1 dicembre 2007
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Ha suscitato interesse e commenti in tutto il mondo la nuova Enciclica di Benedetto XVI, intitolata “Spe salvi”, firmata ieri dal Papa e presentata in Sala Stampa vaticana. Una sorta di Lectio divina sulla speranza. Ieri ne abbiamo dato un’ampia sintesi, ma tanti sono gli spunti che meritano di essere approfonditi. Ripercorriamo alcuni temi dell’Enciclica in questo servizio di Sergio Centofanti.
Anche in questa sua seconda Enciclica il Papa parte dalla Parola di Dio. Nella Messa d’inizio Pontificato, il 24 aprile 2005, Benedetto XVI aveva detto chiaramente: “Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia”.
La Parola che il Papa mette al centro dell’Enciclica è tratta dalla lettera di San Paolo ai Romani e ci dice che “nella speranza siamo stati salvati”: cioè, scrive il Pontefice, “non possiamo ‘costruire’ il regno di Dio con le nostre forze … Il regno di Dio è un dono … E non possiamo ‘meritare’ … il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, così come l’essere amati non è mai una cosa ‘meritata’, ma sempre un dono. Tuttavia – aggiunge – il nostro agire non rimane indifferente davanti a Dio … Possiamo aprire noi stessi e il mondo all’ingresso di Dio: della verità, dell’amore, del bene. E’ quanto hanno fatto i santi che, come ‘collaboratori di Dio’, hanno contribuito alla salvezza del mondo”.
Eppure, spesso l’uomo cerca di salvarsi da solo: il Papa non cita solo le grandi ideologie che hanno assolutizzato ora la libertà, ora la giustizia, o l’idolatria del progresso tecnico-scientifico che promette all’uomo il dominio sulla natura, ma va più in profondità. L’uomo “in fondo” vuole “una sola cosa” la felicità: anche se ignora esattamente cosa sia, sa “che deve esistere” e ad essa si sente spinto. Dunque in questo sapere e non sapere, in questa “dotta ignoranza” “l’uomo ha … molte speranze” e talora “può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente”. Ma quando la raggiunge “appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito”. “L’uomo – scrive il Papa – è stato creato per una realtà grande – per Dio stesso, per essere riempito da Lui”. Dunque “questa grande speranza può essere solo Dio”: e noi da soli non la “possiamo raggiungere”.
Eppure, l’uomo talora vuole costruire “un regno di Dio realizzato senza Dio”, “una comunità umana perfetta” che superi “tutte le dipendenze” e raggiunga la “libertà perfetta”: ma “questa speranza fugge sempre più lontano” di fronte alla fragilità della nostra condizione. E così nasce la paura. La paura di perdere continuamente ciò che fonda le nostre speranze. L’uomo che ha tanti dèi, ma non ha Dio, si trova così “in un mondo buio” e “davanti a un futuro oscuro”.
Il Papa lo ribadisce: non ci possiamo dare da soli la speranza. “La vera grande speranza, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora sino alla fine”. Solo la relazione con questo amore assoluto e sicuro ci salva “qualunque cosa accada”. Perché niente e nessuno ci può separare dall’amore di Dio, rivelato in Cristo.
Per questo Benedetto XVI cita come primo testimone della speranza, esempio per tutti, una schiava africana, Giuseppina Bakhita: inerme, senza alcun potere né avere, dei suoi terribili padroni conservava ben 144 cicatrici. Da sé non poteva darsi nulla. Quando ha incontrato Cristo, “il Signore di tutti i signori”, era così povera di speranza da poter essere riempita completamente dal suo amore. Giovanni Paolo II ha proclamato Santa questa sconosciuta schiava africana liberata dall’amore Dio.
La speranza - diceva Charles Péguy - ci appare ben piccola di fronte alle altre due virtù teologali, ma in realtà è proprio lei a trascinare la fede e la carità. Ascoltiamo in proposito il cardinale Albert Vanhoye, che ieri ha partecipato alla presentazione dell'Enciclica in Sala Stampa. L'intervista è di Fabio Colagrande:
R. - La speranza dà una spinta, dà uno slancio che non può essere dato né dalla fede né dall’amore perché senza la speranza l’amore rimane un po’ paralizzato e la fede rimane piuttosto astratta. Invece con la speranza, la fede prende tutta la sua consistenza e la nostra fede diventa viva e se c’è la speranza l’amore diventa attivo e trasforma il mondo.
D. – Un’Enciclica che parla ai cristiani o soprattutto a coloro che vivono avendo dimenticato Dio, a coloro che hanno dimenticato questa speranza?
R. – L’apertura dell’Enciclica è molto molto ampia. E’ chiaro che è una grande catechesi sulla speranza valida per tutti ma d’altra parte è anche chiaro che il Santo Padre, scrivendo questa Enciclica, ha pensato a tanta gente la cui fede è piuttosto “tiepida” e anche alla gente che non ha fede ma che può essere attirata dalla fede vedendo tutta la bellezza della speranza cristiana.
D. - Il Papa ci chiede di fare un’autocritica: abbiamo dimenticato come credenti cos’è la speranza…
R. – Un punto molto chiaro sul quale ciascuno deve fare la sua autocritica, deve vedere se la propria speranza è individualistica o veramente unita all’amore. Questo è una costante dell’Enciclica: la speranza cristiana non è individualistica, è una speranza comunitaria, una speranza anche per gli altri che spinge a soffrire con chi soffre, e per mettere nella sofferenza altrui questo magnifico apporto della speranza cristiana.
L'Enciclica di Benedetto XVI ha suscitato interrogativi e riflessioni anche da parte di testate di ispirazione laica. Fabio Colagrande ha raccolto il commento di Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio:
R. – Mi pare che il punto di partenza del Papa sia questo: nel mondo moderno la speranza non c’è più, ma c’è l’aspettativa, che è un concetto diverso: l’aspettativa di vita, l’aspettativa di buona salute, l’aspettativa del benessere. Al posto della speranza abbiamo, quindi, messo una sorta di previsione, ma non si può vivere di previsioni, non si vive di sola vita, si vive di qualcosa che va oltre la vita. Questa vita, che i cristiani conoscono bene – perché per loro si tratta di una virtù teologale – si chiama speranza ed è ciò di cui, in fondo, il mondo moderno ha più bisogno e di cui sente più la mancanza. Il Papa ha aggredito, benevolmente e fraternamente, il cuore dei moderni sul terreno più friabile per loro, sul terreno sul quale desiderano di più credere, sperare ed amare e ci riescono invece meno.
D. – Nella "Spe salvi" la speranza cristiana diventa la possibilità di redenzione dell’uomo rispetto alla incompiutezza delle rivoluzioni del Novecento, quella francese e quella marxista. Come considera questa rilettura storica?
R. – Geniale. Il passaggio fondamentale mi sembra quello in cui dice: ma come avete mai potuto pensare che una struttura sociale risolva il problema del bene, quando resiste e resisterà sempre la libertà dell’uomo e, dunque, essenzialmente la libertà dell’uomo di scegliere tra il bene e il male? La critica al materialismo di Marx, che pure il Papa apprezza perché ne capisce fino in fondo il vigore – come dice lui – di giudizio analitico, è sul fatto che abbia creduto che le strutture economiche avrebbero risolto il problema del bene, del bene comune: ecco questo è un errore del materialistico.
D. - Come verrà accolto, secondo lei, questo invito ad una autocritica che Benedetto XVI rivolge all’età moderna?
R. – Da un lato verrà accolta con condiscendenza e con una punta di risentimento, dall’altro – però – verrà accolta come l’irruzione misteriosa di un pensiero forte, che ci riguarda, che parla della fatica del vivere. E’ un richiamo portentoso e, quindi, un segno fortemente improntato al carattere razionale e filosofico che c’è anche nel cristianesimo; è un richiamo alla retta vita, alla buona vita, ad elementari sentimenti che puntano su una vita che abbia un significato.
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2 commenti:
Che stupore e che bellezza questa enciclica che il Papa ci ha donato; fa rinascere il cuore lo spirito e la ragione. Chissà se non verrà letta (?) con entusiasmo e poi lasciata cadere nel dimenticatoio da chi si prende cura delle nostre anime... Chi è abituato a fare sociologia sull'altare faticherà a parlare di inferno, purgatorio, paradiso che ci attendono dopo la morte quando ci si è dato tanto da fare per "spostare" queste realtà ultime sulla fragile terra, rendendole "utopiche" e allontanandole dalla nostra quotidiana esperienza umana. Grazie Santità per la Sua carità! Ruth
Purtroppo cara Ruth hai ragione....... molti sacerdoti che si improvvisano psicologi ed hanno ridotto la vita dell'uomo solo a quella terrena, faranno una gran fatica a ricominciare a parlare di inferno, purgatorio e paradiso perchè oltre ad essere visioni utopiche, sono anche argomenti che ormai sono considerate favole per spaventare i bambini....... quanto si sbaglia mia cara Ruth e quanto si deve imparare da quest'uomo che ogni giorno ci da uno strumento per avere ancora una speranza nella vita.
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