1 dicembre 2007
Enciclica "Spe salvi": il commento de "La Stampa"
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CITTÀ DEL VATICANO
E’ la giustizia «l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna»: Benedetto XVI nella sua nuova enciclica «Spe Salvi» (Nella speranza siamo stati salvati), un’opera dedicata alla speranza cristiana, esprime un forte pessimismo sulle possibilità umane di giungere a qualche forma di salvezza e redenzione, e fornisce un nuovo affresco dell’Ultimo Giorno. Paradiso, Purgatorio e Inferno sono reali, secondo papa Ratzinger; ma l’immagine «del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza», perché «è impossibile che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola».
E di ingiustizie e fallimenti, scrive il Papa, è piena la storia. A partire dalla Rivoluzione Francese, nel suo tentativo di «instaurare il dominio della ragione e della libertà anche in modo politicamente reale». L’Europa, inizialmente affascinata, ha poi dovuto «di fronte ai loro sviluppi riflettere in modo nuovo su ragione e libertà». Poi c’è stato Marx, e la rivoluzione russa: «ma con la sua vittoria si è reso evidente anche l’errore fondamentale di Marx», pensare che con l’espropriazione dei mezzi di produzione «si sarebbe realizzata la Nuova Gerusalemme». Lenin vide che negli scritti del maestro «non si trovava nessuna indicazione sul come procedere», e quello che è rimasto è «una distruzione desolante», perché Marx ha dimenticato che «l’uomo rimane sempre uomo» e che «la libertà rimane sempre libertà, anche per il male».
E poi c’è stata la fede nel progresso. Benedetto XVI chiede aiuto a Theodor Adorno secondo cui «il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba». Si aprono possibilità grandi per il bene, ma anche «possibilità abissali di male». E allora, afferma il Papa, «se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana». L’uomo non basta: «Non vi è dubbio, pertanto, che un “regno di Dio” realizzato senza Dio – un regno quindi dell'uomo solo – si risolve inevitabilmente nella « fine perversa » di tutte le cose descritta da Kant: l'abbiamo visto e lo vediamo sempre di nuovo». Così come sbagliava Francesco Bacone «nel ritenere che l’uomo sarebbe stato redento mediante la scienza»; la scienza è fondamentale, ma «non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore».
Ce n’è anche per i cristiani, nelle 77 pagine della «Spe Salvi». Nell’autocritica dell’età moderna, scrive il Papa teologo deve confluire «anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici», a essere convinti e convincenti nel dire che «la vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio». Un Dio che giudica, e dispensa grazia, nell’ultimo giorno. E si giunge al problema dell’Inferno, che alcuni volevano, in passato vuoto. Secondo Benedetto XVI, non è così: «Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno».
© Copyright La Stampa, 1° dicembre 2007
La storia
Documenti invettive e scomuniche
Da Pio IX a Karol la guerra santa al sol dell’avvenire
FILIPPO DI GIACOMO
Pochi giorni prima della visita di Giovanni Paolo II a Cuba, nel 1998, Fidel Castro ne era sicuro: per trovare gli ultimi, residui, veri comunisti o si cercava nella sua isola o si rovistava un po’ nella Chiesa. Non una battuta quella del «líder máximo», ma una citazione. L’aveva scritto qualche giorno prima, un acido columnist di faccende estere del «New York Times». La vista del Papa globe trotter nella tana del lupo castrista nella considerazione degli Usa, non ha mai superato il livello di grande spot pubblicitario a favore di un regime comunista esangue. Eppure, l’abbraccio che Giovanni Paolo II scambiò con Fidel Castro, era sincero.
Anche se, più di qualche suo predecessore si sarà rivoltato nella tomba. Pio IX, ad esempio, che nel 1849 con l’allocuzione «Quibus quantisque» tuonò così: «Le domande di nuove istituzioni ed il progresso tanto predicato da tali uomini mirano unicamente a tenere sempre vive le agitazioni, a eliminare ogni principio di giustizia, di virtù, di onestà, di religione; e ad introdurre, a propagare ed a far largamente dominare in ogni luogo, con gravissimo danno e rovina di tutta la società umana, l’orribile e fatalissimo sistema del Socialismo, o anche Comunismo, contrario principalmente al diritto ed alla stessa ragione naturale». Papa Mastai era certo che socialismo e comunismo fossero emanazioni dirette della Massoneria internazionale, soprattutto di quella francese e tedesca.
Con questo convincimento nell’animo, nel 1878, Papa Leone XIII definì il comunismo «la piaga fatale che si insinua nel midollo della società umana, solo per provocarne la rovina». E per cauterizzare la piaga, il 15 maggio del 1891 iniziò, con l’enciclica «Rerum novarum», a indirizzare i cattolici verso la dottrina e l’impegno nella società e nella politica. Formalmente, l'enciclica di Papa Pecci espresse una condanna nei confronti del sindacalismo, del socialismo, della teoria della lotta di classe, della Massoneria e del movimento operaio contemporaneo, preferendo che la questione sociale venisse risolta dall'azione combinata di Chiesa, Stato, impiegati e datori di lavoro. Nella sostanza, Leone XIII usò l’enciclica per fondare la moderna dottrina sociale cristiana inserendo nel suo Dna quella grande capacità di mediazione che, nel corso dei decenni, è stato l’asso nella manica dei cattolici impegnati nei campi sociali e politici.
Quando venne pubblicata, la «Rerum novarum» trovò il movimento cattolico diviso in varie correnti nei confronti del capitalismo avanzante: c'era chi voleva un avvicinamento al movimento socialista, per tentare di mediare sull'ateismo professato dai marxisti, chi auspicava una sostanziale benedizione del progresso e del commercio. Chi come i corporativisti, voleva un ritorno alle istituzioni economiche medievali, allo scopo di ricomporre la tensione sociale. L'originalità dell'enciclica si ritrova nella mediazione: il Papa, ponendosi esattamente a metà strada fra le parti, ammonì la classe operaia affinché non desse sfogo alla propria rabbia attraverso idee di rivoluzione e di odio verso i più ricchi, e chiese ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti e di abbandonare lo schiavismo cui sottoponevano gli operai.
Insomma: i Papi hanno provato a tendere la mano verso i comunisti. Con pochi successi. Quando il 19 marzo del 1937 papa Pio XI (già autore di nove pronunciamenti anti marxisti: il più prolifico sulla materia) pubblicò l’enciclica «Divini Redemptoris», Lenin, Stalin, la Spagna repubblicana e l’incipiente partito cinese avevano già convinto la Chiesa che «il comunismo è intrinsecamente sbagliato, e nessuno che voglia salvare la civiltà cristiana può collaborare con esso». La «bestia nera» dei comunisti del secolo scorso tanto per cambiare fu Pio XII, autore della scomunica del 1949. In realtà, Papa Pacelli e i suoi successori si attennero sempre al pensiero di Pio XI. Poi è arrivato Giovanni Paolo II, che di comunismo se ne intendeva veramente. E la storia è cambiata.
© Copyright La Stampa, 1° dicembre 2007
E come colleghiamo il lavoro dei predecessori alla "Spe salvi" di Benedetto?
R.
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