12 ottobre 2008

Timothy Verdon: "L'analfabetismo biblico contemporaneo" (Osservatore Romano)


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L'analfabetismo biblico contemporaneo

di Timothy Verdon

Mentre la XII assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi medita la Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, può essere utile riflettere brevemente su ciò che si potrebbe chiamare "l'analfabetismo biblico contemporaneo", sulla perdita pressoché totale degli istinti e delle tecniche, cioè, che nei secoli hanno plasmato il modo cristiano di accostarsi alla sacra pagina.
Per rendersi conto della gravità di questa situazione, basta considerare i libri miniati prodotti nei monasteri medievali per l'uso liturgico. Il fruitore moderno che viene a contatto con simili tesori nell'ambito di una mostra o di un testo di storia dell'arte, forse non capisce neanche la distanza che oggi ci separa dal mondo che li ha plasmati: tra la nostra esperienza "libraia" e quella medievale ci sono infatti differenze così basilari che rischiamo di non avvertirle.
Nell'era dell'internet, già il concetto di "libro" comincia a sfuggirci, e alla luce di moderni studi biblici e liturgici l'idea tradizionale di un "libro sacro" similmente ha un peso diverso che in passato. In pratica, oggi è quasi impossibile concepire l'autorità sacrale che un testo biblico o liturgico aveva nel medioevo.
Lo stesso vale per le miniature che adornano il testo. Il nostro tempo, saturo d'immagini brillantemente colorate nelle riviste, sui giornali, in televisione - foto istantanee, riprese "in diretta", immagini fabbricate dal computer - non riesce a cogliere la sorpresa, la deliziosa freschezza di miniature dalle tinte limpide, splendenti d'oro tra fitte colonne di scrittura in un codice. Né abbiamo modo di ripristinare il rapporto intellettuale e affettivo sussistente tra l'immagine fissa e un testo antico, conosciuto, amato, creduto.
Eppure per più di mille anni di storia europea il contesto tipico dei libri era precisamente quello di una fede intensamente vissuta, profondamente meditata, e nutrita da testi così antichi da sembrare "eterni": testi che collocavano il lettore sul confine tra la propria situazione e realtà universali, il contesto liminale che possiamo definire semplicemente con il termine "preghiera". I libri liturgici servivano infatti alla preghiera comunitaria, e le bibbie alla lectio divina, che a sua volta era nutrita e in qualche modo plasmata dalla liturgia e dalla devozione.
Per "liturgia" intendiamo qui l'intero complesso di riti ecclesiastici, con - al suo centro - la liturgia eucaristica o "messa". I testi della messa, che variano secondo la festività o periodo dell'anno, effettivamente obbligano a una sorta di lectio divina comunitaria, a una duttilità, nell'interpretazione dell'evento o personaggio celebrato, che dobbiamo chiamare contemplativa. Ogni cosa viene continuamente riportata al mistico centro della fede cristiana, il sacrificio di se stesso che Cristo compì morendo in croce, e alla vita nuova della sua risurrezione. Perfino la notte di Natale i testi della messa obbligano a collegare la gioia di una nascita con il fatto drammatico della morte in croce; il corpicciuolo nella mangiatoia, il corpo dell'uomo adulto crocifisso, il Corpus Christi realmente presente nel pane eucaristico e il "Corpo Mistico" costituito dalla comunità raccolta in preghiera, diventano una sola cosa. Ecco perché nell'affresco della basilica di Assisi raffigurante san Francesco che pone il Bambino nella mangiatoia di Greccio, questa viene collocata sotto una grande croce e accanto all'altare.
Si tratta di un modo di "vedere" - comprendere - i rapporti di causalità tra eventi storici, metastorici e soprannaturali, diverso dal nostro: un modo di "vedere" - comprendere - che influiva sul modo di leggere e quindi anche d'immaginare e di raffigurare i contenuti dei testi. Prendiamo l'esempio di una splendida iniziale dipinta nel trecentesco breviario della biblioteca civica Queriniana di Brescia; è il "B" della prima parola del salmo 1 nel latino della Vulgata, "beatus": Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, "Beato l'uomo che non sta con i peccatori". I padri della Chiesa leggevano questo incipit in riferimento a Cristo, e così il miniaturista dell'iniziale "B" usa gli spazi aperti nella "B" per evocare l'intera vita di Cristo, con scene dell'annunciazione, della natività, della crocifissione e della sepoltura. Situando le parole B-eatus vir nell'iniziale e nel bordo sotto queste scene, l'anonimo artista associa la "beatitudine" del rapporto umano con Dio - il tema del salmo -, con Gesù il Cristo.
Lo stile antico di lettura aveva inoltre una dimensione parabolica che, nell'epoca di studi biblici "scientifici", rischiamo di perdere. L'antifona del Benedictus per le lodi della solennità dell'Epifania, ad esempio, collega in modo straordinariamente suggestivo i tre eventi biblici che, nella loro sequenza cronologica, insieme costituiscono la prima manifestazione di Cristo al mondo: l'arrivo dei Magi portando doni al neonato Gesù (Matteo 2, 1-12); il battesimo di Gesù trentenne nel fiume Giordano (Matteo 3, 13-17; Marco 1, 9-11; Luca 3, 21-22); e la mutazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni 2, 1-12). Ma, quasi avvertendo la difficoltà pastorale di far cogliere il rapporto tra questi eventi, l'anonimo autore dell'antifona inverte l'ordine cronologico e sovrappone le nozze al battesimo, dicendo: "Oggi - nella solennità liturgica dell'Epifania - lo Sposo celeste, Cristo, si unisce alla sua Chiesa che egli lava dal peccato nel Giordano, allusione, questa, al battesimo". Avendo in questo modo evocato il matrimonio di Dio con il suo popolo promesso dai profeti, nonché l'obbligo dello "sposo" di purificare la sua "sposa", lavandola (cfr. Efesini, 5, 25-27), l'autore inserisce poi i Magi, facendoli arrivare con doni come "invitati" alla festa nuziale, i cui commensali verranno infine rallegrati dall'acqua mutata in vino del primo miracolo di Cristo, avvenuto appunto a Cana: "Hodie caelesti Sponso juncta est Ecclesia, quoniam in Iordane lavit Christus ejus crimina: currunt cum muneribus Magi ad regales nuptias, et ex acqua facto vino laetantur convivae, alleluia!", "Oggi la Chiesa si congiunge al suo celeste sposo, perché Cristo la purifica dei suoi crimini nel Giordano. Con i loro doni, i Magi corrono alle regali nozze, e gli invitati si rallegrano per l'acqua mutata in vino, Alleluia!".
Sono la prima parola dell'antifona e l'ultima a spiegare questo stile di lettura: "Hodie" e "Alleluia!". Qui i testi neotestamentari sono stati interpretati alla luce della liturgia, voglio dire, e nella liturgia cambia il senso del tempo così che eventi passati e perfino tra loro sequenziali vengono vissuti in maniera estatica nell'unico "oggi" di Dio, con l'effetto di trasformare impossibili sovrapposizioni storiche in misteri compresenti e interpenetranti. Ogni evento getta luce su ogni altro evento, nell'unico progetto del Padre rivelato dalla vita-morte-risurrezione di Cristo: ecco la forma mentis sottostante innumerevoli immagini cristiane, dalle catacombe al xxi secolo.
Sia l'iniziale miniata che l'antifona dell'Epifania sono poi frutti dell'immaginazione monastica, e questa origine è di fondamentale importanza. Il monachesimo è in sé un'opera d'arte: rende "visibile" e "tangibile" un'intensità particolare della vita cristiana, perché il monaco vuole essere, come Cristo, icona o immagine della bellezza di Dio; e il monastero è quel luogo in cui, con l'aiuto di confratelli che condividono la stessa visone interiore, l'opera può essere tranquillamente perfezionata, una sorta di atelier dell'anima. La più diffusa formulazione occidentale della vita monastica, la Regula monachorum di san Benedetto di Norcia (c. 480 - c. 547), invoca esplicitamente quest'analogia quando paragona il monastero alla bottega di un artigiano, caratterizzando l'intera vita dei monaci come un processo creativo (Regula Benedicti, 4, 75-78). Quest'affermazione fa eco poi a una tradizione più antica, che immaginava la vita di ogni credente impreziosita "dell'oro delle buone opere (...) e con i mosaici della fede perseverante" (Homelia, 6 "De predicatione"). Ciò che differenzia i monaci dagli altri cristiani, almeno nel pensiero di san Benedetto, è la misura dell'impegno: i monaci investono la totalità delle loro energie umane nel progetto spirituale, avendo per "attrezzi" i precetti morali della vita cristiana, instrumenta artis spiritalis (RB, 4, 75).
Anche se il senso di queste frasi è chiaramente metaforico, non stupisce che la metafora si sia trasformata in realtà e che i monasteri siano diventati centri propulsori delle arti, come del resto san Benedetto s'aspettava (cfr. capitolo 57 della Regola, su "Gli artigiani nel monastero"). Un clima di creatività in un settore dell'esperienza suscita analoga creatività in altri settori, e la vita monastica inoltre favorisce la produzione dell'arte sacra perché, escludendo distrazioni profane, permette all'artista di immergersi nelle Scritture e nelle azioni sacramentali che danno colore e forma alla sua fede, garantendogli inoltre un "pubblico" devoto e preparato.
Nella storia del cristianesimo, i frutti culturali del monachesimo non sono stati poi limitati ai monaci, dal momento che il silenzio e la vita ritirata dei monasteri, invece di allontanare la massa dei fedeli, l'hanno attirata, e la storia monastica conferma il fascino che i monaci hanno sempre suscitato in larghe fasce della società. Molto prima che Alcuino insegnasse o Anselmo scrivesse, i cittadini di Alessandria in Egitto si recavano nel deserto per ascoltare sant'Antonio abate e i romani portarono i loro figli a san Benedetto. Anche quando l'età d'oro della cultura monastica incominciò ad attenuarsi, a partire dal xiii-xiv secolo, l'ideale di una solitudine colma di preghiera sarebbe rimasta come paradigma per gli ordini religiosi attivi del tardo medioevo e per i laici a cui essi predicavano.
Non si esagera affermando che le conquiste formali dei monaci - la loro arte e architettura, le pratiche liturgiche e devozionali, le strutture organizzative e i metodi educativi, agricoli e mercantili - abbiano plasmato la coscienza culturale d'Europa. Più ancora, la vita monastica stessa, considerata come scelta sociale creativa e libera, si è profondamente impressa nell'immaginario dei cristiani, fino al punto che alcune tra le più fondamentali aspirazioni della nostra civiltà sono leggibili solo alla luce della "impresa" monastica.
In tutto questo, è importante cogliere il duplice ruolo dell'immaginazione. Da una parte la vita monastica richiede uno sforzo d'immaginazione in chi l'abbraccia diventando monaco; dall'altra, richiede uno sforzo immaginativo in chi non si fa monaco, nella società cristiana in genere, voglio dire. L'uomo o donna che rinuncia ai bona legittimi della vita, ritirandosi per cercare Dio nel silenzio e nella preghiera, ha bisogno di una notevole capacità di "immaginazione" sociale e morale per perseverare nel credere in "quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, ma che Dio ha preparato per coloro che l'amano" (1 Corinzi, 2, 9): questo passo è infatti citato in RB 4, 77. Soprattutto nel rapporto a volte problematico con i confratelli, oltre alla fede è anche l'immaginazione a permettere al monaco di sentire che "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matteo, 25, 40; cfr. RB 36, 3).
Per un analogo atto d'immaginazione, coloro che non entrano in monastero hanno scelto, attraverso i secoli, di considerare i monaci "sapienti" e "profeti" piuttosto che pericolosi dissidenti in margine alla società. Dalle migliaia di persone che andarono dall'abate Antonio nel deserto egiziaco, chiedendo una sua "parola", alle centinaia di migliaia che oggi leggono Thomas Merton o Enzo Bianchi, i cristiani hanno creduto che la solitudine dei monaci non implichi disprezzo per gli altri, e che dal loro silenzio possa scaturire una sapienza al servizio dell'uomo.
Commovente nella sua semplicità, questa fiducia suggerisce la più importante funzione del monachesimo nella vita immaginativa dei cristiani, quella di "simbolo" che investe di santità ciò che gli viene avvicinato. I visitatori a un monastero, come i monaci stessi, hanno l'impressione che, nel raccoglimento contemplativo del chiostro, i luoghi e gli oggetti assumono qualcosa della "intenzionalità" e dedizione degli abitanti di quei luoghi. Gli oggetti, anche umili, a un tratto vengono percepiti come segni che dischiudono la solidarietà tra l'uomo e il sacro, gradini in una scala che sale dalla terra al cielo. Proprio in questo spirito, san Benedetto dice che perfino gli attrezzi comuni del monastero vanno trattati come se fossero vasi sacri per la liturgia (RB 31, 10).
Si tratta di un modo di vedere sacramentale, in cui la superficie delle cose si fa trasparente per rivelare una prospettiva infinita, investendo le immagini di efficacia. Una raffigurazione dell'Ultima Cena in un refettorio monastico, come quella di Leonardo a Santa Maria delle Grazie, non è solo "decorazione", ma un oggetto funzionale che comunica e nutre la fede da cui nasce. Le scelte operative nella genesi formale dell'opera, che normalmente rientrano nell'ambito della storia dell'arte, qui s'intrecciano con altre scelte, non estetiche, ma esistenziali.

(©L'Osservatore Romano - 12 ottobre 2008)

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