3 ottobre 2008

"Come fedele indù provo vergogna...". Un autorevole discepolo di Vivekananda rompe il generale silenzio sulle violenze in India (Magister)


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Su segnalazione delle nostre Alessia e Mariateresa leggiamo:

"Come fedele indù provo vergogna..."

Un autorevole discepolo di Vivekananda rompe il generale silenzio sulle violenze in India. Prende le difese dei cristiani e accusa i loro aggressori di tradire lo spirito dell'induismo

di Sandro Magister

ROMA, 3 ottobre 2008

In poco più di un mese, le vittime dell'ondata di violenze anticristiane iniziata il 24 agosto in India sono salite a 60. Alle quali vanno aggiunti più di 18.000 feriti, 178 chiese distrutte, oltre 4.600 case bruciate e 13 scuole e centri sociali devastati. Almeno 50.000 cristiani sono inoltre fuggiti dai propri villaggi cercando riparo in campi profughi e nelle foreste.
Questo allarmante bilancio è stato fornito due giorni fa dall'All India Christian Council. Invece che diminuire, gli attacchi da sporadici sono diventati sistematici, quasi quotidiani, e si sono estesi in vari stati, coinvolgendo, oltre all'Orissa, il Kerala, il Karnataka, l'Andra Pradesh, il Madhya Pradesh, il Chattisgarh e il Tamil Nadu.
Induisti fanatici hanno preso di mira soprattutto i villaggi rurali, accusando i cristiani di fare proselitismo forzato tra i ceti poveri, i tribali e i fuori casta. Ma che l'accusa sia pretestuosa è dimostrato dai censimenti ufficiali, che danno il cristianesimo non in crescita ma in decrescita. In India, i cristiani erano nel 1971 il 2,6 per cento della popolazione, nel 1981 il 2, 44, nel 1991 il 2,32 e nel 2001 il 2,3, con segnali di ulteriore diminuzione negli anni successivi.

Più che le conversioni, ciò che scatena le violenze è l'azione dei cristiani a sostegno dei ceti poveri che costituiscono la base schiavistica del sistema piramidale sul quale è tradizionalmente organizzata la società indù. La vera "colpa" dei cristiani è di predicare e praticare l'uguale dignità di tutti, contro il sistema delle caste.

In ripetuti appelli i vescovi cattolici dell'India hanno denunciato "l'apatia e l'indifferenza del governo, a livello centrale e nei singoli stati", nel fermare le aggressioni ai cristiani. Le misure di sicurezza sono apparse ogni volta tardive e sporadiche. Altrettanta apatia può essere imputata ai governi stranieri, ampiamente disinteressati a ciò che accade contro i cristiani dell'India.

Ma non meno gravi sono il silenzio e l'inazione dei leader religiosi e intellettuali indù. Le voci che si sono levate in difesa dei cristiani e della pace interreligiosa sono rare.

Qui di seguito è riportato uno di questi interventi, apparso il 28 settembre 2008 sul quotidiano in lingua inglese "Times of India".

L'autore, Shashi Tharoor, è di fede induista. Saggista e scrittore affermato, è stato candidato nel 2006 a segretario generale delle Nazioni Unite, dopo aver ricoperto nel Palazzo di Vetro la carica di sottosegretario. Ha studiato in scuole cristiane e si è laureato in legge e diplomazia alla Fletcher School della Tufts University, negli Stati Uniti. Scrive su importanti testate, come il "New York Times" e "Newsweek". È editorialista del "Times of India".
Non sorprende che il cardinale Jean-Louis Tauran abbia dato la priorità all'induismo nella prossima agenda del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, di cui è presidente.

I fondamenti dell'india sono sotto attacco

di Shashi Tharoor

Ci sono fondamentalmente due tipi di politica in India: la politica della divisione e la politica dell'unità. La prima è di gran lunga la più diffusa, con politici che fanno a gara nel tagliare e spezzettare l'elettorato in sempre più piccole configurazioni di casta, di lingua e di religione, nel migliore dei casi per chiamare tali identità particolaristiche a portare i loro voti.
Ma ciò che è accaduto nelle scorse settimane nell'Orissa e poi nel Karnataka, e che minaccia di scatenarsi nei distretti tribali del Gujarat, è un ulteriore degrado della nostra vita politica. Le aggressioni alle famiglie cristiane, le devastazioni vandaliche dei loro luoghi di preghiera, la distruzione delle case e dei mezzi di sussistenza, gli stupri brutali, le mutilazioni e le persone bruciate vive di cui si è avuta notizia, non hanno niente a che fare con le credenze religiose, né quelle delle vittime, né quelle degli aggressori. Tutto ciò è invece parte di uno spregevole progetto politico il cui più vicino equivalente può essere trovato nelle bombe fatte esplodere da mujahiddin indiani a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, in ospedali, in mercati e in campi di gioco. Entrambi gli atti sono antinazionali; entrambi mirano a dividere il paese contrapponendo le persone secondo le rispettive identità religiose; ed entrambi calcolano di ricavare profitto politico da una simile polarizzazione.
Abbiamo il dovere di non lasciare che l'una o l'altra forma di terrorismo vinca.
Le bande criminali dell'Orissa cercano di uccidere i cristiani e di distruggere le loro case e chiese per terrorizzare la gente e per trasmettere il messaggio: "Questo non è il tuo posto". Come siamo arrivati a far sì che una terra che è stata rifugio di tolleranza per le minoranze religiose nel corso della sua storia sia caduta così in basso? Quella dell'India è una civiltà che, per millenni, ha offerto riparo e soprattutto libertà religiosa e culturale a ebrei, parsi, musulmani e cristiani di tante confessioni. Il cristianesimo è arrivato in india con san Tommaso apostolo, il famoso Tommaso "del dubbio". Egli approdò sulle coste del Kerala prima del 52 dopo Cristo e fu accolto sulla riva dal suono del flauto di una fanciulla ebrea. Egli fece molti convertiti, così che oggi vi sono degli indiani i cui antenati divennero cristiani molto prima che tanti europei scoprissero il cristianesimo, e anche prima che i banditori dell'odierno sciovinismo indù prendessero coscienza di essere essi stessi indù. L'India in cui il richiamo del muezzin abitualmente si mescola col canto dei mantra nei templi, e in cui il rintocco delle campane delle chiese accompagna la recita dei versi del guru Granth Sahib, è l'India di cui tutti possiamo essere fieri. Ma c'è anche l'India che ha raso al suolo la moschea di Ayodhya, che ha scatenato i pogrom nel Gujarat e che ora rovescia il suo odio su quel 2 per cento di popolazione che è fatto di cristiani.

Come fedele indù provo vergogna per ciò che stanno facendo persone che dichiarano di agire a nome della mia fede. Sono sempre stato orgoglioso di appartenere a una religione di straordinario respiro ed ampiezza di visione; una religione che riconosce tutte le vie di adorazione di Dio come ugualmente valide, anzi, la sola grande religione nel mondo che non pretende di essere l'unica vera religione. Il fondamentalismo induista è una contraddizione in termini, dal momento che l'induismo è una religione senza "fondamentali", in cui non esiste qualcosa di simile all'eresia. Come osa un manipolo di santoni immiserire la sublime maestà dei Veda e delle Upanisad con il ristretto fanatismo del loro marchio identitario politico? Perché gli indù dovrebbero consentire loro di ridurre l'induismo a vociante autoesaltazione di hooligan da stadio, di prendere una religione di immensa tolleranza e ridurla a violenza sciovinista?
L'induismo, con la sua apertura, è rispetto per la diversità, è accettazione di tutte le altre fedi, è l'unica religione che è sempre stata capace di affermare se stessa senza minacciare le altre. Ma questo non è ciò che l'Hindutva vomita nelle diatribe piene d'odio dei suoi politici. Induismo autentico è quello di Swami Vivekananda, il quale, al Parlamento Mondiale delle Religioni a Chicago nel 1893, argomentò meravigliosamente l'umanesimo liberale che sta nel cuore del suo e del mio credo. Vivekananda affermò che l'induismo sta "sia per la tolleranza che per l'accettazione universale, perché non solo noi crediamo in un universale rispetto, ma accettiamo tutte le religioni come vere". Egli citò un inno: "Come le diverse correnti che hanno le loro sorgenti in luoghi diversi mescolano le loro acque nel mare, così, o Dio, i differenti sentieri che gli uomini percorrono secondo le loro differenti tendenze, per quanto diversi appaiano, tortuosi o diritti, tutti guidano a Te". La visione di Vivekananda – riassunta nel credo Sarva Dharma Sambhava – è in realtà il genere di induismo praticato dalla grande maggioranza degli indù, la cui istintiva accettazione delle altre fedi e forme di adorazione è da tempo l'impronta vitale dell'indianità.
Vivekananda non ha fatto nessuna distinzione tra le azioni degli indù come popolo (ad esempio il garantire asilo) e le loro azioni come comunità religiosa (tolleranza delle altre fedi): per lui, la distinzione era irrilevante poiché l'induismo è sia una civilizzazione, sia un insieme di credenze religiose. "Gli indù hanno le loro colpe – aggiungeva Vivekananda – ma sono sempre per punire i loro corpi e mai per tagliare le gole dei loro vicini. Se un indù fanatico brucia se stesso sulla pira, egli mai accenderà il fuoco dell'Inquisizione".
È triste che queste tesi di Vivekananda siano contraddette nelle strade da coloro che gridano di far rivivere la sua fede nel suo nome. "Questi indù militanti", ha osservato Amartya Sen, presentano l'India come "un paese di idolatri intolleranti, di fanatici deliranti, di devoti agguerriti e di assassini religiosi". Discriminare l'altro, aggredire l'altro, uccidere l'altro, distruggere il luogo di culto dell'altro non fa parte del dharma indù così meravigliosamente predicato da Vivekananda. Perché mai le voci dei capi religiosi indù non si alzano in difesa di questi fondamenti dell'induismo?
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Il giornale su cui è uscito l'articolo:

> The Times of India

E il sito web dell'autore:

> Shashi Tharoor

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