3 dicembre 2007

Speranza: La «Spe salvi» interroga la modernità (Sergio Givone per "Avvenire")


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La salvezza sorge dallo sguardo alle cose ultime

di Sergio Givone

Qual è il contenuto della speranza cristiana? In che cosa spera, chi crede? E in che cosa crede, chi spera? A queste domande il mondo moderno ha dato una sua risposta.
La speranza cristiana sarebbe essenzialmente una prefigurazione e un’anticipazione di quel progresso che la scienza da una parte e le rivoluzioni politiche dall’altra hanno perseguito.
Destinata dunque, la speranza cristiana, a seguirne la sorte.
Configurandosi come un fermento latente nella storia, ma non più di questo, là dove il progresso avanza. E facendosi evanescente e irrilevante, là dove il progresso fallisce. Se le cose stessero così, la speranza verrebbe amputata di qualcosa di essenziale. Non si capirebbe ad esempio perché il cristianesimo non ha mai derogato a un principio di fondo: e cioè che la speranza fosse da mettere in rapporto non solo e non tanto con le cose prossime, le cose della vita terrena, ma prima ancora con le cose ultime, le cose che hanno a che fare con la vita eterna e che dunque si collocano al di là del tempo e della storia.
Nella sua enciclica Spe salvi, Benedetto XVI afferma che speranza è equivalente di fede e dunque trova nella fede la propria 'sostanza' e il proprio 'argomento'. «Fede è sostanza di cose sperate / et argomento delle non parventi», scriveva Dante traducendo alla lettera san Tommaso. Questo significa che la realtà della speranza, la sua stella polare, ci porta ad affacciarci su un orizzonte di eternità.
Che cosa si mostri dall’al d là di questo orizzonte il Papa non esita a indicarlo: è il Giudizio finale, è la risurrezione dei morti, è l’inferno ed è il paradiso. Per l’appunto le cose ultime. Ossia quelle cose che la modernità ha relegato nel mitologico, considerandole superflue ai fini di una comprensione del proprio progetto storico di emancipazione. Secondo il Papa «nell’epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce». E ciò comporta tutta una serie di conseguenze. Due, in particolare. La prima è che la fede cristiana non sembra più saper guadare oltre la salvezza personale dell’anima, producendo una forma di egoismo miope che mortifica la speranza. La seconda è la diffusione di quel tipico moralismo ateistico che consiste nel contestare Dio di fronte alla realtà del male, incompatibile con la sua bontà. In entrambi i casi quella che viene a cadere è la domanda di giustizia e di redenzione che si leva dagli abissi della storia. Dove ogni speranza di salvezza sembra essere precipitata nel nulla e le invocazioni che di generazione in generazione gli uomini hanno rivolto al cielo si sono fatte mute. Se, come scrive il Papa, «nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli» e se «nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere non continui a spadroneggiare nel mondo», quale speranza resta? Nessuna speranza credibile, se la giustizia non sarà restituita al suo fondamento, e cioè alla separazione del bene e del male, vale a dire al Giudizio finale.
Nessuna speranza di salvezza, tolta la risurrezione dei morti, perché allora si dovrebbe dire che sono morti invano.
Nessuna speranza senza le cose ultime. Ma che cosa significa legare la speranza alle cose ultime? Implica forse una sorta di regressione antimoderna? Assolutamente no (anche se qualcuno sarà tentato di accusare il Papa di antimodernismo, come del resto è già accaduto in alcuni frettolosi commenti apparsi sui giornali ieri). Tant’è vero che gli argomenti che il Papa usa per ribadire la necessità di pensare la speranza alla luce delle cose ultime appartengono in tutto e per tutto alla filosofia moderna e contemporanea. Il Papa non esita a richiamare un passo di Horkheimer e Adorno, i maestri del 'pensiero negativo', là dove si dice che una vera giustizia esige un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato». E prima aveva citato Kant, i quale molto realisticamente prospettava una doppia fine di tutte le cose: una fine naturale, ma accanto a questa, una eventuale, e anzi possibile, possibilissima, fine 'perversa'. Che è come dire: davanti a noi, il paradiso e l’inferno. Cose ultime, ma anche cose nostre, cose di noi moderni.

© Copyright Avvenire, 2 dicembre 2007

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