1 dicembre 2007

Enciclica "Spe salvi": il commento del Vicedirettore dell'Osservatore Romano, Carlo Di Cicco ("Ritorno alla speranza")


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Ritorno alla speranza

C'è qualcosa di antico, anzi di nuovo nell'enciclica che Benedetto XVI dedica alla speranza. Speranza come voglia di volere e potere fuoriuscire dalle paure esistenziali di ogni specie; speranza cristiana che si fonda sulla promessa di Dio di un futuro dove ogni lacrima sarà asciugata, accessibile a ogni persona grazie alla morte e risurrezione di Cristo.
La capacità di Joseph Ratzinger di innovare la tradizione viene di frequente e a torto scambiata per culto di una tradizione senza vita. E così può accadere che anche la sua riflessione sulla speranza possa venire letta come un ulteriore tentativo di egemonia del cristianesimo su ogni altra esperienza religiosa e culturale. Ma la preoccupazione prima di Papa Benedetto non è di recuperare alla Chiesa, intesa come popolo sedotto dal Vangelo di Gesù di Nazaret, un predominio. Con la vita virtuosa nella gioia pur dentro le fatiche quotidiane, i cristiani manifestano che Dio è importante perché cambia la vita. Levando Dio dal centro del pensiero ratzingeriano si fatica a cogliere la sua forte sollecitudine per l'uomo.

Scritta prima dell'estate, senza che nulla trapelasse, quasi come bisogno interiore di rispondere a sé prima che ad altri sul senso dell'essere cristiani capaci di comunicare qualcosa di interessante per l'uomo contemporaneo, Benedetto XVI ha collocato una lettera sulla speranza accanto a quella sull'amore. L'amore senza speranza diventa tragico. Per questo si è affrettato a scrivere che l'amore ha un futuro perché il futuro, come il cielo, non è vuoto e sordo.

E l'enciclica ricorda che la speranza cristiana non è morta, ma ha varcato il tragico novecento. Modernità e cristianesimo debbono tornare alla speranza. Si tratta di una speranza esigente, che può e deve mettere in crisi una certa modernità autoreferenziale, come pure le comunità cristiane ripiegate su attivismo e organizzazione fino a oscurare la trasparenza del messaggio evangelico.

Se la parola di Dio non trasforma la vita, scade a semplice informazione di gloriosi eventi passati. Benedetto XVI lo ricorda continuamente. L'enciclica è uno sprone anzitutto per i cristiani, prima di diventare una proposta per quanti non credono in un Dio che salva.

Il Papa ripete una sua convinzione: pure oggi non è facile capirsi tra fede e ragione, tra modernità e cristianesimo, perché è stata accantonata la speranza e si è persa di vista la promessa di un futuro diverso.
Se si scorre la bibliografia - breve in verità - del volume Gesù di Nazaret, firmato dal Papa, tra gli autori compare inaspettatamente il nome di Jurgen Moltmann, il teologo evangelico che ha scritto la Teologia della speranza. Questo autore, ormai celebre, richiama i cristiani a tornare a una visione che valorizza il presente della storia a partire dalle cose ultime. È il teologo che ha dialogato con Bloch, autore riflessivo sulle speranze storiche per società più giuste. Nella speranza cristiana di futuro - afferma Moltmann - i morti di Verdun, Auschwitz, Stalingrado, Hiroshima ci aspettano. Benedetto XVI, richiamando la giovane schiava sudanese Bakhita, e il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin, allarga la certezza del riscatto alle moltitudini diseredate, oltre i confini dell'Europa.
Joseph Ratzinger ha una visione del cristianesimo fondata sulla certezza della promessa di Dio che si compirà nella storia perché garantita dalla sua realizzazione anticipata in Gesù di Nazaret, figlio di Dio. Il nostro presente cambia di prospettiva e sprigiona ragioni di vita perfino dentro la sofferenza, perché c'è un compimento certo, possibile a tutti. Dio agisce fuori dal tempo calcolato con i nostri orologi.
Ogni uomo e ogni donna, a prescindere dalla rilevanza del ruolo sociale e dal tempo che vivono, possono contare sull'interessamento di Dio per ciascuno di essi. Un Dio giusto e amorevole. Che terrà conto del loro operare, del loro soffrire, del pianto e della gioia, delle colpe e delle responsabilità dell'esistenza.
I teologi e i filosofi che si sono posti l'urgenza della riflessione sulle cose ultime per rischiarare il presente, sono tra quanti hanno cercato di dare risposte plausibili alle domande della modernità originate sia dal progresso della scienza, sia dallo sconcerto prodotto dalla capacità distruttiva manifestata in misura impressionante dagli uomini nei due grandi conflitti mondiali. Ratzinger è tra questi pensatori. Egli è ricordato dagli esperti come uno dei teologi di spicco dell'identità cristiana.
L'ha sostanziata però con l'apertura alla ricerca e alla comprensione dell'altro. Con l'immortalità dialogica tenta di rispondere a chi cerca un senso oltre la morte.
Considerata in questo contesto, l'enciclica è una opportunità di colloquio tra fede e ragione perché entrambe devono reciprocamente purificarsi. È una spinta a considerare insieme, credenti e non, le vie migliori per liberare l'uomo dai tanti lacci che ne ostacolano la felicità. Nella consapevolezza che la soglia della morte segna il confine ultimo del potere dell'uomo. Il dopo è davvero grazia. Dono gratuito, non di un essere astratto e senza volto, ma - direbbe Benedetto XVI - di un Dio che si è rivelato a noi nel volto umano di Gesù di Nazaret.

(c.d.c.)

(©L'Osservatore Romano - 2 dicembre 2007)

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