8 ottobre 2008

Il Papa, le Borse e i soldi che non sono niente (Santambrogio)


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Su segnalazione di Eufemia leggiamo:

Il Papa, le Borse e i soldi che non sono niente

Luigi Santambrogio

E adesso che la polvere delle macerie di Wall Street comincia a entrare anche nelle nostre banche, facile che qualcuno, approfittando del panico delle Borse e delle intelligenze, prenda lo sgabello e dica: io ve lo avevo detto. Profeti della fine anticipata del capitalismo, quello etereo e virtuale dei listini senza corpo né volto, ideologi dello Stato controllore, guru della libera coltivazione del mercato e del denaro: tutti a dire che l’avevano previsto, scritto e pure recitato. Nella lista dei fattucchieri dello stock exchange, da oggi qualcuno potrebbe infilarci pure il Papa, Benedetto XVI.
Perché mai? Perché anche Ratzinger interviene sullo sfacelo sèguito alla crisi dei mutui americani, ricordando urbi et orbi che «i soldi scompaiono» e che «solo la parola di Dio è una realtà solida». Par di vederlo, Sua Santità, con quel sorriso ironico e furbetto, da tenace roditore delle vanità umane, dire ai pescecani del Nyse, ai capataz delle grandi banche d’affari e compagnia speculando: pensavate di continuare a cavare per l’eternità l’oro dalla paglia, ad illudere migliaia di risparmiatori ad affidarvi la loro vita e ricambiarli con un pungo di cents?

Ma lo Ior di Marcinkus?

Beh, cari brokers, manager e financial consulting della dirlindana azionaria, il giorno del giudizio è arrivato pure per voi. L’oro si è trasformato in sabbia, quella evangelica, e vi è scappata via dai buchi delle saccocce.
No, ma che ci stiamo inventando? Queste piccole vendette non sono nello stile di un Santo Padre. Papa Raztinger non è un Savonarola in ritardo e nelle sue parole non esiste neppure l’ombra di quella prosopopea circonfusa di economisti, analisti, esperti, borsisti dei titoli e della spesa, sempre pronti a dar consigli, moniti e dritte confidenziali.
Aprendo il Sinodo dei vescovi, il Papa ha detto. «Nel crollo delle grandi banche vediamo che i soldi scompaiono, sono niente. Solo la parola di Dio è una realtà solida».
Già, la sabbia e la roccia del Vangelo. Ma uno pensa: bravo, si fa presto a dire che i soldi non contano: Benedetto XVI lo vada a dire ai capi amministrativi del Vaticano, quelli che nella Chiesa tengono i cordoni della Borsa. Sbagliato anche questo. Per almeno tre motivi.

1). Cerchiamo di capire e non fare i furbi. Il Papa non dice affatto che i soldi servono a niente. Dice che «i soldi non sono niente».
C’è una bella differenza ed è quella che passa accileccando il mezzo con il fine, si diceva una volta. I soldi servono, eccome, alla dignità di un’esistenza nella sua interezza. Siamo spirito e corpo, idee e viscere: sarebbe negare la materialità della vita eliminare i mezzi necessari per passarla nel miglior dei modi possibili. Il Papa non ha mai condannato questo aspetto, diciamo così materiale: del resto, il cristianesimo si fonda tutto su Dio fatto carne e sangue dell’uomo. Il suo genio è nell’incarnazione struttura umana, elevata alle altezze della divinità. Il contrario, è lo spiritualismo delle anime belle, ma irreali ed evanescenti.
Obiezione, vostro onore: il Vaticano traffica sui mercati mondiali, ha banche, fa investimenti e affari. Vero. Ognuno di noi, ha i suoi traffici e solo gli incoscienti o i bugiardi dicono di non far nulla per aumentare, quel poco che sia, il capitale a disposizione. La Chiesa vive sull’8 per mille e la raccolta tra i fedeli, il Vaticano ha dei beni che vengono investiti nei circuiti internazionali della finanza. Certo, ci sono stati lo Ior, il cardinale Marcinkus, Calvi e, in passato, altro ancora e di peggio. Ma il Vaticano fu anche vittima di quegli scandali.
Comunque, non risulta che la Santa Sede abbia rapporti con i trafficanti di armi in Africa o con i narcos dei cartelli colombiani (qualche banca invece sì). Abbiamo invece molte informazioni, del denaro che vescovi e Papa inviano alle missioni in tutto il mondo, ai poveri e dimenticati, alle mille opere di carità e assistenza che la Chiesa in Italia gestisce. Senza fine di lucro. E dei soldi impiegati per il sostentamento del clero. Dunque, il Papa non si mette certo a dire che il denaro “è lo sterco del diavolo”. La moneta e anche le banconote servono, ma appunto sono solo lo strumento di un servizio. Non il fine, l scopo unico ed esclusivo della vita. Pure l’impassibile Dalai Lama avrà un suo conto corrente da qualche parte del mondo.

2). Dunque, Benedetto XVI ha ragione a invitare a non costruire sulla sabbia «la casa della propria vita», a non fondarla solo sulle «cose visibili e toccabili». Il Papa indica un’altra meta, sposta l’asta dell’ostacolo più in alto. Svela il nostro bisogno, afferma che la felicità e ciò che cerchiamo non sono rinchiusi in un titolo di Borsa. Che il desiderio di ricchezza è segno della ricerca di un significato non friabile come i future o junk bonds.

Realisti dell’impossibile

I soldi non danno la felicità, dice il proverbio, ma aiutano. Diffidiamo di chi afferma il contrario. L’appello del Papa non è alla rinuncia, a un finto pauperismo quaresimale, ma incita a chiedere e pretendere di più. Mica ci vuole tutti straccioni, Benedetto XVI: no, ci augura di guadagnare di più e di meglio. E, come un bravo e affidabile consulente, ci consiglia dove investire i nostri quattro euro. Questo significa «i soldi non sono niente».

3). Benedetto XVI definisce tutto ciò realismo: «realista è chi riconosce la realtà nella parola di Dio». Lecito dissentire, ma si può forse dire, sinceramente, che realisti erano quelli che vendevano mutui stracciati agli americani, erano realisti quelli che brocheravano sui listini con il denaro dei risparmiatori, quelli che pensavano che la pacchia finanziaria di un gioco senza regole e con rischi a senso unico? Una volta, qualcuno scriveva: «Siate realisti, chiedete l’impossibile». Che Ratzinger abbia copiato quel graffito sessantottino? O è il contrario?

© Copyright Libero, 7 ottobre 2008

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