uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio - il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora sino alla fine, fino al pieno compimento (cfr Gv 13,1 e 19, 30)".Benedetto XVI afferma, allora, con forza che così come non dobbiamo trasformare la "speranza" in "utopia", altrettanto siamo impediti, nonostante le numerose tentazioni in contrario, di trasformare la "fede" in "ideologia", ovvero in progetto storico che può avere successo sull'immanente, ma ci chiude alla "speranza". Come l'"utopia", infatti, anche la concezione "ideologica" del cristianesimo è foriera di intolleranza, di violenza, di autoritarismo.
Non a caso Benedetto XVI conclude la sua Enciclica con il tema, scabroso e controverso, della "sofferenza di Dio". Citando San Bernardo scrive: " Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis". Ovvero "Dio, che non può soffrire come Dio, tuttavia compatisce": "L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio , la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza". Il Dio che "soffre con noi" (Raissa Maritain) è la stella della speranza cristiana.
© Copyright RomaSette, 30 novembre 2007
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