1 dicembre 2007

"Spe salvi": i commenti di Mons. Pieran­gelo Sequeri (teologo) e del prof. Francesco Botturi (filosofo)


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LA SECONDA ENCICLICA

Pierangelo Sequeri

È il futuro a distinguere i cristiani

«Nell’eternità una vita di relazioni autentiche»

DI MATTEO LIUT

La vita eterna? Una vera e propria «esistenza in relazio­ne ». Il giudizio di Dio? Un riscatto per le vittime e una luce sulla verità di noi stessi. Così, monsignor Pieran­gelo Sequeri, docente alla Facoltà teologica di Milano, rileg­ge il tema dei «novissimi» alla luce della seconda enciclica di Benedetto XVI.

Sul rapporto tra fede e speranza, il Papa cita un passaggio della lettera agli Ebrei, «La fede è la sostanza delle cose che si sperano», cosa significa?

Qui il Papa ricorda da un lato la posizione di coloro che ve­devano in questo passaggio l’affermazione di una fede che poggia sul sicuro, dall’altro lato la posizione di coloro (e qui cita Lutero) che vi avevano visto un concetto di tipo esi­stenziale, teso al guadagno di una certezza tutta soggettiva. Alla prima interpretazione, ricorda il Papa, manca l’identi­ficazione del fondamento, che è il Signore: la fede non è con­cetto astratto ma un’esperienza di comunicazione con il suo fondamento. Della seconda interpretazione il Papa pur man­tenendo come valido il richiamo alla dimensione esistenziale, ricorda che la fede non è solo «convinzione umana», ma e­sperienza che apre al dialogo con Dio. Un dialogo che è già esperienza di vita eterna.

Ma cos’è la «vita eterna»?

Ratzinger propone una bella critica all’idea di «eternità» che si dimentica la «vita». La stabilità «marmorea» di tale con­cetto va invece conciliata con un’esperienza profonda di «re­lazione »: è nella relazione con Dio che fondiamo la nostra certezza nella nostra destinazio­ne ultima. Non basta quindi en­fatizzare l’eternità, è necessario ricordare la dimensione vitale della relazione con l’assoluto. Il desiderio di vita eterna, quindi, non è quello di una «sopravvi­venza infinita», ma di una vera e propria «vita in relazione», che continui oltre la morte.

Morte, giudizio, inferno e para­diso: ai novissimi fa riferimento l’ultima parte dell’enciclica. Co­me vengono caratterizzati?

Come dicevo, di fondo c’è il con­cetto di «vita eterna» non intesa quantitativamente come «dura­ta infinita». Essa è una «vita in re­lazione », una vita felice perché «piena di relazioni», secondo un concetto collettivo di felicità e se­condo anche quanto descritto nel Nuovo Testamento. Questa è la chiave per comprendere il re­sto: in questo discorso si inseri­scono i concetti di libertà e re­sponsabilità, che sono le dimen­sioni destinate poi al vaglio del «Giudizio», che non sarà una re­sa dei conti ma un riconoscimento del valore «accumulato» in un’ottica di relazione, di accudimento reciproco, di investimento della propria libertà. Questi sono i contenuti che Dio è capace di raccogliere e, at­traverso il giudizio, di liberare da tutto il resto delle «scorie».

Perché l’insistenza sul concetto di «collettività»?

Forse perché oggi spesso la trascendenza è ridotta a dimen­sione individuale, anche nella predicazione. Eppure, ci dice il Papa, nel destino di trascendenza individuale fa parte an­che la trama di rapporti nella quale l’individualità è inserita e che non si esaurisce nella «città terrena».

Quale la strada indicata dal Papa?

Quella del rilancio, anche culturale da parte del cristianesi­mo, della destinazione trascendente dell’essere umano, che non è riducibile al biologico, al politico, al sociale.

Perché il Papa oppone l’idea di progresso al giudizio di Dio?

È uno scarto qualitativo: l’idea di progresso è un’idea che tende all’eccellenza e produce «vittime», il giudizio di Dio, invece, riapre una possibilità di «successo» laddove appaio­no i fallimenti. Nel giudizio, introducendo altri criteri di va­lutazione, Dio recupera le contraddizioni che il progresso tende a escludere. Per questo il cristianesimo «scommette» anche per le vittime della nostra «trionfale avanzata» nella storia. Qui sta la giustizia.

Un «al di là» fatto di relazioni, quindi. Perché, allora il Papa dice che con la morte la scelta di vita diventa definitiva?

Tra creazione e destinazione dell’uomo, origine e finalità, la vita terrena può essere vista come un’iniziazione nella qua­le esprimiamo il nostro modo di accettare o meno proprio la destinazione dell’esistenza: sulla base di questa scelta fon­damentale, poi, verremo giudicati.

Il Papa accosta l’inferno non a un luogo ma a degli indivi­dui. Perché?

Perché «inferno» è la condizione di chi, avendo scelto solo se stessi, sono «inchiodati» alla compagnia di se stessi. Una condizione fondata sul rifiuto della relazione.

© Copyright Avvenire, 1° dicembre 2007


Francesco Botturi

«Ci dice che la salvezza non viene dalla scienza»

DI ELIO MARAONE

« Un testo molto intenso, molto bello, che tocca in profondità chi lo legge. Quasi uno svolgi­mento, assieme alla prima enciclica, del te­ma già sintetizzato dal Santo Padre nel Gesù con queste pa­role: l’uomo ha bisogno di verità e di amore, di una verità che lo ami». In altre parole, secondo il professor Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale all’Università cat­tolica, la Spe salvi è una nuova tappa, e tra le più toccanti, della coerente ricerca (della verità nella luce dell’amore, o­siamo notare noi) di Benedetto XVI.

Professore – chiediamo – che altro si potrebbe aggiunge­re tentando una valutazione generale di questa encicli­ca?

Che il Papa si dirige dritto alla grande questione umana, ossia al desiderio di felicità che lo coinvolge, che lo fa an­che soffrire, ma che è insopprimibile. Per questo l’uomo non può mai, di fatto, rinunciare a un’idea di felicità, ben­ché sia consapevole della sua fragilità e della sua insuffi­cienza: per dir meglio, egli è portatore di un desiderio più grande di quanto egli stesso riesca a realizzare. È questo il paradosso dell’uomo, che il cristiano, insieme alla fede, deve testimoniare.

Di testimoniare, si potrebbe aggiungere, nel tempo della post-modernità, dopo le lunghe stagioni della moder­nità...

... che ha fallito, e il Papa lo ricorda con grande lucidità cri­tica nei brani dedicati alla Rivoluzione francese e alla Rivoluzione comunista. Mi pare vada messo in risalto, per e­sempio, il passo che, dopo aver denunciato come «vero errore» marxiano il materialismo, con­clude che l’uomo non è soltan­to il prodotto di condizioni e­conomiche e perciò non è pos­sibile risanarlo dall’esterno creando condizioni economi­che favorevoli. Altrettanto sa­liente è, da parte del Papa, la cri­tica della fede nel progresso, cioè dell’ideologia del progres­so. Una denuncia innervata dal­la memoria degli esiti anche tragici ai quali, pure nel secolo scorso, può portare la fede nel progresso.

Si tratta, nel complesso, di un giudizio negativo sulla con­temporaneità? E, più in gene­rale, la riflessione sulla speran­za è esercizio esclusivo del pen­siero cristiano?

Non c’è alcun indugio compia­ciuto sul negativo, semmai la critica conduce sempre, sino a trovare accenti commossi, al positivo, quasi che il Papa vo­lesse far incontrare il desiderio di pienezza dell’uomo con la Pienezza, e insieme ricordarci che le cose grandi e buo­ne non sono dell’individuo, ma dell’intera famiglia uma­na. Quanto al tema della speranza, esso è, per esempio, un tema forte kantiano («Che cosa posso sperare?» è una del­le quattro domande fondamentali dell’uomo secondo Kant). La Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, ecc.) si pone il problema della necessità e della difficoltà insie­me della speranza.

Insomma, anche la parte più laica della cultura contem­poranea dovrebbe fare conti attenti, e privi di pregiudi­zio, con questa enciclica.

È quello che mi auguro, soprattutto là dove assistiamo ad una sorta di implosione del desiderio a seguito della crisi della modernità, che ha ormai compreso di dover rinun­ciare all’illusione di avere una presa totale sulla storia. C’è naturalmente chi non è d’accordo, chi mantiene vecchie posizioni o chi rinuncia consapevolmente alle «grandi» do­mande dell’uomo Ma questo non vuol dire che il Papa de­monizzi la modernità e i suoi attardati seguaci: registra un fallimento e riapre una prospettiva.

L’enciclica contiene anche una critica al cristianesimo storico.

Infatti il Papa constata che il cristianesimo moderno si è spesso ridotto o rassegnato ad accettare un ruolo di reli­gione privata, portatrice di un annuncio di salvezza indi­viduale. Con ciò, aggiunge il Papa, si restringeva l’orizzonte della sua speranza, senza riconoscere adeguatamente la grandezza del proprio compito; compito di testimonian­za della speranza per l’uomo intero e per tutti gli uomini.

Questa enciclica contiene molte frasi suggestive, memo­rabili. Lei quali citerebbe?

Vorrei sottrarmi a questo gioco. Ma, se mi costringe, direi: «Non è la scienza che dà speranza all’uomo. L’uomo vie­ne redento dall’amore divino».

© Copyright Avvenire, 1° dicembre 2007

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